(“Il Popolo al Potere” di Costanzo Preve, edizioni Arianna)

Scrivere la recensione per un testo di Costanzo Preve non è sicuramente un compito semplice. Preve è un filosofo nel senso antico della parola, capace di assaltare con coraggio ed antiaccademicamente le barricate innalzate a difesa delle torri d’avorio dove si sono arroccate le discipline scientifiche post-moderne, la cui pretesa scientificità è una mera mistura di autoreferenzialità specialistica e di linguaggi complessi. Preve, invece, insegue, anche in questo saggio, gli “universali”, fondando il proprio tentativo di comprensione del reale sul percorso veritativo che conduce al bene, contro i formalismi tipici (dalla democrazia delegata, ai diritti umani, alla guerra giusta) dell’ideologia di legittimazione dell’esistente capitalistico.

Il saggio in questione parte proprio con un’inversione filologica “non autorizzata” che dirotta la semantica del concetto di Democrazia: dal “potere del popolo” al “popolo al potere”. Tale operazione si rende indispensabile perché la stessa Democrazia è divenuta un mero “fantasma di legittimazione” che si definisce per sottrazione, che crea nemici per riempire il suo involucro formale: dal comunismo al fascismo fino all’integralismo islamico dei nostri giorni.

In realtà quella che il “Clero” mediatico di giornalisti e intellettuali allineati si ostina a chiamare Democrazia è, piuttosto, una oligarchia poggiante su una rete di mercati finanziari che domina il mondo attraverso una serie di apparati ideologici i quali, ingurgitata la soggettività sociale,  l’hanno resa incapace di guardare oltre la datità del reale.

Il popolo così inteso, un esercito di monadi rinchiuse nel proprio “privato sociale” che non partecipa alla vita activa della polis (se non mediatamente) vedrà sempre preclusa la propria possibilità di accesso al potere. Al contrario il popolo che si educa alla Democrazia è il popolo plurale di comunità liberamente organizzate che non delegano a terzi il proprio destino.

La Democrazia è, dunque, per Preve un processo dinamico che non ha nulla a che vedere con la ritualità elettoralistica del voto a scadenze prefissate. Il popolo che alle elezioni si reca alle urne per scegliere tra due mali, sebbene diversamente graduati, è già rinchiuso in una logica identitaria da stadio, che trova il suo climax nei caroselli post-voto.

Ma questo c’entra davvero qualcosa con la Demokrazia? Se la Democrazia è un processo di partecipazione diffusa di un tipo umano non riducibile al profilo sociologico dell’uomo-ultrà, è ovvio che oggi abbiamo sepolto la polis con tutti i greci. La Democrazia liberale dei nostri giorni è una mera risorsa simbolica nelle mani di lestofanti che la agitano come fosse un’arma mortale.

Per quanto non è tornando al modello di Democrazia ateniese che potremo recuperare il suo significato reale (questa è irrimediabilmente persa nell’irreversibilità del tempo storico) tuttavia, la Democrazia dei greci resta un modello insostituibile al quale ispirarsi, essa si realizza nell’ambito di un processo di educazione del popolo chiamato a decidere direttamente della propria comunità, in contrasto con la Democrazia della delega, occidentalocentrica e guerrafondaia.

La Democrazia antica era una Democrazia comunitaria che non poggiava sulla separazione liberale tra proprietà e libertà di poter dire qualsiasi sciocchezza, (purchè la sciocchezza resti sempre tale e non si traduca in azione criminale). La democrazia greca era, al contrario, sostanzialista e poteva dividersi solo tra le aporie di un “discorso giusto” e quelle di un “discorso ingiusto”. La stessa libertà democratica non poteva che definirsi esclusivamente insieme alla nozione e alla pratica di bene politico.

Cos’è recuperabile di tale concezione per noi moderni? Innanzitutto il modus operandi, la processualità del metodo democratico che vive nel suo stesso movimento verso il bene, nel suo andare incontro agli ultimi. La Democrazia così come la viviamo oggi è solo una declinazione di slogan ad uso e consumo di popoli tifanti  e plebi assetate di sangue. Ma, il vero spazio democratico è definibile come l’estensione di un processo educativo comunitario, laddove il popolo agisce collettivamente per il bene della propria collettività. La Democrazia diviene, in tal maniera, una manifestazione pratica e concreta di prevalenza del popolo nella  gestione della res pubblica che non ha nulla a che vedere con forme di governo o di Stato. La Democrazia, così esplicitata, non è semplicemente una forma di disciplinamento di soggetti neutralizzati in “cerimonie pubbliche di autorappresentazione estatica” direzionati dai dominanti a proprio piacimento.

Preve conclude il suo saggio (che certo non si esaurisce nell’epitome da noi fatta) con una presa di posizione forte e coerente: “Noi non viviamo in una Democrazia ed è bene non credere a tutti coloro che vogliono rassicurarci, dicendo che in fondo, viviamo in una Democrazia, sia pure limitata, minacciata, imperfetta, migliorabile ecc.”. L’autore auspica, comunque, l’avvento di una Democrazia diversa dall’attuale che non solo è possibile ma addirittura necessaria. La Democrazia è necessaria “Perché solo la pratica comunitaria della Democrazia può influire su quel decisivo livello dell’identità umana che è la socializzazione pacifica e razionale”. Se Preve ha dunque ragione, e noi lo crediamo, l’opera di educazione al processo democratico non può che partire dalla consapevolezza che quello che oggi chiamiamo Democrazia sia solo un simulacro celante i giochi strategici delle oligarchie dominanti.