35 anni che non ci manca Berlinguer

pci

 

(estratti da “In Cammino verso una nuova epoca” di Gianfranco la Grassa, introduzione di G.Petrosillo, Avatar edizioni)

Negli anni ’70, il cortocircuito ideologico all’interno del Pci (principiato nella fase post-bellica, anche come effetto della spartizione delle zone egemoniche tra Usa e Urss che fissavano i limiti di espansione dei blocchi) diventò irrimediabile, accelerando le deformazioni della “linea” (rammendata da lunga pezza e oramai ridotta ad atto di fede verso i dirigenti e la causa) e le degenerazioni dell’apparato. Il compromesso storico ne fu l’apice. Il partito comunista diventò staffa di governo, benché esterna allo
stesso per la ben nota conventio ad excludendum.
Quel clima di smobilitazione ideale e di rivestitura moralistica delle numerose falle teoriche, sospinte sotto il tappeto per decenni, garantì l’ascesa ai piani alti di Botteghe Oscure dei peggiori traditori filo-americani, cresciuti come serpi in seno nei gangli dell’organizzazione. Berlinguer (quello che nascondeva la testa sotto l’ombrello della Nato) e Napolitano, il comunista preferito da Kissinger, il primo tra i compagni ad approdare sulla “West Coast”, furono i principali rappresentanti del cedimento all’acerrimo nemico. La resa fu totale ed a rimetterci fu l’intera nazione che continua a pagare la mancanza d’indipendenza, in ogni suo attore istituzionale e “corpo speciale”, anche adesso. Il Pci smise di alimentare alternative all’american way of life e ne divenne anzi ambasciatore, velatamente e via via scopertamente con la caduta del Muro di Berlino, modificando, già all’indomani di quell’evento spartiacque, simbolo e ragione sociale. Il processo però veniva da molto lontano. Occhetto e compagni(a), con finta sofferenza, liquidarono la baracca ma non furono loro gli artefici di quell’epilogo che, anzi, li aveva selezionati per autoadempiersi, prima ancora che costoro arrivassero ad occupare il davanti della scena. La storia crea giganti per le grandi imprese e nani per concluderle…Storicamente, è il golpe cileno del ‘73 l’evento rivelatore, quello che fa trasparire quanto si andava elaborando nella segreteria picciista. In quell’anno Berlinguer, approfittando di un’interpretazione errata dei fatti della Moneda (e di quanto sarebbe potuto avvenire anche in Italia), s’inventò la necessità di un compromesso storico tra le forze responsabili del Paese. Si voleva evitare una possibile svolta autoritaria ma l’occasione fu più che altro propizia per un salto di campo dei comunisti, i cui vertici avevano ormai deciso di entrare a far pienamente parte del cosiddetto “occidente” a guida statunitense.
Nell’ottobre dello stesso anno il segretario comunista esce malconcio da un “incidente” in Bulgaria. I servizi segreti dell’est, non necessariamente il Kgb, vollero dare un preavviso al politico che si stava spingendo troppo oltre le sue possibilità, dettate dal contesto geopolitico. In ogni caso, la strada del dialogo tra Dci e Pci, approntata in quei termini da Berlinguer, non piaceva affatto a Moro, il quale non è mai stato vero interlocutore di quella svolta che si concretizzerà, sebbene in forma ancor più ambigua, solo nel ’76, con il governo della “non sfiducia” di Andreotti.
Piuttosto, all’interno della Dc furono gli elementi della sinistra ad intavolare le vere trattative. Sono gli stessi protagonisti che condivideranno, sempre con il comunista sardo, la linea della fermezza allorché le Br rapiranno Moro.
Su questa triste vicenda risultano interessanti le dichiarazioni rilasciate, qualche anno prima di morire, dal regista Pasquale Squitieri. Secondo quanto afferma il cineasta, il Presidente Leone aveva già firmato la grazia per alcuni brigatisti che non si erano macchiati di reati di sangue. Si sarebbe dovuto effettuare uno scambio con i terroristi per liberare il politico di Maglie ma Benigno Zaccagnini ed Enrico Berlinguer fecero saltare i negoziati. Era stato proprio Leone a rivelarlo, aggiungendo che quest’ultimi erano davvero pericolosi. E’ ovvio, tuttavia, che questi “pericoli pubblici” avevano le spalle molto coperte, essendo a contatto con ambienti Usa che stavano approntando una strategia di distacco del Pci dai sovietici.
L’eurocomunismo era il volto presentabile di questo piano internazionale che destrutturava i partiti comunisti europei per il medesimo obiettivo di allontanamento dalla “casa madre”. Non dimentichiamo che nell’aprile ’78, un mese prima dell’omicidio di Moro, c’era stata pure la gita culturale di Napolitano in America. Una insolita condensazione di eventi che produce significative alterazioni sulla vita politica italiana. Alterazioni che solo un quindicennio dopo, con il collassamento del campo socialista, si mostreranno in tutti i loro decisivi effetti. Basta mettere insieme i pezzi del puzzle per giungere a delle conclusioni: 1) delitto Moro, 2) implosione dell’URSS, 3) cambio di nome del PCI, 4) liquidazione giudiziaria della prima Repubblica.
Chi si salva da questa immane tempesta storica che tutto cambia eccetto, appunto, qualcosa? Gli ex comunisti e la sinistra DC. Sono loro l’eccezione, i prescelti per gestire la transizione da un’America (quella del bipolarismo) all’altra (quella del monopolarismo), in tempi non sospetti, quando i sintomi del mutamento mondiale erano ancora emergenti.
Gli anni ’80 ultimano, per così dire, le azioni del decennio precedente. La sconfitta delle maestranze della Fiat e la marcia dei 40.000 quadri chiudono definitivamente un ciclo lunghissimo di contrapposizioni parossistiche ma sterili fondate su paradigmi ideologici del tutto ossificati. Berlinguer, pur recandosi ai cancelli di Mirafiori per solidarizzare con gli operai, rimase in fondo soddisfatto «dell’insuccesso dello sciopero…In fondo venivano presi due piccioni…ecc. Si stabilì l’alleanza con la “sinistra” del partito (di cui la Fiom era la punta di diamante) e, nello stesso tempo, si dimostrò l’inanità di certa agitazione operaia radicale alla gran parte della base elettorale. Ne venne rafforzata la via del “moralismo”, dell’alleanza con i “cattolici” (in realtà con la Dc, soprattutto “di sinistra”) e dell’uso spregiudicato dei punti di forza conquistati nel campo culturale e nella magistratura»…La Grassa non ha dubbi in merito, le responsabilità maggiori della deriva nazionale ricadono su «quella che impropriamente continua ad essere chiamata “sinistra” alla quale sarebbe stato necessario opporre, a tempo debito, un’autentica forza di autonomia nazionale “che attuasse una feroce repressione dei rinnegati del piciismo, una loro definitiva eliminazione in quanto cellule cancerogene prodotte da un processo nato con la segreteria Berlinguer…
C’è discontinuità, ma non troppo, quando nel 1973 Berlinguer (assurto alla segreteria l’anno precedente, ma già assai influente da vicesegretario nel 1969) progredisce, con la distorsione del significato del colpo di Stato in Cile, nella svolta piciista filo-atlantica, che procede con lentezza – voluta dagli americani (si vedano, nel periodo del compromesso storico e del governo andreottiano di unità nazionale, nel 1976, le dichiarazioni dell’ambasciatore americano Gardner 2 ) – fino al viaggio di Napolitano negli Usa (1978) e anche dopo. Certamente rilevante è il finto appoggio berlingueriano (infatti arrivato con sorpresa di molti) allo sciopero degli operai della Fiat nel 1980, con quasi ricercata sconfitta, pur se verificatasi ufficialmente
con la “marcia dei 40.000 quadri”, ovviamente non organizzata dal Pci. Gli eventi particolari danno sterzate in questa o quella direzione, ma l’orientamento di fondo è spesso quello nella sostanza voluto. Berlinguer, con quella mossa, sconfisse la (non ufficiale) corrente amendoliana, alleandosi alla sedicente “sinistra” del partito, che prese poi la testa nel voltafaccia del post “crollo del muro”; quella “sinistra” che assai più tardi (nel 2011) ha appoggiato gli Usa nel falso “risorgimento arabo”. I rinnegati, una volta preso l’aire, non si arrestano, non svoltano, procedono imperterriti con progressione esponenziale. Ogni traditore non può più tradire il suo tradimento; può attenuarlo, mascherarsi, fingere, ma sempre rinnegato e traditore è obbligato a restare (per motivi politici più che psicologici)…
Il 14 febbraio il «membro della segreteria del Pci» Giorgio Napolitano ha una «breve conversazione» con un diplomatico americano, probabilmente Martin Wenick, che nell’ambasciata curava i rapporti col Pci. L’ambasciatore Gardner due giorni dopo ne informa Washington con un telegramma di quattro pagine intitolato Views of Pci Official – le opinioni di un dirigente del Pci. «Durante la breve conversazione con un addetto dell’ambasciata l’alto funzionario del Pci ha sottolineato la preoccupazione del suo partito per la prolungata durata della crisi, ammettendo che c’è stato un certo confronto nella leadership del partito sul modo di gestire le conseguenze del discorso di Berlinguer al Comitato centrale», ma che comunque ora «il partito avrà il sostegno della base in una soluzione politica che garantisce un significativo passo in avanti nell’affermare l’influenza politica del Pci a livello nazionale» scrive Gardner.
Durante il colloquio, «Napolitano ha fatto sapere che intende visitare gli Stati Uniti per quindici giorni a partire da aprile sulla base di inviti ricevuti dalle università di Princeton, Harvard e Yale». Il funzionario americano mette subito le mani avanti e gli dice che «non ci sono prospettive di incontri con rappresentanti del governo degli Stati Uniti» sulla base della cornice politica disegnata dalla dichiarazione del 12 gennaio. «È la stessa valutazione che mi ha fatto il corrispondente dell’ Unità da Washington, Jacoviello, che ho recentemente visto a Roma», è la replica, e tuttavia Napolitano conclude così: «Attiro la vostra attenzione sulla moderazione con cui il Pci ha reagito alla dichiarazione del Dipartimento di Stato del 12 gennaio, in evidente contrasto con le posizioni prese da alcuni dei vostri alleati occidentali». Come dire, non sottovalutate le nostre aperture all’America. È un messaggio che Washington raccoglie, facendo venire meno le obiezioni alla visita che in precedenza erano state avanzate dall’ex segretario di Stato Henry Kissinger, consentendo così a Napolitano di diventare nell’aprile seguente il primo leader del Pci a sbarcare negli Stati Uniti”. (M. Molinari su La Stampa del 10 maggio 2012)…Nel 1973 vi fu, senza apparenti scosse brusche, la svolta (nascosta) del Pci verso l’atlantismo (Usa) che sorresse così l’azione dell’apparato (burocratico di Stato) sindacale. Si arrivò così al punto cruciale dell’accordo Agnelli-Lama sulla “scala mobile” del 1975; ancora una volta, il sindacato tirò la volata al partito verso la realizzazione del “compromesso storico”, adombrato fin dal 1973 da Berlinguer, ma attuato di fatto nel 1976 con l’appoggio al Governo Andreotti, detto di unità nazionale anche allora (chi non si accorge che “la storia si ripete ma in forme diverse” è assai superficiale); ovviamente, il tutto favorito dalla comune lotta al “terrorismo”, risposta sba-
gliata e perdente al cambiamento di campo (ancora mascherato ma già deciso per quando sarebbero maturati i tempi) del Pci. Da quel momento, non a caso, i tentativi della socialdemocrazia italiana (il Psi era un partito socialdemocratico, lo dico per evitare obiezioni dei “nominalisti”) furono tesi a evitare lo schiacciamento tra Dc e Pci. Non è una coincidenza che, nello stesso anno 1976, il Psi muta profondamente la propria linea politica con Craxi.
Due anni dopo, mentre il Pci invia il suo “ambasciatore” negli Usa per stilare accordi che appariranno alla luce del Sole appunto dopo il crollo sovietico, si verifica l’affaire Moro, i cui contorni non sono ancor oggi per nulla chiariti (anzi sono del tutto oscuri), salvo lo schieramento dei partiti: “sinistra” Dc e Pci per non trattare affatto e lasciare alla sua sorte lo statista diccì, buona parte dei democristiani e i socialisti interessati a salvarlo. Ci si dice, ormai da qualche tempo, che era stato infine scelto di intavolare una trattativa, ma che qualcuno suggerì ai brigatisti di uccidere Moro poche ore prima che venisse ufficialmente annunciata tale decisione. Non mi pronuncio perché la faccenda è rimasta sempre avvolta nella nebbia più fitta (potrei forse dire qualcosa in più ma rischiando l’accusa di diffamazione 3 ). In ogni caso, rilevo solo quelle posizioni: parte della Dc e Pci, già in fase di “compromesso storico”, stretti assieme nell’intransigenza, il nuovo Psi interessato a rompere questa tenaglia salvando Moro. Uscendo vivo, questi non avrebbe rivelato pubblicamente nulla, ma avrebbe saputo come agire nei confronti di chi non sembrava volerlo vivo. Ecco una pagina di storia che qualcuno dovrebbe chiarire; ma occorre una nuova generazione, che esca dalla putrefazione preparata fin da allora e attuata dopo il 1991, anche tramite l’operazione “mani pulite”…
In una intervista a Malcolm Pagani per il “Fatto Quotidiano”, del 17 settembre 2016, lo scomparso regista Pasquale Squitieri affermerà quanto segue: “All’epoca in cui rapirono Aldo Moro, l’odio era nelle strade. Mario Cecchi Gori incaricò me e Nanni Balestrini di lavorare sul caso e nella ricerca della verità, io e Nanni ci spingemmo molto in là. Ero amico di Giovanni Leone, il Presidente della Repubblica. Il 10 maggio del ’78, il giorno dopo il ritrovamento di Moro nella R4 in Via Caetani, Leone mi convocò al Quirinale. Era stravolto: ‘Avevo firmato la grazia per alcuni brigatisti in cambio della libertà di Moro.
Me l’hanno strappato di mano due persone. I nomi non te li dico. Fai il cinematografo, hai i figli, non voglio farti rischiare”. Il cineasta napoletano però i nomi li ottiene: “Uno era Benigno Zaccagnini e l’altro Enrico Berlinguer. Fermarono la Grazia concessa da Leone. Come mi disse il Presidente: “non sono persone pericolose, ma pericolosissime”.
Da anni (ma tanti, tanti) ripeto che Moro fu magari ucciso materialmente dalle BR, ma se ciò accadde esse di fatto agirono come semplice “mano d’opera”. Dietro c’erano certi ambienti americani, da me definiti “di riserva” perché di fatto, mentre quelli “ufficiali” seguono una data linea politica, questi preparano eventuali cambiamenti se diventano necessari…

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