LA (FALSA)SUPREMAZIA DEL CAPITALISMO FINANZIARIO (a margine di un articolo apparso su COMEDONCHISCIOTTE di James Petras)

 

Purtroppo, a più riprese, sui vari fogli on-line della sinistra antiglobalizzazione e anticapitalistica appaiono analisi e disquisizioni sull’imminente caduta dell’impero americano, schiacciato sotto il peso della finanziarizzazione della propria economia che, a quanto pare, starebbe generando una serie di bolle speculative da crollo stile ’29. Ammesso e non concesso che ciò possa verificarsi, e che, come già successo in passato, i danni di tale cataclisma finiscano per scaricarsi soprattutto sui paesi direttamente legati all’economia Usa (più che sul paese in questo momento dominante), non è l’esplosione di bolle speculative che annuncia la fine della supremazia americana nel mondo o la inesorabile caduta del sistema capitalistico. Queste analisi apocalittiche sull’irreversibile ultimo stadio finanziario del capitalismo  (le quali fanno il verso alle ormai vetuste, nonché contraddette dalla storia, analisi del superimperialismo dei monopoli) dimenticano che già nel ’29 non si verificò nessuna caduta del capitalismo ma una rimodulazione e uno spostamento di equilibri tra gli agenti dominanti capitalistici. Per quanto le cadute delle maggiori borse internazionali determinarono il fallimento di banche e industrie in tutto il mondo e bruciarono i risparmi di tante persone, la crisi non ebbe gli stessi effetti per tutti e c’è chi continuò ad arricchirsi e ad accumulare(processo che continuerà ad accentuarsi durante e dopo la guerra) tra il disastro dei più. La situazione si risolverà solo alla fine della II guerra mondiale (passando attraverso vari fascismi) dalla quale emergerà il nuovo ordine bipolare Usa-Urss.

In tale visione, l’errore più grave è nel considerare la momentanea supremazia del capitale finanziario come antitetica al più lungimirante capitalismo industrial-produttivo. Tuttavia, se si abbandona questa prospettiva e si pensa al capitale finanziario come indispensabile per procurarsi le merci di cui ci si deve servire per apprestare le strategie del conflitto, si comincia ad illuminare la notte delle vacche bigie. Tenendo ben presente che gli agenti strategici finanziari sono parte integrante del conflitto interdominanti, che le classi finanziarie dei vari paesi possono avere composizione e obiettivi diversi, si può più facilmente intuire che mentre, ad esempio, in Italia le stesse sono incapaci di approntare strategie aggressive e di lungo periodo (anche all’interno dell’Italia medesima) facendosi appoggiare dallo Stato per raschiare il fondo del barile, la classe finanziaria americana è indispensabile al mantenimento della supremazia monocentrica statunitense. Le imprese cosiddette produttive, quelle che trasformano dati input in dati output, hanno bisogno di risorse finanziarie per l’acquisto di materie prime e mezzi produttivi, e più innovativi sono i prodotti che si ricercano e si realizzano, più queste risorse devono essere grandi.

E’ chiaro che essendo questo sviluppo non omogeneo ed orientato al conflitto, si succedono fasi più o meno acute di crisi, dovute alla lotta interdominanti all’interno del proprio campo geografico di riferimento(differenti strategie di dominio che si confrontano/scontrano in ambito nazionale) ma tutte con l’obiettivo “esterno” di conquistare vaste zone d’influenza e di maggior controllo delle risorse. Da questo punto di vista, dunque, senza la finanza che reperisce risorse, nessuna attività produttiva sarebbe possibile, e, soprattutto, su una scala vieppiù crescente, non sarebbe possibile la spudorata ingerenza negli affari altrui attraverso la sfera finanziaria, visto che non a tutti si può dichiarare guerra. Il capitalismo non si può, allora, snocciolare per stadi successivi e lineari, per cui dal primo stadio accumulativo e produttivo, si giunge, quasi per un’ ineluttabile necessità di sviluppo intrinseco, ad uno stadio di stagnazione e decadenza che coincide col predominio del capitale finanziario. Occorre, invece, pensare questi passaggi come complementari, benché mutevoli e legati a diverse strategie più o meno aggressive e più o meno efficaci, che cambiano da paese a paese (da quelli dominanti a quelli semicentrali, o addirittura non centrali). Per quanto produzione e finanza finiscano per autonomizzarsi l’una dall’altra, danno entrambe vita ad imprese che “lavorano” e producono output di diverso tipo, indispensabili gli uni agli altri. Sia i marxisti che gli economisti di sistema hanno sempre pensato che c’è un limite alla supremazia finanziaria oltre il quale l’impresa produttiva si spegne o viene strozzata nella sua capacità di creazione di valore, ma si tratta di reversibilità congiunturale e mai di irreversibilità stadiale. C’è qualche elemento di verità in questo, basti pensare all’Italia di questi ultimi anni, ma ciò che vale per l’Italia non vale per gli Usa (il paese centrale) dove la finanza non succhia meramente energia allo Stato e va letteralmente alla conquista del mondo. Allora la miopia di queste analisi, che colpisce tanto l’economia ufficiale quanto quella critica, è legata soprattutto ad una prospettiva economicistica che pensa il capitale finanziario, non in combutta, ma in contrapposizione alla “produzione pura”. L’eccessiva finanziarizzazione non consentirebbe all’imprenditore di ottimizzare la combinazione dei fattori produttivi, o di innovare con facilità, o di ottenere il massimo con le risorse disponibili, tuttavia distaccandosi da tale razionalità strumentale e assumendo come chiave di lettura teorica la razionalità strategica, si può uscire da questo vicolo cieco, che paventa, a periodi alterni, catastrofi e collassi da ultima spiaggia. Obiettivamente è proprio tale dinamismo che impedisce la putrescenza del capitalismo, le funzioni decisive non sono legate né alla direzione dei processi produttivi né alla proprietà dei mezzi di produzione. Certo queste ultime funzioni sono importanti, la caratteristica del capitalismo è proprio quella di penetrare con le sue contraddizioni nella sfera economica, laddove, in altre epoche, il conflitto penetrava soprattutto nella sfera politica. Ciò non toglie, però, che il punto di condensazione “determinante in ultima istanza” non è l’economia in sé stessa, bensì il conflitto interdominanti che attraversa con la sua dinamica le diverse sfere sociali generando continue rotture e crisi che, per il momento, hanno mostrato un’abbondante reversibilità.

Come si può pensare che il capitalismo stia per crollare? Nell’articolo di James Petras si legge che ha causa della supremazia delle banche negli Usa, il debito pubblico americano è raddoppiato in cinque anni, che il paese si è deindustrializzato e che la povertà ha raggiunto livelli paurosi. Tuttavia, lui stesso dice che i profitti delle quattro maggiori banche Usa (G.S., Morgan Stanley, Lehman Brothers e B.S.) sono pari 22.900 milioni di dollari per anno. A tale somma andrebbero aggiunti i profitti di Citigroup, Jp Morgan e Merrill Lynch pari a 50 milioni di dollari per il 2006. E’ questa vi sembra una situazione da disastro? Queste banche governano il sistema bancario mondiale, stabiliscono quali investimenti si fanno e quali no, in qualsiasi parte del mondo. La G.S., solo per fare un esempio, sta facendo di tutto per impedire che le società russe dell’acciaio e del gas stringano intese e facciano fusioni con imprese del medesimo settore in Europa. Questa si chiama strategia e vale più di qualsiasi debito pubblico o bilancia commerciale in deficit, argomenti con i quali ci torturano i nostri tristi governanti da strapazzo. Metterei, invece, la questione in questi termini: gli agenti strategici finanziari americani fanno guadagnare dominio e supremazia agli Usa contro gli agenti strategici di altri paesi che contendono agli Usa il controllo di aree d’influenza e risorse economiche. Qui si verifica una confluenza d’intenti e di obiettivi tra i vari agenti strategici che compongono la formazione economica-sociale nordamericana, che comprende il governo americano stesso. Tale avanzata non si deve tuttavia considerare come irreversibile e cieca alle esigenze più impellenti della produzione materiale. Gli agenti strategici politici, finanziari e industriali potranno anche decidere che la strategia ad un certo punto deve mutare perchè muta “l’ambiente esterno” a causa di fattori che possono essere sia di tipo esogeno che endogeno. La finanza, in tal caso, riverserà il denaro in attività di ricerca e di sviluppo, nelle attività considerate di punta e nei nuovi settori innovativi che possono trainare la crescita (la finanza americana continua a svolgere questo duplice ruolo, non ha caso si tratta del paese che registra più brevetti ogni anno e che spinge con forza per l’innovazione di prodotto e di processo). Noi italiani invece ci accontentiamo dello 0,3% di crescita, i nostri politici ci parlano di trenini da agganciare e si vantano di una crescita occupazionale dello 0,1%. Questa sì che è stagnazione e putrescenza, non del Capitale però, ma di una nazione sempre più misera politicamente e culturalmente, oltre che economicamente.