Il dominio strategico sul profitto (di Gianluca Amodio)

 

In precedenti interventi presentati sul nostro blog abbiamo  sostenuto che al fine di una discreta comprensione delle dinamiche strutturali economiche della società capitalistica è necessario articolare e differenziare, per lo meno in sede teorica, la logica dominante che è alla base della suddetta formazione economico-sociale.

         Seguendo quanto affermato dallo studioso di derivazione marxista e leninista Gianfranco La Grassa nel suo ultimo testo [Gli strateghi del Capitale], si può ben dire che << tutta la scienza sociale, sia quella dominante che quella critica di tipo marxista, ha considerato il capitalismo come la società retta per eccellenza dalla razionalità del minimo mezzo o del massimo risultato[anche] la concezione di Marx circa la tensione del capitale al massimo profitto, estrinsecantesi nei metodi del plusvalore soprattutto relativo (metodi tecnico-organizzativi di conduzione dei processi produttivi), non è altro che l’applicazione, pur secondo le specifiche modalità capitalistiche…, del principio del minimo mezzo o del massimo risultato >> [Ibidem, p. 63].

         Da quanto riportato risulta, dunque – a (volere) ben vedere – che il variegato campo della ricerca socio-economica è in definitiva accomunato dal ritenere che nella  produzione capitalistica il principio secondo cui i soggetti agenti si muovono è sostanzialmente unico. Infatti, se i seguaci dell’economica dominante propugnano l’utilizzo del cosiddetto minimax nello stabilire la combinazione ottimale dei fattori produttivi – analisi codificata in particolare dai paradigmi della teoria neoclassica -, i ricercatori di tendenza marxista insistono anch’essi nel valutare centrale il ruolo del suddetto tipo di razionalità, la cui pervasività viene però criticata nella sua applicazione compiuta dai capitalisti per eseguire l’estorsione del pluslavoro/plusvalore – cioè lo sfruttamento a carattere capitalistico della forza lavoro – e poter così conseguire un profitto tendenzialmente massimo o comunque sufficientemente competitivo in relazione a quello ottenuto dalle altre unità produttive.

         Rilevato questo significativo tratto teorico che accomuna due "scuole" che usualmente (si) sono reputate  antitetiche, precisiamo che non intendiamo assolutamente misconoscere la rilevanza del principio del minimax (o per dirla con Max Weber, della razionalità strumentale) nell’osservazione dei fenomeni economici, men che meno sottovalutare la poderosa e grandiosa critica di matrice marxiana, la quale, anzi, rappresenta per noi una solida base ed un imprescindibile punto di partenza su cui impostare ogni eventuale ricerca. Insomma, non è minimamente nelle nostre intenzioni improntare un discorso in cui il fulcro dell’analisi sociale sia la semplicistica critica della razionalità strumentale e la conseguente sostituzione (a tavolino o in bel salottino) con una ad assoluto carattere etico-dialogico ( meno riprovevole ed ottima per purificare le coscienze!); e certamente non siamo intenzionati a dimenticare la grande lezione di Marx, per il quale il comunismo succede (per frattura rivoluzionaria) al capitalismo, per cui la critica  anticapitalistica         non può consistere in una reazione allo sviluppo delle forze produttive, ma, al contrario, in una azione esercitata collettivamente e consapevolmente su di esso. Come lucidamente sostiene La Grassa, contrastando le tante tesi della "decrescita" a sfondo (variopinto) antropo(eco)logico: << Nulla ci può salvare, se non accettiamo l’orizzonte dello sviluppo delle forze produttive nella forma della scienza e della tecnica…dimostrandoci tuttavia capaci di veramente controllarlo e indirizzarlo, senza l’inane intento di soffocarlo e reprimerlo. Non penso ci sia salvezza nel passato, ma solo – sperando che sia possibile – in un differente futuro>> [Gli Strateghi del Capitale, p. 67].

         A questo punto, evidenziata la "comunanza" di cui si è detto e respinti preliminarmente alcuni eventuali equivoci,  cerchiamo di chiarire la nostra posizione. 

         All’inizio dell’intervento abbiamo sostenuto che riteniamo necessaria l’articolazione della logica che sottostà al modo di produzione capitalistico. Bene, fino ad ora si è accennato solamente alla c.d. razionalità strumentale (sia   minimax che metodo di plusvalore) e alla sua incidenza per quanto attiene lo (studio dello) sviluppo delle forze produttive; tuttavia, vi è anche un altro principio estremamente significativo che è operante nell’ambiente economico della società capitalistica e che gli conferisce un aspetto particolarmente turbolente: quello definibile, secondo l’elaborazione di La Grassa, come razionalità strategica. Quest’ultima – lo si precisa immediatamente – non rappresenta un’alternativa a quella strumentale, piuttosto è una tipologia razionale che la sussume.

         Specificando quanto precede: il principio strumentale – in base alla nostra linea interpretativa – è quello che viene utilizzato all’interno di un insieme di unità produttive, facenti capo ad un’unica struttura aziendale, al fine di organizzare il processo lavorativo di trasformazione svolgentesi in un qualunque settore produttivo. In un simile contesto, ben delimitato, sarebbe impossibile non riconoscere il valore degli esiti raggiunti in virtù della combinazione efficiente di dati elementi produttivi; altresì sarebbe impossibile disconoscere che l’intera struttura gerarchica dei ruoli lavorativi e l’uso di certi metodi tecnico-organizzativi sono tesi esclusivamente ad estorcere dall’insieme dei lavoratori la massima quantità possibile di pluslavoro/plusvalore, dunque di profitto.

         Contestare tutto questo ci risulterebbe francamente un atteggiamento insensato; tuttavia, riteniamo che le suddette modalità trovino applicazione e siano valide solamente in un ambito – certamente importante, ma parziale – dell’economia capitalistica: quello interno all’impresa di trasformazione di x input in y output. La logica a razionalità strumentale, quindi, opera nei confini (più o meno ristretti, a seconda della dimensione) dell’impresa, intendendo con tale termine anche un aggregato conglomerato di unità aziendali giuridicamente differenti, ma connesse tra di esse mediante intrecci azionari e proprietari.

         La peculiarità dello spazio economico-produttivo capitalistico, però, non si risolve soltanto nella potente dinamica tecnico-organizzativa che attraversa l’interno delle imprese, ma consiste anche nella forte competizione (più o meno concorrenziale e/o oligopolistica) che si svolge in quel determinato luogo sociale che è il mercato. Questo, lungi dal poter essere rappresentato – secondo una classica trasposizione grafica – come una superficie piana su cui si posizionano tanti punti-imprese sostanzialmente omogenei ed aventi un potere equivalente (per lo meno nel lungo periodo), appare strutturato invece come una sfera nella quale si snoda una fitta trama di relazioni (e di interessi) tra più soggetti  che agiscono al fine del raggiungimento di una posizione di predominio (cioè una quota sempre più consistente) nei confronti dei competitori concorrenti. 

         Secondo la visione da noi considerata e (ri)proposta, il mercato, quindi, perde la sua classica connotazione della smithiana mano invisibile, ovvero smette di essere l’armonico luogo in cui si incrociano le molteplici esigenze dei portatori delle funzioni di domanda ed offerta di una qualunque merce, ed in particolare cessa di rappresentare quella sorta di totem cui i produttori devono assoggettarsi adeguando la loro attività in base agli indici dei prezzi e delle quantità settoriali. Lasciando dunque cadere queste ipotesi circa la configurazione del mercato, esso – per noi – va visto alla stregua di un ambiente ad elevata competizione nel quale entrano in collisione le differenti strategie poste in atto dagli agenti economici imprenditoriali, i cui comportamenti producono un sistema di relazioni estremamente dinamico in cui la posta finale (ma mai definitiva!) della lotta competitiva è la puntuale supremazia a carattere economico. 

         Affermando quanto sopra, intendiamo semplicemente evidenziare che nel complesso ambiente economico capitalistico la questione cruciale che si pone << non è né l’ottimale combinazione dei fattori produttivi, secondo i dettami dell’economica neoclassica, né il massimo profitto da ottenere con i metodi del plusvalore soprattutto relativo… così come sostenuto dal marxismo tradizionale. A parità di ogni altra condizione, si persegue l’efficienza economica, cioè il principio della massima economizzazione dei mezzi, ma solo se questa è in accordo con l’efficacia dell’attività svolta per prevalere nell’ambiente mercantile, uno spazio i cui confini e la cui trama interrelazionale interna sono tracciati dalle azioni conflittuali delle varie imprese in reciproca lotta. L’efficienza tende a conseguire il massimo profitto (plusvalore) che rappresenta il fondo cui attingere per svolgere con efficacia la competizione interimprenditoriale. Essendo però il successo in quest’ultima il fine principale perseguito da ognuno dei molti capitali in conflitto per la preminenza, l’efficacia è prioritaria rispetto all’efficienza >> [G. La Grassa Gli Strateghi del Capitale, p. 72].

         La predominanza che si evince dalla citazione del testo di La Grassa ben definisce il significato di quanto da noi precedentemente detto circa la sussunzione della razionalità strumentale in quella a tipologia strategica: ovvero, non si intende minimamente supporre la scomparsa della prima in ragione della presenza della seconda, ma si pensa invece ad una loro sostanziale coesistenza asimmetrica, effettualmente a dominanza strategica. Ancora con La Grassa: << l’efficacia nella lotta, e dunque la prevalenza conseguita tramite questa, è il fine supremo di ogni funzione capitalistica; l’efficienza nell’organizzazione interna ad ogni impresa – e dunque il perseguimento di quello scopo secondario che è il massimo profitto da conseguire con il miglior uso di dati mezzi (economica neoclassica), o con l’estrazione del massimo plusvalore da una data forza lavoro (marxismo) – è un semplice mezzo in relazione allo scopo principale, di carattere strategico e decisivo. Accade spesso che l’efficienza… entri in contraddizione con il fine principale, quello della migliore strategia per… conseguire la supremazia. In questo caso, si può ben sacrificare l’efficienza, si possono "sprecare" risorse, non seguendo perciò il principio (neoclassico) dell’economicità né quello (marxista) dell’estrazione del massimo pluslavoro/plusvalore >> [Ibidem, p. 73].

         Riproducendo ulteriormente le parole dello studioso, pensiamo che il nostro intento risulti ormai evidente: è  necessario considerare che i capitali(sti) in reciproca competizione produttiva concorrono attivamente, mediante l’approntamento e la definizione di determinate strategie (il più delle volte aspramente conflittuali, talvolta collaborative ed attendiste), al conseguimento di una posizione egemonica (in termini di quote detenute) nel mercato.        

         Siamo consci che affacciando una ipotesi del genere saremo molto probabilmente sottoposti a numerose critiche incrociate provenienti sia dai seguaci dell’economia main stream (che per errore dovessero imbattersi nel nostro blog) che dai compagni marxisti che hanno il piacere e la pazienza di frequentarci. Dai primi, di sicuro, il nostro ragionamento sarà considerato fumoso ed approssimativo, in quanto l’introduzione della razionalità strategica nella riflessione a sfondo economico parrà loro una indebita forzatura, una incursione, in un’analisi che si pensa solitamente neutrale  ed estranea all’osservazione dell’esercizio del potere (ritenuta più consona al pensiero prettamente politico) che è difficilmente riassumibile negli schemi resi coerenti dalla matematizzazione; dai secondi, invece, con molta probabilità, ci perverrà l’accusa di aver diluito i tratti salienti della produzione capitalistica in una generica soluzione  competitiva a carattere economico-mercantile, producendo conseguentemente un illegittimo spodestamento del (ruolo svolto dal) profitto a causa dell’originario e colpevole distoglimento dello sguardo dalla connessione marxiana tra il processo lavorativo e quello di valorizzazione.

         Dei due rilievi ipotizzati, il primo lo tralasciamo volentieri, dato che l’armamentario formale della economics, per quanto analiticamente possente, non sembra adeguato e men che meno intenzionato – ed in verità mai lo è stato! – a lacerare il velo delle logiche di potere capitalistiche, per cui, parafrasando ciò che sosteneva Giorgio Lunghini verso la fine degli anni ’70 [Sui modi di produzione della "scienza" economica, p. 5, in AA.VV. Scelte politiche e teorie economiche in Italia], gli scienziati sociali dediti alla ricerca dei princìpi dell’economia non dovrebbero stancarsi di comprendere come realmente agiscono i prìncipi della stessa (in questo caso anche una mera accentazione può servire a disvelare la coltre ideologica dei sofisticati tecnici!).       Riguardo alla seconda considerazione critica, invece, puntualizziamo affermando, innanzi tutto, che la nostra prospettiva non può cedere alla malevola tentazione di guardare alla produzione capitalistica alla stregua di un processo di trasformazione materiale (o elaborazione immateriale, secondo le odierne elucubrazioni dei profeti del general intellect) ad elevata ed avanzata capacità tecnica, in grado evidentemente di esitare una ingente quantità di beni e servizi grazie alla già esistente cooperazione del lavoratore collettivo, il cui unico fine sarebbe quello di sbarazzarsi del comando dispotico e proprietario attuato dai capitalisti e dai loro pochi seguaci. Rispetto a questa immagine parziale e distorta del capitalismo, vero e proprio riduttivismo a radice produttivistica con un innesto filosofico-escatologico che enfatizza ed attualizza alcune tendenze presenti nell’opera marxiana, ben figurerebbe, a nostro avviso (nonostante le riserve che andremo delineando), la classica ortodossia marxista: per essa la dinamica del modo di produzione capitalistico è da ritenersi un complesso processo sociale composto da un susseguirsi ininterrotto (pena la crisi) di fasi, il cui inizio è individuabile nella valorizzazione prodotta dalla estrinsecazione della forza lavoro, alla quale però succedono necessariamente la distribuzione, lo scambio ed infine il consumo, l’atto finale della sequenza che permette la realizzazione del profitto formatosi precedentemente nel corso dell’utilizzazione di quella merce particolarmente disgraziata – la forza lavoro – il cui valore d’uso risulta sempre maggiore del suo valore di scambio.

         In effetti, con una descrizione di tal fatta la riflessione teorica sembrerebbe tesa alla reale comprensione dei differenti momenti che scandiscono lo sviluppo dell’economia capitalistica, ed il risultato al quale si perviene << non è che produzione, disribuzione, scambio, consumo, siano identici, ma che essi rappresentano tutti delle articolazioni di una totalità, differenze nell’ambito di una unità. [Considerando però che] La produzione assume l’egemonia…[perché] Da essa il processo ricomincia sempre di nuovo… [anche se] Indubbiamente…la produzione, nella sua forma unilaterale, è da parte sua determinata dagli altri momenti. Quando per es. il mercato, e cioè la sfera dello scambio, si estende, la produzione cresce estensivamente e si articola intensivamente >> [K. Marx Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. 1, pp.25-26, ed. La Nuova Italia].

         Quanto in ultimo indicato dalle parole dello stesso Marx pone in risalto che << tra i diversi momenti si esercita un’azione reciproca >> [Ibidem, p.26], ed è giusto il carattere di questa interazione che ci preme esaminare e controllare.

         Come accennato in precedenza, il marxismo ha focalizzato la propria analisi nel rilevare la genesi del pluslavoro/plusvalore (suo grande merito!), ed ha inteso usualmente l’insieme del mercato capitalistico come la sfera di realizzazione del profitto, ovvero, richiamando la terminologia della teoria del valore-lavoro, come il luogo (astratto) della trasformazione dei valori in prezzi di produzione e del plusvalore in profitto. Ora, prescindendo dai problemi logici sollevati dalla questione della coerenza formale della suddetta teoria, ci sembra che la strenua ricerca di una adeguata spiegazione circa l’unidirezionalità del flusso della formazione del valore – cioè che una merce x  contenga un prezzo di produzione (un valore trasformato) ben prima del suo arrivo al mercato e dell’eventuale apprezzamento empirico – abbia comportato una duplice conseguenza valutativa dell’ambiente mercantile: questo è stato sostanzialmente visto come un ricettacolo passivo di quanto già stabilito durante la fase produttiva, e nel suo ambito può solo avvenire un confronto tra le unità produttive tenendo conto del valore da esse raggiunto, misurato in base alla massa ed al saggio del profitto.

Il mercato sembra assumere, dunque, l’immagine di uno spazio in cui si può verificare tutt’al più un raffronto oggettivo dei risultati effettivamente già conseguiti, che devono essere soltanto "realizzati". In questa maniera, è certo che viene rispettata la prescrizione marxiana, prima riportata, circa la "posizione egemonica" della produzione all’interno del più generale processo economico, ma è pur vero che viene meno del tutto anche quella che era indicata come "l’azione reciproca tra i diversi momenti".

         E’ probabile che il lettore che avrà avuto la pazienza di seguirci fino a questo punto, riterrà il nostro argomentare troppo fazioso, che i tratti osservati e posti in evidenza critica siano stati selezionati ad hoc per puro spirito polemico ed in maniera tale da nascondere i nostri limiti. Bene, a chi avesse ricevuto queste impressioni, vogliamo rincarare la dose e ricordare la fine fatta dalla mole di analisi messe in circolazione da molti marxisti qualche decennio addietro, quando si guardava con speranza alle lotte svolte all’interno della "produzione nella sua forma unilaterale", cioè quelle intraprese dagli operai nelle fabbriche. In quell’occasione non pochi pensarono al ciclo di lotte come una significativa discontinuità nello sviluppo delle forze produttive e come una decisiva alterazione dell’equilibrio dei rapporti di produzione nel paese. Si sprecarono i riconoscimenti e gli elogi nei riguardi della classe finalmente in lotta, capace di smuovere anche altri soggetti sociali fino a quel periodo inerti. Numerosi studiosi si profusero nel declinare la centralità operaia, i marxologi più incalliti (ma anche più raffinati) rimasticarono continuamente le definizioni marxiane di "lavoratore produttivo", mentre gli arrabbiati desiderosi di essere autonomi aggettivarono l’operaio impastando quello massa nel sociale. Non c’è dubbio che il caotico movimento di quella stagione rivitalizzò un pò il campo della ricerca sociale che era stato ingessato dalla "linea di partito", al punto che non pochi studiosi, forse sospinti dal vigore dei giovani alleati studenti, cercarono di afferrarne la vitalità, con degli esiti però di corto respiro che, non molto dopo, dimostrarono tutta la fallacia dell’impostazione di partenza.

         A tal proposito, ci sembra istruttivo fare un esempio, riportando un brano di un fu marxista, l’economista Luca Meldolesi (all’epoca, comunque, non accanito "produttivista", figurarsi quindi gli altri…), divenuto col tempo consulente economico per le politiche industriali nel Mezzogiorno, in realtà fautore dell’espansione dei distretti di lavorazione locali con conseguente estorsione del pluslavoro addirittura assoluto (vedi il settore tessile o quello della pelletteria in Campania!), ovviamente il tutto giustificato in nome dello sviluppo, non più specificato però come capitalistico; egli scriveva presentando il libro: <<Credo che molti si siano interrogati sulle grandi ondate di massa che ci hanno coinvolto ( e persino travolto). Le idee non scendono dalla luna: è dal contatto con un gran numero di studenti, operai, di impiegati che mi sembra di aver fatto qualche progresso. A loro dedico le pagine che seguono>> [L. Meldolesi La teoria economica di Lenin].

         In effetti, l’esempio potrebbe essere interpretato soltanto come l’ennesimo caso di trasformismo e di scalata sociale (la c.d. carriera accademica ed istituzionale), tuttavia  ne avremmo potuti produrre tantissimi altri, e quando la numerica è elevata e peraltro direttamente proporzionale allo scorrere degli anni, ci viene il sospetto che alla incoerenza intellettuale degli intellettuali (in questo secondi solamente ai sinistri politicanti che oggi inneggiano alla "rivoluzione liberale" attuata tramite decreti) si accompagni anche una certa mancanza di presa sulla realtà da parte della conoscenza teorica. Pensiamo, infatti, che l’essersi soffermati eccessivamente ad analizzare e sviscerare tutti i possibili aspetti di quella che più volte (con Marx) abbiamo chiamato "produzione nella sua forma unilaterale", abbia impedito a molti studiosi, finanche ai puntigliosi ed ortodossi economicisti, di comprendere ed affrontare (resistendo) gli importanti cambiamenti di fase del capitalismo. Enumerare e discutere approfonditamente quest’ultimi non è per niente facile, tuttavia, in questa sede, per immaginare lo sconvolgimento che può aver avvolto quelli che erano "compagni militanti" fino a qualche anno prima, basterebbe richiamare la deindustrializzazione (causante l’arretramento della "questione produttiva" e la relativa scomparsa ideologica operaia) che nel corso degli anni ‘80 ha modificato notevolmente la struttura socio-produttiva, un fenomeno strettamente correlato – se non derivante – dalle elevate internazionalizzazione e finanziarizzazione dei capitali, incrementatesi in particolare dopo il 1979-1980, ma ancor più in seguito al mutato scenario geo-politico successivo al triennio 1989-1991.

         Con molta probabilità, riteniamo che per tanti teorici l’inevitabile questione dell’appartenenza identitaria sia stata peggiorata da una certa impasse delle categorie interpretanti la realtà sociale. Forse la situazione vissuta non è stata dissimile da quella sopportata dai tanto celebrati, ma in seguito malamente abbandonati, operai-massa alla catena di montaggio FIAT dopo la sconfitta del 1980 (Voilà l’egalité de Monsieur Le Capital!).

         Il diffondersi delle suddette dinamiche, che come detto hanno attraversato riconfigurando il capitalismo nella sua dimensione internazionale – comunque con differenti tendenze a seconda delle macro aree economico-monetarie e diverse influenze statali – sostanzialmente ha riportato sulla scena la funzione svolta dal mercato capitalistico (e per averne conferma basterebbe dare un’occhiata all’oggetto ritrovato nelle pubblicazioni degli ex economisti "produttivisti"). In esso, da 15-20 anni (ma il dato è di quelli ricorsivi, per niente inediti!), si è aperta una forte ed aspra competizione durante la quale è risultato sempre più chiaro che alle imprese non basta saper produrre bene una tipologia qualunque di merci, ma è per esse necessario confliggere con i diretti concorrenti per mantenere o espandersi, in termini di quote, nel mercato di riferimento (finanche per il migliore accaparramento delle risorse – dalle materie prime e/o semilavorate fino ai crediti finanziari – occorrenti allo svolgimento della produzione in senso stretto). A tal fine, a meno che si voglia continuare a pensare a tutti i costi che basta la combinazione ottimale dei fattori produttivi  disponibili, con l’aggiunta, magari, di una buona indagine di marketing (una ideologia utile soltanto al capitalismo dello small is beautiful, ovvero – parafrasando Lenin – il nostro "capitalismo degli straccioni"), ci pare indubitabile che serva una razionalità di tipo strategico. E’ utilizzando quest’ultima che si muovono gli amministratori delegati, tenendo conto delle esigenze espresse dal presidente del consiglio di amministrazione dell’impresa (d’altronde, negli Usa, questi ruoli e le due relative funzioni sono unificati nella figura del chief executive officer); per essi non vi è alcun analogo dell’ufficio "tempi e metodi" che prescriva i comportamenti cui attenersi, dato che la loro capacità si misura in base all’efficacia delle azioni svolte. Certamente, i risultati di bilancio e le comparazioni fatte in vista delle periodiche attese di profitto, il valore dei corsi azionari ed il rating concernente le emissioni obbligazionarie, rappresentano l’insieme dei vincoli all’arbitrarietà dirigenziale, ma non sono l’efficienza o la momentanea oscillazione di borsa a definire la strategia di sviluppo dell’impresa. E’ il predominio economico nei confronti degli agenti imprenditoriali competitori la meta realmente perseguita, e per arrivarvi << Si possono eventualmemte allungare o accorciare i tempi per il raggiungimento della dominanza; oppure conseguirla schiacciando o eliminando i competitori, o invece "convincendoli"… del proprio punto di vista; oppure ancora, si giunge a dati accordi nel cui ambito si esercita un’egemonia di fatto, ecc. Le modalità possono esssere svariate, ma il risultato è sempre una supremazia… Quanto all’impiego del minimo di mezzi, si tratta di un principio seguito solo parzialmente ai fini dello svolgimento delle strategie conflittuali. Nei limiti del possibile, uno cerca di assumere la preminenza con il più basso dispendio di risorse; ma non è questo il suo assillo vero e decisivo>> [G. La Grassa Gli Strateghi del Capitale, pp. 74-75].

         Ormai, crediamo che la nostra posizione possa risultare maggiormente comprensibile. Innanzi tutto, si dovrebbe aver compreso che non è nostra intenzione cancellare la rilevanza dell’ambito produttivo a favore della sfera del mercato; d’altronde, giusto in ultimo si è evidenziato che la dominanza economica viene ricercata proprio dai soggetti posti a capo della molteplicità dei capitali imprenditoriali produttivi reciprocamente competitivi [Cfr. La Grassa Discussione sugli agenti strategici, Perché il conflitto strategico?, entrambi gli scritti reperibili sul sito internet dell’autore]. La nostra prospettiva, piuttosto, è tesa  a criticare la chiusura dell’analisi negli angusti confini della logica efficientistica vigente nell’impresa (magari, per una latente determinazione a difendere e non contaminare l’astrazione del valore), quando dovrebbe ricercare, invece, i caratteri che guidano la costitutiva apertura dell’impresa, permettendone lo sviluppo, al dinamismo dell’ambiente mercantile.

         Giunti a questo punto, potremmo continuare a rilevare quali sono gli aggiustamenti e le integrazioni teoriche che per noi sarebbero da effettuare, tuttavia, preferiamo mettere alla prova quanto affermato, applicando la nostra linea di ricerca alla comprensione di alcuni odierni movimenti capitalistici che avvengono dalle nostre parti, il ché, in definitiva, dovrebbe essere una qualità non certamente secondaria di una teoria che si presume anticapitalistica. A tal fine, rimandiamo alla lettura della seguente sintetica appendice.

 

 

 

Appendice

 

La prova più forte contro una teoria è la sua applicabilità

Karl Kraus

 

Breve premessa: quanto andremo dicendo, nonostante l’oggetto contingente e singolare, rappresenta una sorta di "griglia" teorica che può essere applicata per l’ossevazione di fenomeni diversi ma analoghi, in quanto riteniamo che la dinamica che delineeremo sia una costante strutturale (non limitata, quindi, ad uno specifico settore) dell’economia capitalistica.

         Da non più di un mese, in Europa ed in Italia sono avvenute delle importanti acquisizioni nel comparto assicurativo. In particolare, e per prima, si è mossa la compagnia assicurativa francese Axa, la quale ha acquisito l’elvetica Winterthur. E’ un’operazione, questa, a carattere espansivo,  una reale incursione nel mercato estero svizzero, indubbiamente onerosa, che deve pur aver avuto alla radice delle solide motivazioni. Il presidente del gruppo acquirente, De Castries, sostenitore e responsabile dell’iniziativa, si è espresso rassicurando immediatamente gli analisti finanziari che l’azione posta in atto << non rimettette in discussione gli obiettivi di crescita a lungo termine che il gruppo si è fissato da qui al 2012>> [Affari & Finanza-Repubblica, 19/06/06, p.36]; in altre parole, il piano di sviluppo delle attività ordinarie già prestabilito non muterà. E’ chiaro che la suddetta dichiarazione rassicurante abbia avuto come destinatari gli eventuali investitori borsistici, di solito attenti a calcolare gli effetti dell’annessione sul lato dei costi e dei profitti, considerando, peraltro, che l’efficienza della gestione di una rete produttiva e distributiva più ampia potrebbe inizialmente risultare leggermente problematica. La questione affrontata dalla dirigenza, successivamente alla riuscita dell’operazione, è stata, dunque, quella di comunicare all’esterno la positività di quanto compiuto, ribattendo in tal modo anche alle perplessità avanzate dalle banche d’affari statunitensi Merrill Lynch e Lehman Brothers, tenute fuori dal business. Ma qual è la ragione che ha spinto Axa ad annettersi Winterthur? Indubbiamente, l’apporto dell’azienda elvetica consiste nel suo portafoglio di ben 100 miliardi di asset, il ché permetterà ai francesi di rafforzare la loro presenza in un mercato nel quale avevano una posizione estremamente marginale: sono così divenuti la prima assicurazione nel ramo danni e la seconda nel ramo vita. A tal proposito, non si deve poi tralasciare che il mercato della confederazione (comunemente a quelli degli altri paesi più industrializzati), per quanto imponente e redditizio, è complessivamente a basso potenziale di crescita in quanto vicino alla saturazione, di conseguenza penetrarvi è possibile solamente impossessandosi di una impresa già attiva e ben piazzata. Inoltre, a questo si aggiunga che Winterthur è discretamente attiva sui mercati belga e tedesco (quest’ultimo di particolare rilevanza). Insomma, il gruppo elvetico ha rappresentato per Axa un obiettivo strategico al fine del raggiungimento di un buon posizionamento in ambito europeo, considerando, peraltro, che la dimensione per capitalizzazione di Winterthur era talmente ingente che solo poche altre società continentali avrebbero potuto ipotizzare e portare a termine un progetto analogo. Dunque, come ha scritto il giornalista economico G. Martinotti su Affari & Finanza [19/06/06, p. 36] <<  per Axa era essenziale che l’azienda elvetica non finisse nelle mani della concorrenza, in particolare che non finisse nella cassaforte delle Generali. Sbarrare il passo al Leone [cioè Generali], e ad altri eventuali acquirenti, è stata una delle motivazioni decisive >>.

         La ratio fondamentale che ha portato la compagnia francese a legarsi a quella svizzera è allora rinvenibile non tanto nella mole della raccolta premi incorporata o nella sinergia innescata a medio e lungo termine dall’accorpamento delle reti distributive (la classica economia di scala) – come si sarebbe portati a credere se si interpretasse il tutto secondo i tradizionali parametri dell’efficienza -, quanto, piuttosto, nell’efficacia strategica dell’operazione avviata per confliggere con i diretti rivali, tant’è vero che ad oggi Axa concorre con Generali ed Allianz (l’attuale dominante) per conquistare il predominio  (in termini di quote-mercato) nel continente europeo.

Si sarà intuìto che l’Italia è notevolmente toccata dalle dinamiche di questa lotta economico-finanziaria (ad inevitabile sfondo politico-statale), difatti si è accennato al ruolo svolto dalla compagnia triestina, le Generali. Si tenga presente, inoltre, che il gruppo Axa, pur ingranditosi e consolidatosi in Europa, è alquanto sottorappresentato giusto sul mercato italiano, quindi non sarà improbabile un’incursione della società d’oltralpe dalle nostre parti.

Sicuramente, gli ultimi interventi effettuati da Generali sono finalizzati proprio ad evitare una eventualità del genere. E’ infatti da inserire nello scacchiere di cui si è detto l’acquisto (che comunque attende ancora la formalizzazione dell’offerta pubblica) della Toro Assicurazioni, rilevata con una certa celerità dagli ex azionisti De Agostini (Lottomatica e De Agostini Editrice, per intenderci). Con questa operazione Generali capitalizzeranno ben 36 miliardi di euro sul mercato italiano, divenendone il maggior gruppo assicurativo sia nel ramo vita che in quello danni. E’ sì vero che l’entità dell’uscita finanziaria corrisponde più o meno alla 

liquidità posseduta in eccesso (rispettivamente 3,85 e 3,5 miliardi di euro), per cui, presentandosi una simile occasione propizia, è come se l’acquisizione fosse un atto dovuto; tuttavia, la velocità con cui l’iniziativa è stata presa lascia trasparire, oltre le buone relazioni tra offerente e venditore avviate ben prima dell’arrivo di qualche report della stampa che avrebbe mosso un pò di speculazione, la decisa intenzione di bloccare delle eventuali trattative tra i francesi di Axa o gli inglesi di Aviva con l’azionariato De Agostini, il quale difficilmente avrebbe potuto resistere a delle vantaggiose proposte estere (Cfr. Corriere della Sera, 27/06/06, p. 33). In definitiva, sembra che Generali abbia agito per difendere – allargandosi ulteriormente – la propria posizione di supremazia nel mercato italiano, la cui elevata redditività potrà essere utilizzata come fondo finanziario cui molto probabilmente attingerà per un’espansione in zone altamente capaci di assorbire la penetrazione assicurativa: nell’est europeo oppure nell’oriente asiatico, in particolare la Cina, dove in virtù di una solida joint venture la società con sede a Trieste primeggia tra i gruppi assicurativi stranieri.