UN PRIMO CHIARIMENTO

di G. La Grassa

 

Vorrei risultasse evidente che, almeno per me, la sinistra non ha nulla a che vedere con il comunismo. Considero Rifondazione o il PdCI di sinistra, ma precisamente perché l’aggettivo comunista, da queste formazioni politiche utilizzato (credo che la prima lo dismetterà tra poco), è una semplice presa per “i sissi e biribissi”. Esse sono di sinistra, ergo non comuniste. La sinistra, in specie quella italiana, è sempre stata un’accozzaglia di maneggioni, arrivisti, trasformisti, con rarissimi uomini di buona levatura (e in altra epoca, non certo negli ultimi 30 anni); in particolare, è da troppo tempo intrisa di un misto di ipocrisia e di rinnegamento dei valori ufficialmente dichiarati, ed usa sistematicamente la menzogna come proprio strumento d’elezione. Non si tratta di nemici aperti, da rispettare, ma di individui viscidi e melliflui, da tenere a debita distanza; soprattutto mai voltando loro la schiena, perché il colpire a tradimento è il loro usuale comportamento.

Li ho d’altronde sempre considerati così da quando sono divenuto comunista nel 1953 (salvo, lo ripeto, qualche rara eccezione, e all’inizio); tale atteggiamento mi è stato insegnato dai compagni di quel tempo assai diverso. Oggi, non mi dichiaro più comunista, ma non certo perché mi sia pentito di quella scelta. La rivendico invece con orgoglio. Posso ammettere che il comunismo ha compiuto azioni non encomiabili. Sarebbe tuttavia da discutere se chi ha commesso certi misfatti fosse effettivamente comunista, perché del termine è stato fatto un eccessivo uso o abuso. Non è però questo l’essenziale; non credo che nulla di nuovo nella storia sia mai stato esente da macchie e infamie. Le migliori intenzioni a volte, come si dice, servono a “lastricare le vie dell’Inferno”; eppure le intenzioni – in particolare di quelli che hanno dato la vita o l’hanno interamente consumata nel sacrificio di ogni benessere per lottare – hanno in ogni caso la loro importanza. Inoltre, non permetto a chi difende il capitalismo di fare la morale ai comunisti. Tale società si è formata tramite il massacro, l’indigenza, la fame e miseria nera di decine di milioni di individui; ha compiuto efferate imprese coloniali con altre decine di milioni di morti e affamati; la sua parte oggi più avanzata (e che ha dato vita a quella che denomino “società dei funzionari del capitale”) è nata da un capillare genocidio, e il suo metodo principale di “libera concorrenza” è stato l’uso di Colt e Winchester, l’omicidio, la lotta tra gang, ecc. Chi sta con questa società non dovrebbe nemmeno permettersi di ergersi a giudice di chicchessia. 

Non posso comunque definirmi oggi comunista perché per me il comunismo era effettivamente ciò che sosteneva Marx: “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. Indubbiamente, sono stato per certi versi leninista più ancora che marxista; per cui non ho mai creduto che “il movimento”, nella sua spontaneità (o con un semplice supplemento di organizzazione assai “leggera”), avrebbe mai realizzato una nuova società. Se si crede al Machiavelli – e si può essere così sciocchi da non credergli? – occorre molta forza, astuzia, coordinamento di azioni multiple, alcune scoperte altre sotterranee, ecc. Quindi, per me, il partito leninista non era un feticcio da adorare, ma semplicemente un marchingegno costruito mediante il “normale e sensato” uso del nostro cervello. Pensavo però che servisse soltanto a travolgere gli ostacoli e le resistenze di una “classe morente” onde aprire la via al “movimento reale ecc. ecc.”. Non era così, dato che la dinamica della società capitalistica non è stata esattamente quella prevista da Marx; non perché questi fosse preda di utopie – come sostengono molti superficiali che si danno arie di intenditori di Marx – ma perché ogni analisi scientifica commette errori.

Marx ha sbagliato, punto e a capo. Sono convinto che la classe, di cui egli vide l’ascesa e predisse il tramonto (e con grande acume, secondo il mio parere), fosse la vera e propria borghesia; ma dopo la sua eclissi non fu ineluttabile la “liberazione dell’Umanità” da parte del “proletariato”, da parte della “Classe Operaia”; è venuta invece un’altra società, fondata comunque su mercato e impresa, su “classi” dominanti (gruppi di oppressori) per nulla morenti, mentre la pretesa classe universale si è rivelata composta da una svariata congerie di spezzoni del lavoro comunque salariato (ma non certo intrinsecamente, in sé, rivoluzionario). Ed è ovvio che, stando così le cose, nemmeno il partito leninista poteva funzionare come si era pensato dovesse funzionare; tuttavia, guai a “buttare il bambino….”, con quel che segue. L’analisi dei mercati e del conflitto intercapitalistico deve tener conto di Marx, deve ripartire da lui, ma smettendola con ogni forma di accademismo, di ossessiva discussione intorno a certi “schemi” (matematici) della teoria del valore; deve ripartire proprio dai suoi errori di previsione in fatto di dinamica sociale e dal semplicismo della sua “divisione in classi antagoniste” del capitalismo. La discussione circa la politica della trasformazione sociale non può che prendere le mosse dall’importanza decisiva attribuita da Lenin all’organizzazione – il Movimento è il peggior nemico di chi vuol trasformare, è un importante alleato dei “funzionari del capitale” – ma senza più il “certificato di garanzia” della rivoluzione mondiale verso cui tenderebbe, per oggettive tendenze interne al capitalismo, il proletariato presunto internazionalista.

Fra l’altro, il capitalismo non unifica per nulla il mondo; amplia i mercati (e li “approfondisce”), collega le varie parti in un Tutto, omogeneizza “orizzontalmente” certi comparti sociali (e più verso le aree di vertice che alla base!); ma il suo sviluppo si fonda sull’irriducibile conflitto tra frazioni dominanti per la supremazia – sia pure attraverso epoche cicliche di accentuazione e smorzamento dello stesso – con la costante presenza di una tendenza allo sviluppo ineguale delle diverse parti del capitalismo, in sede nazionale come internazionale. Un processo intuito da Lenin, ma da lui considerato come mera fase (stadio) di una società tendente all’unità centralizzata; fase da utilizzare per la rivoluzione, ma comunque soltanto transitoria. Invece no, è permanente. Il capitalismo non finisce, non si spegne, non muore e nemmeno ristagna per sua intrinseca natura; ricrea però periodicamente le condizioni per il suo rivoluzionamento, in direzioni per nulla affatto prefissate come voleva il marxismo (e anche il leninismo): quelle direzioni molteplici che – provvisoriamente e in mancanza di concetti adeguati, per la ricerca dei quali il marxismo serve a molto poco – ho raggruppato nelle due grandi “classi” della “rivoluzione” dentro e contro il capitale.

Per quanto ho sintetizzato in queste poche righe, è evidente che non posso più definirmi comunista, perché per me esserlo non è banale “impulso morale”, pio desiderio di un “uomo tanto buono” che ama i suoi simili. Odio, lo ammetto, questi fatui moralisti. Mi irritano con il loro comunismo d’accatto, con la loro bontà lagnosa; anche perché, per la maggior parte, non sono sinceri, bensì ipocriti e sepolcri imbiancati. Sono inoltre melanconici residuati di un fallimento, ma invece di ammetterlo e di ricominciare a pensare, sollecitando le nuove generazioni ancora libere dalle nostre ideologie di necrofili, si accaniscono nelle loro fissazioni e tentano di rovinare qualche giovane che avrebbe altre potenzialità. Logicamente, dato che i dominanti non sono fessi, li finanziano (poco) e li aiutano a trovare spazi (pochi ma li trovano) in ambito accademico, editoriale, nei mass media, nella fondazione di “centri studi”, dove si studia in realtà come deviare le menti di chi potrebbe dare qualcosa, al fine di instradarle lungo binari morti. E questi “duri e puri”, che recitano “a soggetto” la parte dei comunisti e marxisti, poi “si degnano” – tanto per andare anche nel concreto – di appoggiare elettoralmente i vari Cacciari e Veltroni, e in genere il centrosinistra, ecc.

Non sono di questa pasta; e dunque, poiché non sussiste alcun “movimento reale…ecc.”, mi dichiaro non più comunista, ma provo solo disprezzo per chiunque mi voglia dare del pentito. Non mi pento di nulla, non considero il movimento comunista – quello vero, non quello dei piccoli gruppi odierni di semplici imbroglioni – un insieme di criminali, bensì di grandi personaggi che hanno tentato l’“assalto al Cielo”. Questo assalto non ha però sortito risultati entusiasmanti; e io voglio, tra mille difficoltà e verso la fine della mia vicenda “biologica”, ripensare l’intera vicenda (pratica e teorica) e tentare di trasmettere qualcosa di questo ripensamento. Tuttavia, non ho nessuna simpatia per il capitalismo, non prendo affatto la fine del comunismo come avallo della bestialità oscena degli attuali dominanti; so però che non si battono con l’impeto morale. Certamente anche mi sfogo e dico tutto ciò che penso sul loro conto e sul conto dei loro servi di sinistra, ma cerco pure di riflettere sul fallimento dei passati tentativi di batterli, onde trarne le lezioni che sono capace di trarre con quel poco di testa che ancora mi resta.

 Per concludere: anche se non sono più comunista, considero la sinistra – nella quale comprendo oggi gli avanzi dei falsi comunisti – come l’ho sempre considerata: un’accolita di opportunisti, intriganti, ipocriti. Va combattuta; e chiunque riuscisse a distruggerla andrà elogiato e premiato. Bisogna estirpare questa gramigna esiziale, che corrompe sia la politica che la cultura. E tuttavia, spero che questa forza distruttrice non sia l’attuale destra; come suol dirsi, Dio ne scampi e liberi! Sono però sicuro che ciò non può avvenire; la destra esistente è solo l’“altra faccia della Luna”, e tutti sanno che questa è invisibile. Ciò non significa che la destra non possa fare danni, ma non avrà mai le redini, quelle vere, quelle che guidano il cavallo. E se fa danni, è solo perché esiste la sinistra, una masnada di bricconi per liberarsi della quale una massa di ignari, non sapendo a che Santo votarsi, potrebbe riaffidare un ruolo maggioritario all’altra parte, nell’usuale “gioco degli specchi”. Ma sarebbe solo disperazione, dovuta all’insopportabilità di questa sinistra di inetti e bugiardi, strumento di frazioni capitalistiche parassitarie, a loro volta subordinate a quelle del paese imperiale centrale, che ci sta succhiando la linfa vitale.

Questo è intanto un primo chiarimento, che mi sembrava utile per chi legge.

 

17 febbraio