STORIE DI ORDINARIA PRECARIETA’

Spesso, quando si parla di precarizzazzione dei rapporti di lavoro, si rimanda ad una fantomatica possibilità di flessibilizzazzazione delle scelte. Sappiamo benessimo che così non è, nonostante le differenze filologiche con le quali i "sinistri" governanti cercano di scindere due concetti che vanno a braccietto, quali appunto flessibilità e precarietà

In realtà la flessibilità, baluardo ideologico degli Autonomi anni ’70(per la maggior parte operai emigrati dal Sud nelle fabbriche del nord) che si sentivano soffocare rinchiusi per 8-10 ore tra rumori assordanti e ambienti insalubri, era  un’alternativa per non morire tra le unità produttive della Fiat, ormai non più pienamente fordista e non ancora totalmente automatizzata.

Ma la flessibilità la creano i funzionari del capitale per  un uso "razionale" dei fattori produttivi nell’ambito dei processi di produzione (materiali o immateriali che siano), ovviamente indirizzati all’aumento del plusvalore e dei profitti (elementi intermedi che non sono fine sistemico bensì mezzi indispensabili all’approntamento di strategie di dominio). Se un’impresa fa profitti avrà risorse adeguate per mettere in atto strategie d’attacco contro i concorrenti. Ma anche il profitto può divienire elemento secondario laddove qualche perdita immediata garantisce la vittoria sul lungo termine (si pensi alla Microsoft che compra le piccole imprese di software solo per chiuderle), Allora possiamo continuare a sprecare le nostre migliori energie analizzando il modo di produzione e i suoi contenuti (forze produttive e rapporti di produzione), la cosìdetta analisi verticale, ma non si possono trascurare gli aspetti geo strategici e spaziali dei rapporti tra le forze sistemiche (partendo appunto dall’impresa fino ad arrivare ai rapporti tra Stati e continenti). Insomma una cartina geografica del potere può essere utile per capire in che direzione si sviluppa il mondo capitalistico e per tentare qualche provvisoria previsione.

Detto questo pubblichiamo una lettera inviataci da un amico che, per quanto personale, crediamo rigurdi la condizione di molti giovani precari, soprattutto al sud.

Nelle tue miserie riconoscerai il significato di un arbeit macht frei.Tetra economia quotidiana umiltà ti spingono sempre verso arbeit macht frei. Consapevolezza ogni volta di più ti farà vedere cos’è arbeit macht frei.
(AREA, Arbeit macht frei, Cramps records, 1973)

Ciao!
Per me questo è un periodo di bilanci, a me capita di farli almeno due volte l’anno – il 31 dicembre ed il giorno del mio compleanno. Oddio: non è che scoprirmi più vecchio di 365 giorni mi faccia star male, non è un problema esistenziale questo, questo proprio no.. è proprio altro.
Passare la mezzanotte del giorno che ha segnato il passaggio ai miei trentatré anni chino a lavare pentole, piatti e tegami, non è stato un bell’esordio.. come anche, nel pomeriggio dello stesso giorno, rinunciare (per quattro palanche) a passarlo a casa, tornare al lavoro con una stanchezza, negli occhi e nella testa, indicibile, non è (neppure economicamente, neppure questo) gratificante.
Certo, nessuno mi ha messo il mitra dietro la schiena e mi ha imposto di andare a lavare i piatti al ristorante; nessuno mi ha obbligato a farlo (certo, non ufficialmente.. la “scuola del sospetto” con me funziona bene..). Formalmente sono libero, libero di scegliere, libero di scegliere la mia vita.
Vorrei studiare. Mi manca il rapporto quotidiano con i libri, mi manca la possibilità di approfondire, di rimuginare una pagina. Ufficialmente sono libero; questo lavoro, adesso che mi hanno assunto con un regolarissimo contratto in nero (la norma, qui al sud) dopo quasi un anno e mezzo in prova (la norma, qui al sud) l’ho scelto io ed avrei potuto benissimo dire di no. Il bello è che se non hai lavoro, il parentame ti dice di cercarti un lavoro, se trovi un lavoro continuativo come lavapiatti ti dicono di lasciarlo perché è un lavoro di merda. Almeno chiudessero il becco..
Sai, la cosa più divertente – quando parlo con i miei fratelli (due fratelli e due sorelle, tutti più grandi di me) – è che loro mi sembra non si rendano assolutamente conto della differenza fra un diploma “tecnico” (entrambi i miei fratelli ed una delle mie sorelle sono diplomati in ragioneria; l’altra ha il diploma magistrale) ed uno di liceo. Nei fatti, uno/a con il diploma tecnico ha molte più probabilità di lavorare di quante non ne abbia io (con due perfezionamenti, ed un’abilitazione all’insegnamento). Un individuo, uomo o donna che sia, nato negli anni Cinquanta/Sessanta ha molte più probabilità di essere inserita nel circuito della produzione (im)materiale di quanto non lo siano coloro i quali (come me e molti altri) sono nati negli anni Settanta. Paradossalmente il sistema integra e protegge chi è già inserito (anche se sulla linea di confine fra lavoro e non lavoro) ma “dimentica” allegramente gli altri – che non sono solo i bambini gli anziani e le donne. Sono troppo giovane per avere la pensione al minimo sociale, troppo vecchio per essere appetibile per le aziende. E poi veteromarxista (che pena!, anche vecchio dentro..), lettore pressoché accanito dei Francofortesi. Un povero pirla, uno sfigato, insomma.
Ho trentatré anni, dovrei spaccare il culo al mondo, avere tanta di quella energia e voglia di vivere e di fare, dentro, da far paura. Non è così. Se dovessi misurarmi con mio padre o con il mio professore di filosofia del liceo, o con i miei fratelli, sono un fallimento su tutti i fronti. Mio padre lavorava dall’età di sedici anni (prima all’Annona, poi all’Esattoria Comunale), era finita la II^ Guerra Mondiale. Negli anni Cinquanta si è sposato, alla mia età aveva già un figlio. Il mio professore di filosofia del liceo, ex Sessantottino, alla mia età aveva un lavoro (fisso, come insegnante di filosofia) e due figli. Uno dei miei fratelli (commercialista) alla mia età era già funzionario di banca; l’altro, commercialista, si è sposato a trentatré anni ed ha avuto un figlio l’anno dopo. Mi rendo conto che il problema non è solo il mio. Si può provare a ragionare per astrazione, questa situazione non è vissuta solo da me. L’anima in pace, però, non la metto. Non è una situazione soggettiva, allora delle tre: o è intersoggettiva o è oggettiva o è oggettiva in quanto intersoggettiva (santa dialettica hegeliana!).
Nell’attuale situazione economica e sociale (che Prodi non riuscirà a risolvere, in quanto borghese e liberista, ed agirà sulle uniche leve che la borghesia gli mette a disposizione: l’espulsione dal mercato del lavoro, l’uso della leva della disoccupazione e della precarizzazione per comprimere il salario), la dimensione individuale rimanda direttamente alla oggettività della intersoggettività e non può che essere quella della hegeliana “coscienza infelice”. Infelice, perché il conto delle frustrazioni individuali supera di gran lunga il “saldo di soddisfazione”, la gratificazione interiore, che il modo di produzione capitalistico e la classe borghese pretendono abbia l’individuo (sempre che sia in possesso di Coscienza [oggettiva], e non sia invece alienata). Non posso dire di sentirmi gratificato. E guarda che mi misuro con la generazione precedente alla mia, non mi confronto con Napoleone Bonaparte (imperatore a poco più di trent’anni) o con Alessandro Magno (che a trent’anni aveva fra le mani un impero).
Il senso di frustrazione deriva dal fatto che, pur essendomi pro-gettato (Sartre, oggi sono una citazione continua) in funzione dell’insegnamento, non so effettivamente se a cinquant’anni sarò a contare i punti che mi separano dalla cattedra o se potrò effettivamente fare il mio lavoro e non piuttosto il gelataio con contratto a progetto (e sai bene che la legge 30 sul lavoro non verrà abolita). Già dopo la laurea, alla incerta prospettiva del dottorato (che anche allora mi attirava), ho preferito la concretezza della possibilità di insegnare. La SIS è stata una scelta obbligata, una doppia fortuna – aver fatto la SIS a Milano mi ha dato modo di confrontarmi con un altro mondo, rispetto a quello barese.
Ogni tanto, da amici e conoscenti, mi viene balenata la possibilità di un dottorato (che mi attira), ma so di non potermi permettere il lusso (economico) di
un dottorato. Non è per una questione soggettiva: ma quando alcuni soggetti di “sinistra” sparlano della legge Moratti perché la scelta precoce è una discriminante “di classe” – e mi ricordo alla fine della scuola media, i genitori di molti miei compagni di classe indirizzarono i figli alle scuole tecniche e professionali.. allora quella non era “selezione di classe”? –, perché non si considera una selezione di classe il percorso successivo alla laurea? Non è, anche questa, una forma di selezione di classe? Vai a vedere quanto costa un dottorato (senza borsa), o un master, poi vienimi a dire se non è una selezione di classe.
Non vedo rosee prospettive per i prossimi anni. Come si fa a volere insegnanti più giovani in cattedra se poi si bloccano le assunzioni, si aumenta il numero di studenti per classe, si cancellano le cattedre? Come si fa ad integrare un alunno straniero se i fondi per i mediatori culturali vengono tagliati? Blocco delle assunzioni; passaggio di insegnanti di religione cattolica (solo laureati, non in possesso dell’abilitazione) ad insegnamento di materia; passaggio di insegnanti di sostegno ad insegnamento di materia; passaggio di docenti con abilitazione ottenuta con corso interno (i famosi 365 giorni di supplenza) ad insegnamento di materia.. e chi me l’ha fatto fare, studiare, laurearmi, abilitarmi? Se tutto andrà bene, arriverò (come tanti altri) a cattedra a sessant’anni anni.
Non è questa la vita che vorrei, una situazione di questo tipo mi ricorda quello che Pasolini diceva dei genitori dei poliziotti (“Il PCI ai giovani”, è su www.pasolini.net/poesia_ppp_pciaigiovani.htm), né quella che vorrei offrire ad altri.
Scusa il delirio. Un abbraccio