FANTASIA O REALTA’? DOMANDA NON CONCLUSIVA

                                                                          (…tu mi stai accanto, lontananza del socialismo. B. Pasternak)

qui trailers

1. Ho dovuto mettere questi “provini”, come si diceva un tempo, o trailers oggi. Mi interessa soltanto l’ultima scena, in cui l’autore di Peter Pan (interpretato da Johnny Depp) si rivolge al fanciullo e gli dice come deve fare per rendere reale l’“Isola che non c’è”. Crederci veramente. Da questo momento, mi stacco però dal commento al film di cui si tratta (Neverland) perché lo intendo solo come punto di partenza dei miei ingarbugliati ragionamenti, di cui mi scuso fin d’ora (e poi non lo farò più).

La risposta che avete sentito mi sembra quella più usuale ma anche la più banale. Bisogna credere nelle cose, anche le più fantastiche e immaginarie; e questo basterebbe a renderle, se non reali, diciamo effettuali. Può senz’altro accadere, in parte, per ciò che riguarda, ad esempio, certe ideologie. Prendiamo il comunismo o, più precisamente, il socialismo poiché anche nel movimento comunista, quand’esso aveva ancora un’intenzione minimamente “realistica”, non si parlava della rivoluzione “proletaria” come di quella che avrebbe abbattuto il capitalismo per dar vita alla società comunista. Si parlava di una necessaria transizione dal capitalismo al comunismo che avrebbe conosciuto il primo stadio, quello socialistico, già del resto preparato dai processi di socializzazione avvenuti nella sfera produttiva, ecc. E quando si verificò la Rivoluzione d’ottobre e, infine, fu necessario rassegnarsi al fatto che questa era rimasta confinata nella Russia (divenuta Urss), si parlò di “costruzione del socialismo” (in un paese solo, ecc.).

In ogni caso, ci si credé e, dopo la seconda guerra mondiale, si fu pure convinti della nascita del “campo socialista”. Questa credenza, quella che poi divenne una vera fede priva di riferimenti effettivi, ha senza dubbio favorito certi successi di quella serie di eventi iniziata nell’ottobre del ’17, ma non ha dato vita a quell’“Isola che non c’era”, detta socialismo. Quindi, la credenza in qualcosa che non esiste può avere per un certo periodo storico una forte valenza emozionale e promozionale, ma non certo di quanto fantasticato e desiderato, bensì di un’altra realtà che ha preso il suo posto. E poi, pian piano, quest’ultima si afferma e fa cadere molte illusioni. Chi continua a credere ai suoi puri desideri resta un “residuato storico”; in molti casi provoca anche grossi guai. E accade pure, in date contingenze – soprattutto quando le illusioni conducono alla rapida sconfitta degli illusi – che questi facciano una gran brutta fine, ecc.

Non consiglierei mai a nessuno, e tanto meno ad un bambino (magari tenero e terreno fertile per illusioni molto…. deludenti), di credere a pure fantasticherie. Salvo che per il periodo di tempo dell’infanzia, che è anche quello delle belle favole. Insistere oltre mi sembra decisamente diseducativo. Considero positivo che l’adulto non azzeri del tutto l’adolescente dentro di sé – cosa che invece normalmente si affretta a fare – poiché ciò mantiene in vita una notevole freschezza pronta ad accogliere la novità, altrimenti combattuta e respinta (e magari repressa) in nome della consuetudine, del conformismo, dell’abitudine a pensare sempre eguale. Tuttavia, tale freschezza va controllata onde non diventi solo credulità, apertura a sempre nuove fantasie destituite del minimo fondamento “in re”.

2. In ogni caso, non mi sembra che debba essere questo il significato più interessante dell’“Isola che non c’è”. La mia attenzione si concentra, ma solo come primo passo intermedio, sul fatto che il “non c’è” non deve significare necessariamente che “non esiste”. Non c’è, ma esiste. Forse, in qualche caso, si dovrebbe dire esisterà. Magari sì, ma consideriamo più da vicino la questione. In ogni caso, non si deve far riferimento semplicemente a qualcosa in cui si crede (secondo il consiglio di Barrie/Depp) e su cui si dovrebbe scatenare la semplice fantasia creatrice. Fantasia ci vuole egualmente, ma per pensare che il “non c’è” esiste(rà). Dico subito che non sappiamo che cosa esiste(rà), questo ci è ignoto, ma comunque è o sarà presente sicuramente. I due esempi più chiari che mi vengono in mente sono: la faccia nascosta della Luna; il tema dell’assenza, della non presenza, che non significa “non esistenza” e, dunque, “non esserci”.

La Luna mostra solo una faccia per cui, fin quando non la si è potuta aggirare con dei razzi, non era possibile conoscere il suo “dietro”. Certamente la fantasia si può sbizzarrire a immaginare quel che desidera; tuttavia, l’altra faccia esiste, è presente. Pur se non è nella visione, alla fine verrà il momento in cui la fantasia sarà rinchiusa entro spazi molto limitati da ciò che infine si è visto. Mi devono presentare una bella fanciulla che esiste ma non ho ancora mai vista? Posso senz’altro lasciar andare le briglie alla mia immaginazione, probabilmente caricarla di bellezza superiore al vero (per cui poi resterò deluso, come si è stati delusi dal sedicente comunismo). L’immaginazione può dilagare quanto vuole, ma quella fanciulla esiste e prima o poi la resa dei conti arriverà con il suo esserci nella presenza effettiva. Tuttavia, in tal caso l’“Isola non c’è ma ci sarà”, è solo questione di tempo. Tutto in noi si prepara all’arrivo. Immaginiamo come sarà quella data realtà, siamo certi che non sarà per nulla come la stiamo immaginando, ma sappiamo che è solo questione di tempo, l’Isola si paleserà e sarà finito il non c’è.

Pensiamoci però bene. Secondo quello che dice Barrie/Depp al bambino, il problema decisivo è credere che una qualche Isola, con i connotati che ci possano più piacere, esista. E allora, dice l’adulto, vedrai che l’Isola comincerà ad esistere; evidentemente dentro di te, per come la crederai realmente possibile nella sua esistenza. Oppure, più facilmente, prenderai atto che non esisterà mai come te la immagini, ma ti accontenti di ciò che hai costruito dentro di te, che hai sprofondato il più saldamente possibile nel tuo animo. Bello, poetico, ma pericoloso. O ti isoli dal mondo e mantieni intatta in te quest’Isola, ma vivendo senza alcun contatto con il reale. Oppure alla fine devi realizzare che si trattava solo di sogni infantili e potresti subirne un grosso contraccolpo, che talvolta riesce a gettarti nella follia. E malgrado le chiacchiere sulla felicità dei folli, credo che sia tutta una menzogna; ho la netta sensazione che i folli alla fine soffrano, e tanto. Se prendi invece atto fin dall’inizio di stare fantasticando un’assenza che infine ti si presenterà, si manifesterà, sei già pronto alla presa d’atto che la realtà non sarà propriamente come te l’eri “fabbricata”. Una delusione modesta, per quanto male ti vada; talvolta invece una lieta sorpresa e una visione perfino migliore di quanto ci si aspettava. In ogni caso, ci si trova fin dall’inizio in una situazione di relativo equilibrio, che non porta certo alla delusione cocente.

3. La situazione più interessante è però la presenza (attuale) dell’assenza. Nessuna aspettativa che l’assenza sia temporanea; no, è proprio l’assenza la determinante essenziale del nostro modo d’essere e d’agire. L’assenza è essente, si sta manifestando e realizzando e producendo i suoi effetti, malefici o benefici. Quest’assenza è in definitiva una presenza, e permanente; l’“Isola che non c’è” in realtà E’. L’assenza è proprio effettuale, determina influssi e avvia processi. La si vive profondamente, il proprio animo ne è forgiato e la propria individualità vive e agisce in questa “realtà” ben consolidata, ben radicata. Ciò vale per il singolo individuo come per determinati gruppi sociali che si vanno strutturando e organizzando proprio in base ad un’assenza, ad un “non c’è”.

Prendiamo il gruppo dirigente sovietico, una volta stabilizzatosi al vertice del potere in Urss. Ha certo subito modificazioni, cambiamenti anche notevoli e in base a lotte intestine; tuttavia, è rimasto nella sostanza quello per molto tempo, per tutto il periodo del consolidamento della potenza del paese e poi del suo improvviso cedimento poiché l’“assenza” si è fatta troppo grave e incisiva sugli equilibri della particolare forma di potere creata appunto dall’“assenza” del socialismo. Quel gruppo è rimasto al potere per la sua capacità di far credere a coloro che più gli erano stretti attorno all’esistenza della costruzione socialistica? No, non sarebbe durato a lungo, la delusione degli adepti avrebbe prevalso con una certa celerità. Invece, c’era l’“assenza” di detta costruzione che veniva determinando una creazione e articolazione di apparati (in primo luogo di Stato, la sfera produttiva era piuttosto debole in quella formazione sociale) secondo forme adeguate ad un lungo uso del potere con indubbia efficacia, pur progressivamente decrescente.

Se avesse prevalso la credenza (fantastica) nel socialismo – mettiamo l’idea della “rivoluzione permanente” – quel gruppo di potere sarebbe stato spazzato via in poco tempo. L’“invenzione storica” ha dato vita ad un’“assenza”. Non dico che i dirigenti sovietici fossero consci di “non costruire il socialismo” (credo il contrario), ma resta il fatto che non ha vinto una illusione fantastica, bensì un’“assenza” molto concreta e pesante; e questa ha consentito il mantenimento del potere e l’evoluzione storica che si è avuta nel secolo XX. Perché, al di là di ciò che potevano credere i singoli dirigenti (e lo stretto gruppo di adepti che li supportava), l’“assenza” della costruzione del creduto socialismo ha dato vita a determinati interessi dei componenti di questo gruppo; e detti interessi li hanno mantenuti per l’essenziale uniti a lungo (salvo alcune lotte intestine pure acute che non mutavano però i più decisivi assetti del potere).

4. Lo stesso avviene per le credenze individuali; mettiamo quella in Dio. Ma prima di continuare mi si consenta una non breve digressione nel campo della fisica. Non sono fisico, anche se avrei voluto esserlo; sono dunque molto ignorante e posso sbagliare gravemente. Tuttavia, mi ci provo. Per millenni si è affermata la convinzione della presenza di spazi eminentemente vuoti. In questo caso, l’“assenza” è effettivamente “non presenza”, inesistenza d’ogni cosa. Da qui il famoso “horror vacui”. Non posso star qui a discutere questo problema, ma penso che si sia trattato di un pensiero tutto sommato deleterio. Una minoranza, democritea, pensava ad un mondo fatto di corpuscoli, quindi granulare; per cui non vi era mai effettivo spazio vuoto. Però anche in tal caso, si è pensato ad una infinità di granuli atomici infinitamente piccoli. Purtroppo anche l’infinito è un pensiero deleterio come, se non ricordo male, aveva ben capito Leopardi. Ha senso parlare dell’indefinito, non dell’infinito.

Se si pensa ad una infinità di granuli infinitamente piccoli si deve arrivare a supporre dei semplici punti privi di qualsivoglia dimensionalità. Ed è difficile pensare ad una infinità di punti inestesi che dia vita ad un’estensione considerata infinita. Oggi, appunto, non mi sembra si pensi così: gli atomi sono granuli piccolissimi, ma hanno dimensione e il loro numero nell’Universo è indefinito, non infinito. L’assenza della definitezza del loro numero – perché dire indefinito non significa affatto non definire qualcosa, lo si definisce invece, si dice che è il contrario della definitezza, si afferma che è impossibile definire quel “qualcosa” – è essenziale per pensare un mondo senza spazi vuoti, costantemente granulare (pur qualora gli addensamenti di tali granuli, quelli visibili, si pongano a grandi distanze gli uni dagli altri). Questi granuli, che non sono semplici punti inestesi, si muovono in continuazione, si passano vicini, si urtano ecc.; e la loro energia, se ho capito alla bell’e meglio il problema, rende lo spazio curvo e i movimenti in esso di un certo tipo; non è lo spazio pensato come un grande (infinito appunto) contenitore vuoto in cui corrono i corpi stellari, la cui traiettoria s’incurva per effetto di quella “misteriosa” forza di attrazione gravitazionale che si sprigiona dalla massa dei corpi in questione. Non so bene se anche i buchi neri siano un precipitare di questi granuli verso un “centro” che si apre come crepaccio e li ingoia. Ma qui veramente devo chiedere ad un fisico, se sa spiegarmi bene la faccenda; perché capisco che certi problemi sono di complicata esplicazione.

Data appunto la mia ignoranza, mi è ancora più difficile affrontare il problema del campo, “scoperto” (immaginato) da Faraday, assolutamente ignaro di matematica, e poi matematizzato da Maxwell. Il campo, scoperto da uno e matematizzato dall’altro, è quello sede dei fenomeni elettromagnetici e mi sembra di capire che è una sorta di rete che copre lo spazio; tanti “fili” attraverso cui corrono i corpuscoli con movimento ondulatorio (e a diversa frequenza), che è appunto quello della rete costitutiva del campo. E’ fondamentale per meglio comprendere come mai vi è lo specifico movimento dei corpi nello spazio che non si attraggono affatto a distanza come nella teoria newtoniana, ma semmai interagiscono fra loro. E’ tuttavia meglio che non mi addentri in un problema per nulla semplice. Anch’io, nel mio piccolo, ho formulato (senza matematizzazione alcuna) un concetto di campo, che penso tuttavia non abbia a che vedere con quello fisico. Ed è chiaramente un’ipotesi tesa a superare quella centralità della sfera produttiva, e dunque della proprietà o meno dei mezzi di produzione, nucleo centrale e fondante la teoria marxista e che ha procurato alla fine l’incomprensione profonda dei fenomeni storici del ‘900; e proprio, in particolare, a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre.

In ogni caso, l’indefinizione è l’assenza di definitezza. E tale “assenza” non venga adesso semplicisticamente presa come inconoscibilità e basta. Se solo di questo si trattasse, si sarebbe potuto continuare a parlare o dello spazio vuoto o dell’infinita presenza di punti inestesi. Gli atomi sono conoscibili. La loro innumerabilità (l’indefinitezza del loro numero) ha il carattere dell’assenza, non semplicemente dell’inconoscibilità. Si fa confusione perché si dice: ma il loro numero è inconoscibile. Nel Gattopardo sta scritto che nel Palazzo del Principe vi erano così tante stanze che nessuno ne conosceva il numero. Era inconoscibile tale numero? Non proprio; non aveva grande interesse conoscerlo, l’assenza (presente) di quel numero non turbava nessuno; non vi era quindi, in chi vi abitava, alcuna spinta a conoscerlo, poteva ben restare nell’assenza di definizione. Quel Palazzo era comunque quello del Principe, conoscerne il numero delle stanze era del tutto superfluo, non avrebbe cambiato l’“essenza” di quel Palazzo. Lo stesso per noi. Ha vero interesse conoscere il numero di quei granuli che compongono l’Universo? Beh. Lo chiederò appunto a qualche amico fisico. A occhio e croce a me sembra di no.

Del resto, anche nel mio concetto di campo è l’assenza – nel senso dell’indefinitezza e non certo intesa come non presenza – a produrre quello squilibrio (sussultorio) che mi serve poi a fondare il conflitto tra strategie di “soggetti” che si pongono nella veste di agenti in lotta per la supremazia; ma si pongono come tali a causa di quell’assenza (indefinita) squilibrante. Speriamo che si riesca a buttare fuori presto (in sede elettronica) il mio libretto sulla teoria dello squilibrio incessante. Vedremo allora se sarò riuscito a spiegarmi adeguatamente.

5. Non me ne voglia nessuno se accenno, e senz’altro in modo improprio, al problema della credenza in Dio. E’ solo un buon esempio per afferrare un po’ meglio questo tema dell’“assenza”. Non lo si intenda in altro senso; solo per il motivo appena detto. Penso si possa porsi la domanda: perché si crede in una “realtà altra” rispetto a quella vissuta tutti i giorni e della cui finitezza l’uomo ha raggiunto piena consapevolezza con il terrore (o almeno timore) di finire nel nulla, nella pura non esistenza? Immagino, appunto, per non cadere in questa situazione psicologica, per poter pensare che vi sarà un’altra vita; di fatto sconosciuta, inconoscibile nella sua essenza, ma “promessa” da qualcuno o qualcosa. Non intendo entrare nelle diverse posizioni assunte dalle varie religioni. Non ne sarei in grado e non è questo il tema in oggetto di trattazione. Lo può affrontare seriamente solo chi ha fede e non fa semplice appello a quella che definiamo ragione. Dico subito che non sono un adoratore della Ragione, non credo sia la suprema qualità dell’umano. Nemmeno sono però per la sua mera svalutazione, per il sospetto nei suoi confronti. E’ un carattere che abbiamo e che senza dubbio gli altri animali (e tanto meno i vegetali) hanno; almeno questa è l’opinione comune. Non mi sembra una situazione di cui dobbiamo esaltarci e nemmeno vergognarci; è così e basta. Certamente, ci rende spesso discretamente poco felici per la consapevolezza piena che abbiamo della nostra finitezza (in tutti i sensi possibili).

Non mi convince per nulla tutta la discussione che vuol provare l’esistenza o l’inesistenza di Dio (o della “realtà altra” di cui detto). Non ho vera paura di finire nel nulla; mi “secca” però moltissimo. E capisco poco quelli che, con fare di grande superiorità intellettuale, dicono: quando sarai nel nulla non potrai saperne nulla e non soffrirai per nulla; e finché sei qui goditi la tua esistenza. Me la godo (diciamo meglio: me la sono goduta), ma sempre con questo “fastidio”: il pensiero di finire in quel nulla che mi agita ogni tanto (non ci penso sempre, per carità). So che se non ci sarà nulla, non lo potrò sapere, non sentirò alcunché, ecc. Intanto però il timore esiste, è presente e mi accompagna mentre non sono ancora arrivato al nulla. Se pensassi, cioè avessi fede, nell’altra realtà, sarei più tranquillo. Non sono però in questa situazione. Tuttavia, mai nella mia vita sono riuscito ad interessarmi veramente alla questione della sussistenza o meno di un’“altra realtà”, di un’altra possibile vita dopo la fine di quella che conosciamo (beh, conosciamo per modo di dire; insomma quella che viviamo).

Sono sempre stato molto freddo, e in definitiva annoiato, nei confronti delle accanite discussioni intese a provare l’esistenza o l’inesistenza di ciò che viene solitamente indicato con il nome di Dio. Molto superficialmente mi è sembrato di capire l’esigenza di coloro che ci credono. Sono rimasto maggiormente stupito dell’accanimento – condito spesso da acredine o da irrisione che copre però la malevolenza – di chi sostiene l’irrealtà di qualcosa oltre all’Universo di cui abbiamo consapevolezza. Costui afferma che non lo conosciamo del tutto, ma pezzo dopo pezzo lo conosceremo; quanto meno ci avvicineremo asintoticamente alla sua completa conoscenza. Insomma, non la raggiungeremo mai in modo proprio completo, ma ci andremo sempre più vicini; infinitamente più vicini (questo è il solito pensiero dell’infinitezza, invece che indefinitezza, che mi lascia perplesso). Ed in questo modo escluderemo via via ogni altra presenza “estranea” a quello che “c’è”. Non credo proprio ad alcun percorso asintotico, non credo che ridurremo sempre più la nostra distanza dall’“ignoto”. Semplicemente, non riesco ad interessarmi a questo “ignoto”.

Qualcuno potrà dire: è chiaro, sei un agnostico. Mi par di afferrare che l’agnostico s’interessa al problema dell’esistenza o meno di Dio, e poi conclude per un “non possiamo sapere” poiché ritiene che non vi siano prove conclusive per una tesi o per l’altra. Io non riesco a seguire proprio la discussione, mi sembra una delle tante contrapposizioni che si (sor)reggono reciprocamente nel mentre si scontrano fra loro con il massimo accanimento. Sono le ben note tesi che si affrontano polemicamente, con continue confutazioni reciproche, ma stanno in “solidarietà antitetico-polare”, espressione quanto mai felice per afferrare il problema.

A me sembra – ma non pretendo che nessuno sia convinto di quanto dico, meglio che lo precisi – che i due “soggetti” in discussione antagonistica cerchino di definire la loro rispettiva posizione. Hanno bisogno di definirla perché, alla fin fine, definire la loro posizione significa autodefinirsi, sentirsi più propriamente esistenti essi stessi. Hanno bisogno della sicurezza di poter dire: “io sono”. E non cambia molto se citiamo il “penso, dunque io sono”. Perché quel penso è in fondo l’esigenza della definitezza, dell’essere saldi nel mondo. Anche chi ha fede, pensa; eccome, pensa ad un’altra definitezza, ma ci pensa fortemente e con grande convinzione. Pensiero non è sinonimo di Ragione. Avere fede è pensare tanto quanto pensa chi crede di esercitare la Ragione per confutare colui che ha fede. Banale affermazione, certo, affermazione incontrovertibile; e tuttavia si ha talora l’impressione che qualcuno lo dimentichi.

Ho la sensazione, per carità solo una (mia) sensazione, che la realtà da noi vissuta – e, a mio avviso, assai poco veramente conosciuta – segnali proprio la presenza di un’“assenza”, di qualcosa che sembra non esserci, ma invece c’è pur se non definito. Non mi convince la tesi che la differenza del genere uomo (pur se è passata per molti generi, alcuni dei quali intermedi tra noi e qualche specie animale) sia spiegabile come una sorta di “eccitazione” della materia. E mi auguro nessuno pensi all’energia perché sappiamo ormai che massa ed energia sono solo due facce della stessa medaglia: quella che chiamiamo materia. Lasciamo perdere la sua “eccitazione”.

Si dice anche che non ha senso pensare alla nostra solitudine nell’Universo. Da qualche altra parte vi sarà un altro pianeta come il nostro, con altra materia arrivata allo stadio dell’essere pensante e raziocinante. E’ una credenza ragionevole, ma tanto diversa da quella di Dio? In fondo, pensiamo a quest’altro essere cosciente, che deve esistere data l’assurdità della nostra solitudine in quest’Universo così enorme, come avesse tutto sommato le nostre stesse caratteristiche. E cosa fanno quelli che pensano ad un qualche Dio? Ne fanno un Superuomo. Non è convincente. Quest’Universo ha una sua “precisa” indefinitezza. Del resto, anche il pensiero del Big Bang (è l’ipotesi più accreditata, pur se mai definitiva) implica qualcosa che verrebbe prima. E che senso ha chiedersi di questo prima? E’ come chiedersi se io, prima di nascere, esistevo in qualche altro essere animato o inanimato. E visto che si crede piuttosto fermamente, in base ad esperienza, che l’Universo è in espansione (mi sembra pure accelerata; comunque non è essenziale), cosa accadrà dopo? Ma dov’è situato temporalmente (e dunque credo anche spazialmente) questo dopo?

Ahi, ahi, credo che non sia definibile né un prima né un dopo. E tuttavia, è difficile non pensare che ci siano. Sono appunto indefiniti, dunque assenti in quanto l’assenza è l’indefinitezza. Ma non si possono dire inesistenti. E nemmeno si può rispondere come Barrie/Depp al bambino: credi fermamente in qualcosa di definito e questo esisterà; solo nel tuo cervello che fantastica, ma esisterà. No, quella di cui parla Barrie è proprio fantasia, inesistenza di ciò che si pensa; importantissima per vivere meglio (salvo le possibili delusioni che fanno entrare in depressione); nessuno lo nega, ma è un’altra faccenda. Il prima e il dopo esistono ma non definiti. Li possiamo fantasticare, crearli con il massimo dispiegamento di immaginazione; ma non sono loro, loro stanno saldi nella loro indefinitezza, sfidano qualsiasi immaginazione umana.

6. Dobbiamo allora non più fantasticare, non crearci delle “realtà” irreali, fittizie, spesso molto belle ed emozionanti? No, fantastichiamo, è importante farlo, è spesso una valvola di sfogo alla solitudine, all’amarezza, alle disillusioni, al disamore, ecc. Solo non partiamo per la tangente immaginando che abbiamo dato vita ad una “realtà altra” ben definita e salda in tutti suoi contorni, situata con precisione nello spazio/tempo della nostra vita. Credo però ci sia questa “realtà altra”, forse qualcuno anche la “sente” nella sua indefinitezza. E sia chiaro: è anche comprensibile e in fondo irrinunciabile che si cerchi di definirla con il linguaggio, comune o matematico (e quest’ultimo temo sia fin troppo impoverente). L’importante è essere consapevoli che quella “realtà” si ritrae, fugge, non si vuol lasciare definire; dunque diventa assente per quanto esistente. Non badate adesso al mio modo di porre il problema. Sembra quasi che questa “realtà” sia diventata come noi, abbia le sue timidezze e si nasconda, scappi. No, è solo un modo di scrivere e parlare. Spero mi si sia capito.

In definitiva, non penso che quella che definiamo realtà sia un intero ancora non conosciuto, ma pienamente aperto comunque alla nostra conoscenza; sia pure, come già detto, per approssimazioni successive. Ritengo ci sia “qualcosa” (ed è già termine scorretto) che esercita i suoi effetti proprio nella sua ineliminabile indefinitezza. Qualcuno è sicuro che arriverà infine a definirlo mediante il linguaggio; alcuni addirittura sono convinti di poterlo fare con tanta precisione e usa il linguaggio matematico. Sarebbe questo che ci avvicina sempre più alla definizione di ciò che è ancora indefinito; dove con tale termine si deve semplicemente intendere indeterminato, e proprio indeterminato nei suoi aspetti quantitativi e numerabili. Invece, secondo gli scienziati, diverrà determinato e proprio sotto l’aspetto quantitativo.

Non credo appunto questo. Per cui se devo rifarmi al linguaggio, ritengo meno lontano da quella indefinitezza (irrimediabile) quello dell’arte e della letteratura, perché lascia più ampi margini non semplicemente alla fantasticheria, ma al pensiero dell’indeterminato e ne accetta l’interminabile successione di tentativi di interpretazione della sua effettiva indefinitezza Alcuni credono di raggiungere la certezza non tramite il linguaggio – e la ragione che esso serve – bensì tramite quella che chiamiamo fede. Non entro qui in discussioni che sarebbero in definitiva interminabili. A me interessava semplicemente porre il problema dell’esistenza dell’indefinito, dell’indeterminato, entro cui si svolge la nostra vita. Il linguaggio non può rendere bene l’idea; comunque diciamo che si tratta di una rete di canalicoli entro cui scorre un “liquido” non conoscibile altrimenti che per i suoi possibili effetti. E dentro quel liquido, nell’ambito di quella rete di canalicoli, scorriamo noi, la nostra vita. E cerchiamo di afferrare, e di precisare – addirittura ricorrendo al linguaggio matematico – in quale(i) canalicolo(i) ci troviamo, la natura del liquido e dove ci porta.

Alcuni sono convinti – e guardate che non irrido affatto a questa convinzione, e nemmeno dico che è fallace – di poter infine individuare Il Canalicolo, quello Vero e Unico che porta in una precisa direzione. Solo che non si scopre tramite Ragione ma per altra via. Altri ritengono che ne esistano propriamente molti, non veri ed unici, ma comunque conoscibili e percorribili sia pure adeguandosi al loro percorso in reticolo. E dunque sarebbe pure possibile individuare, analizzare, fissare nella sua (magari mutevole) natura, il “liquido” che scorre in essi; in modo da definire un possibile ventaglio di scelte che ci portano alla sicurezza di arrivare all’obiettivo od obiettivi voluti. Altri ancora, e forse sono in “questo luogo”, credono che l’idea stessa della rete di canalicoli, del liquido, ecc. sia soltanto un modo di pensare per renderci stabili nel mondo mentre agiamo; ma nel mentre lo facciamo, siamo, inavvertitamente o avvertitamente, trascinati e a volte proprio travolti lungo percorsi che non conosciamo. Ci aggrappiamo, puntiamo i piedi, cerchiamo di afferrare appigli e spesso ci accorgiamo di essere in luoghi ignoti e non troviamo punti solidi su cui stare in piedi; siamo sempre sballottati e facciamo continue capriole nel mezzo di una sorta di mare in ebollizione che ci squilibra continuamente.

E’ in questo ribollimento che penso di trovarmi, nel mentre cerco una mia idea di “campo” per rendermi stabile e saldo in piedi (più semplicemente immagino di essere nella stabilità e saldo in piedi, ma per un po’ di tempo posso fingerlo, mi è utile) al fine di andare verso una profonda trasformazione dell’ideologia che è stata la mia durante una vita: il marxismo. Non ho sfizi di verità, di conoscenza della “realtà”. Devo invece sempre più rendermi conto di quell’“assenza”, presente e produttrice di effetti, che cerco di imbrigliare – senza la pretesa di conoscerla – per poter trascorrere gli anni di vita in questo mondo che non mi è gran che noto. E quell’“assenza” è appunto l’indefinitezza, l’indeterminatezza. Agisco in questa e, al contrario di quanto sostenne il grande Newton, dico: hypotheses fingo. L’ipotesi non ha come scopo di approssimarsi alla conoscenza della realtà: semplicemente vuol provarsi nel compito di creare un campo di stabilità utile alla nostra azione pratica nel mondo.

Questa ipotesi, tuttavia, tiene sempre presente che il mondo in cui vivo e agisco cela un’assenza, da me pensata come indefinita ma non certo priva di effetti. L’ipotesi finge che questi effetti siano quelli da essa previsti in quanto prodotti da un campo non soggetto a squilibri incessanti e tumultuosi; un campo anzi in cui disporre i vari “soggetti” agenti e analizzare lo svolgimento della loro interazione, supponendo l’esistenza di una struttura di rapporti fra loro (solo finta perché lo squilibrio cui mi riferisco non può consentire l’effettivo consolidarsi di una struttura definita). Quando pongo la struttura stabile e “definisco” (fingendo ipotesi) gli effetti dell’interazione tra i “soggetti” nel suo ambito attivi, ricerco il massimo di realismo. E che cos’è questo realismo? Un approssimarsi progressivo alla realtà? No, è un provare se operando su quel campo di stabilità ottengo, almeno per un certo periodo di tempo, dei successi. Se li ottengo, mi dico di avere conseguito un dato grado di realismo. Non però di conoscenza della realtà. Questa continua ad essere indefinibile a causa del suo squilibrio tumultuoso, dell’assenza di ogni struttura; e noi, pur non accorgendoci del fatto, siamo scaraventati in capriole e volteggi come quando si è in assenza di gravità.

Siamo appunto dentro la presenza di un’assenza che è la stessa indefinitezza del movimento squilibrante. Esiste, però, e come se esiste! In definitiva, quindi, non è vero che “non c’è”; invece E’. Non tentiamo tuttavia di definirla, magari con il metodo delle approssimazioni successive. Accettiamo l’indeterminazione; non per favore il principio di indeterminazione quantico che non ha nulla a che vedere con l’indefinitezza. Questa indeterminazione, che è l’assenza, è appunto impossibilità di definizione. E da qui prendiamo le mosse per le nostre ipotesi stabilizzanti che guideranno infine la nostra azione, i nostri movimenti nel mondo. Tenendo tuttavia conto del limite della nostra conoscenza e quindi della temporaneità dei nostri – e solo eventuali – successi. Soltanto l’ideologia fissa poi questa pretesa conoscenza e ci porta progressivamente al fallimento, alla delusione, talvolta al vero disastro.

Spero sia risultato un tantino chiaro.

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FANTASIA O REALTA’? DOMANDA NON CONCLUSIVA

                                                                   …Tu mi stai accanto, lontananza del socialismo. (B. Pasternak)

Vi proponiamo questo breve saggio di Gianfranco La Grassa che, molto probabilmente, entrerà a far parte di un libro elettronico, in preparazione, dedicato alla sua teoria dello squilibrio conflittuale, quale punto di partenza per l’indagine della “profondità” sociale. Ovvero, come scrive espressamente il pensatore veneto, l’elemento più generale da considerare, nell’interpretazione dei fenomeni sociali, è lo squilibrio immanente nel flusso della realtà. In questo scritto, piuttosto denso di spunti teorici, si porta in evidenza un altro concetto, legato al “principio” (da intendersi nel duplice senso di matrice dell’analisi teorica e di categoria fondativa) dello squilibrio: quello di campo di stabilizzazione. Per La Grassa, poiché la realtà è continuo ed inarrestabile divenire, occorre ipotizzare un campo strutturato per mettere alla prova la propria visione dei processi sociali e la capacità d’incidere su di essi. Compito degli strateghi è, allora, quello di fissare delle coordinate che “segnalino” il campo, nonché i rapporti di forza da cui questo risulta attraversato, al fine di disporre le proprie “legioni”e muoversi al suo interno con intenti di egemonia, tenendo presente che il flusso conflittuale rende, soprattutto in determinati periodi storici, estremamente variabili dette coordinate, richiedendo estrema flessibilità di pensiero e di esecuzione agli agenti. Per questo, precisa La Grassa, nel suo concetto di campo è l’assenza, da intendersi come indefinitezza del movimento squilibrante (che nella sua essenza resta inconoscibile), a produrre quegli attriti che servono “a fondare il conflitto tra strategie di ‘soggetti’ che si pongono nella veste di agenti in lotta per la supremazia; ma si pongono come tali a causa di quell’assenza (indefinita) squilibrante”.

Buona Lettura. (G.P.)

qui trailers

1. Ho dovuto mettere questi “provini”, come si diceva un tempo, o trailers oggi. Mi interessa soltanto l’ultima scena, in cui l’autore di Peter Pan (interpretato da Johnny Depp) si rivolge al fanciullo e gli dice come deve fare per rendere reale l’“Isola che non c’è”. Crederci veramente. Da questo momento, mi stacco però dal commento al film di cui si tratta (Neverland) perché lo intendo solo come punto di partenza dei miei ingarbugliati ragionamenti, di cui mi scuso fin d’ora (e poi non lo farò più).

La risposta che avete sentito mi sembra quella più usuale ma anche la più banale. Bisogna credere nelle cose, anche le più fantastiche e immaginarie; e questo basterebbe a renderle, se non reali, diciamo effettuali. Può senz’altro accadere, in parte, per ciò che riguarda, ad esempio, certe ideologie. Prendiamo il comunismo o, più precisamente, il socialismo poiché anche nel movimento comunista, quand’esso aveva ancora un’intenzione minimamente “realistica”, non si parlava della rivoluzione “proletaria” come di quella che avrebbe abbattuto il capitalismo per dar vita alla società comunista. Si parlava di una necessaria transizione dal capitalismo al comunismo che avrebbe conosciuto il primo stadio, quello socialistico, già del resto preparato dai processi di socializzazione avvenuti nella sfera produttiva, ecc. E quando si verificò la Rivoluzione d’ottobre e, infine, fu necessario rassegnarsi al fatto che questa era rimasta confinata nella Russia (divenuta Urss), si parlò di “costruzione del socialismo” (in un paese solo, ecc.).

In ogni caso, ci si credé e, dopo la seconda guerra mondiale, si fu pure convinti della nascita del “campo socialista”. Questa credenza, quella che poi divenne una vera fede priva di riferimenti effettivi, ha senza dubbio favorito certi successi di quella serie di eventi iniziata nell’ottobre del ’17, ma non ha dato vita a quell’“Isola che non c’era”, detta socialismo. Quindi, la credenza in qualcosa che non esiste può avere per un certo periodo storico una forte valenza emozionale e promozionale, ma non certo di quanto fantasticato e desiderato, bensì di un’altra realtà che ha preso il suo posto. E poi, pian piano, quest’ultima si afferma e fa cadere molte illusioni. Chi continua a credere ai suoi puri desideri resta un “residuato storico”; in molti casi provoca anche grossi guai. E accade pure, in date contingenze – soprattutto quando le illusioni conducono alla rapida sconfitta degli illusi – che questi facciano una gran brutta fine, ecc.

Non consiglierei mai a nessuno, e tanto meno ad un bambino (magari tenero e terreno fertile per illusioni molto…. deludenti), di credere a pure fantasticherie. Salvo che per il periodo di tempo dell’infanzia, che è anche quello delle belle favole. Insistere oltre mi sembra decisamente diseducativo. Considero positivo che l’adulto non azzeri del tutto l’adolescente dentro di sé – cosa che invece normalmente si affretta a fare – poiché ciò mantiene in vita una notevole freschezza pronta ad accogliere la novità, altrimenti combattuta e respinta (e magari repressa) in nome della consuetudine, del conformismo, dell’abitudine a pensare sempre eguale. Tuttavia, tale freschezza va controllata onde non diventi solo credulità, apertura a sempre nuove fantasie destituite del minimo fondamento “in re”.

2. In ogni caso, non mi sembra che debba essere questo il significato più interessante dell’“Isola che non c’è”. La mia attenzione si concentra, ma solo come primo passo intermedio, sul fatto che il “non c’è” non deve significare necessariamente che “non esiste”. Non c’è, ma esiste. Forse, in qualche caso, si dovrebbe dire esisterà. Magari sì, ma consideriamo più da vicino la questione. In ogni caso, non si deve far riferimento semplicemente a qualcosa in cui si crede (secondo il consiglio di Barrie/Depp) e su cui si dovrebbe scatenare la semplice fantasia creatrice. Fantasia ci vuole egualmente, ma per pensare che il “non c’è” esiste(rà). Dico subito che non sappiamo che cosa esiste(rà), questo ci è ignoto, ma comunque è o sarà presente sicuramente. I due esempi più chiari che mi vengono in mente sono: la faccia nascosta della Luna; il tema dell’assenza, della non presenza, che non significa “non esistenza” e, dunque, “non esserci”.

La Luna mostra solo una faccia per cui, fin quando non la si è potuta aggirare con dei razzi, non era possibile conoscere il suo “dietro”. Certamente la fantasia si può sbizzarrire a immaginare quel che desidera; tuttavia, l’altra faccia esiste, è presente. Pur se non è nella visione, alla fine verrà il momento in cui la fantasia sarà rinchiusa entro spazi molto limitati da ciò che infine si è visto. Mi devono presentare una bella fanciulla che esiste ma non ho ancora mai vista? Posso senz’altro lasciar andare le briglie alla mia immaginazione, probabilmente caricarla di bellezza superiore al vero (per cui poi resterò deluso, come si è stati delusi dal sedicente comunismo). L’immaginazione può dilagare quanto vuole, ma quella fanciulla esiste e prima o poi la resa dei conti arriverà con il suo esserci nella presenza effettiva. Tuttavia, in tal caso l’“Isola non c’è ma ci sarà”, è solo questione di tempo. Tutto in noi si prepara all’arrivo. Immaginiamo come sarà quella data realtà, siamo certi che non sarà per nulla come la stiamo immaginando, ma sappiamo che è solo questione di tempo, l’Isola si paleserà e sarà finito il non c’è.

Pensiamoci però bene. Secondo quello che dice Barrie/Depp al bambino, il problema decisivo è credere che una qualche Isola, con i connotati che ci possano più piacere, esista. E allora, dice l’adulto, vedrai che l’Isola comincerà ad esistere; evidentemente dentro di te, per come la crederai realmente possibile nella sua esistenza. Oppure, più facilmente, prenderai atto che non esisterà mai come te la immagini, ma ti accontenti di ciò che hai costruito dentro di te, che hai sprofondato il più saldamente possibile nel tuo animo. Bello, poetico, ma pericoloso. O ti isoli dal mondo e mantieni intatta in te quest’Isola, ma vivendo senza alcun contatto con il reale. Oppure alla fine devi realizzare che si trattava solo di sogni infantili e potresti subirne un grosso contraccolpo, che talvolta riesce a gettarti nella follia. E malgrado le chiacchiere sulla felicità dei folli, credo che sia tutta una menzogna; ho la netta sensazione che i folli alla fine soffrano, e tanto. Se prendi invece atto fin dall’inizio di stare fantasticando un’assenza che infine ti si presenterà, si manifesterà, sei già pronto alla presa d’atto che la realtà non sarà propriamente come te l’eri “fabbricata”. Una delusione modesta, per quanto male ti vada; talvolta invece una lieta sorpresa e una visione perfino migliore di quanto ci si aspettava. In ogni caso, ci si trova fin dall’inizio in una situazione di relativo equilibrio, che non porta certo alla delusione cocente.

3. La situazione più interessante è però la presenza (attuale) dell’assenza. Nessuna aspettativa che l’assenza sia temporanea; no, è proprio l’assenza la determinante essenziale del nostro modo d’essere e d’agire. L’assenza è essente, si sta manifestando e realizzando e producendo i suoi effetti, malefici o benefici. Quest’assenza è in definitiva una presenza, e permanente; l’“Isola che non c’è” in realtà E’. L’assenza è proprio effettuale, determina influssi e avvia processi. La si vive profondamente, il proprio animo ne è forgiato e la propria individualità vive e agisce in questa “realtà” ben consolidata, ben radicata. Ciò vale per il singolo individuo come per determinati gruppi sociali che si vanno strutturando e organizzando proprio in base ad un’assenza, ad un “non c’è”.

Prendiamo il gruppo dirigente sovietico, una volta stabilizzatosi al vertice del potere in Urss. Ha certo subito modificazioni, cambiamenti anche notevoli e in base a lotte intestine; tuttavia, è rimasto nella sostanza quello per molto tempo, per tutto il periodo del consolidamento della potenza del paese e poi del suo improvviso cedimento poiché l’“assenza” si è fatta troppo grave e incisiva sugli equilibri della particolare forma di potere creata appunto dall’“assenza” del socialismo. Quel gruppo è rimasto al potere per la sua capacità di far credere a coloro che più gli erano stretti attorno all’esistenza della costruzione socialistica? No, non sarebbe durato a lungo, la delusione degli adepti avrebbe prevalso con una certa celerità. Invece, c’era l’“assenza” di detta costruzione che veniva determinando una creazione e articolazione di apparati (in primo luogo di Stato, la sfera produttiva era piuttosto debole in quella formazione sociale) secondo forme adeguate ad un lungo uso del potere con indubbia efficacia, pur progressivamente decrescente.

Se avesse prevalso la credenza (fantastica) nel socialismo – mettiamo l’idea della “rivoluzione permanente” – quel gruppo di potere sarebbe stato spazzato via in poco tempo. L’“invenzione storica” ha dato vita ad un’“assenza”. Non dico che i dirigenti sovietici fossero consci di “non costruire il socialismo” (credo il contrario), ma resta il fatto che non ha vinto una illusione fantastica, bensì un’“assenza” molto concreta e pesante; e questa ha consentito il mantenimento del potere e l’evoluzione storica che si è avuta nel secolo XX. Perché, al di là di ciò che potevano credere i singoli dirigenti (e lo stretto gruppo di adepti che li supportava), l’“assenza” della costruzione del creduto socialismo ha dato vita a determinati interessi dei componenti di questo gruppo; e detti interessi li hanno mantenuti per l’essenziale uniti a lungo (salvo alcune lotte intestine pure acute che non mutavano però i più decisivi assetti del potere).

4. Lo stesso avviene per le credenze individuali; mettiamo quella in Dio. Ma prima di continuare mi si consenta una non breve digressione nel campo della fisica. Non sono fisico, anche se avrei voluto esserlo; sono dunque molto ignorante e posso sbagliare gravemente. Tuttavia, mi ci provo. Per millenni si è affermata la convinzione della presenza di spazi eminentemente vuoti. In questo caso, l’“assenza” è effettivamente “non presenza”, inesistenza d’ogni cosa. Da qui il famoso “horror vacui”. Non posso star qui a discutere questo problema, ma penso che si sia trattato di un pensiero tutto sommato deleterio. Una minoranza, democritea, pensava ad un mondo fatto di corpuscoli, quindi granulare; per cui non vi era mai effettivo spazio vuoto. Però anche in tal caso, si è pensato ad una infinità di granuli atomici infinitamente piccoli. Purtroppo anche l’infinito è un pensiero deleterio come, se non ricordo male, aveva ben capito Leopardi. Ha senso parlare dell’indefinito, non dell’infinito.

Se si pensa ad una infinità di granuli infinitamente piccoli si deve arrivare a supporre dei semplici punti privi di qualsivoglia dimensionalità. Ed è difficile pensare ad una infinità di punti inestesi che dia vita ad un’estensione considerata infinita. Oggi, appunto, non mi sembra si pensi così: gli atomi sono granuli piccolissimi, ma hanno dimensione e il loro numero nell’Universo è indefinito, non infinito. L’assenza della definitezza del loro numero – perché dire indefinito non significa affatto non definire qualcosa, lo si definisce invece, si dice che è il contrario della definitezza, si afferma che è impossibile definire quel “qualcosa” – è essenziale per pensare un mondo senza spazi vuoti, costantemente granulare (pur qualora gli addensamenti di tali granuli, quelli visibili, si pongano a grandi distanze gli uni dagli altri). Questi granuli, che non sono semplici punti inestesi, si muovono in continuazione, si passano vicini, si urtano ecc.; e la loro energia, se ho capito alla bell’e meglio il problema, rende lo spazio curvo e i movimenti in esso di un certo tipo; non è lo spazio pensato come un grande (infinito appunto) contenitore vuoto in cui corrono i corpi stellari, la cui traiettoria s’incurva per effetto di quella “misteriosa” forza di attrazione gravitazionale che si sprigiona dalla massa dei corpi in questione. Non so bene se anche i buchi neri siano un precipitare di questi granuli verso un “centro” che si apre come crepaccio e li ingoia. Ma qui veramente devo chiedere ad un fisico, se sa spiegarmi bene la faccenda; perché capisco che certi problemi sono di complicata esplicazione.

Data appunto la mia ignoranza, mi è ancora più difficile affrontare il problema del campo, “scoperto” (immaginato) da Faraday, assolutamente ignaro di matematica, e poi matematizzato da Maxwell. Il campo, scoperto da uno e matematizzato dall’altro, è quello sede dei fenomeni elettromagnetici e mi sembra di capire che è una sorta di rete che copre lo spazio; tanti “fili” attraverso cui corrono i corpuscoli con movimento ondulatorio (e a diversa frequenza), che è appunto quello della rete costitutiva del campo. E’ fondamentale per meglio comprendere come mai vi è lo specifico movimento dei corpi nello spazio che non si attraggono affatto a distanza come nella teoria newtoniana, ma semmai interagiscono fra loro. E’ tuttavia meglio che non mi addentri in un problema per nulla semplice. Anch’io, nel mio piccolo, ho formulato (senza matematizzazione alcuna) un concetto di campo, che penso tuttavia non abbia a che vedere con quello fisico. Ed è chiaramente un’ipotesi tesa a superare quella centralità della sfera produttiva, e dunque della proprietà o meno dei mezzi di produzione, nucleo centrale e fondante la teoria marxista e che ha procurato alla fine l’incomprensione profonda dei fenomeni storici del ‘900; e proprio, in particolare, a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre.

In ogni caso, l’indefinizione è l’assenza di definitezza. E tale “assenza” non venga adesso semplicisticamente presa come inconoscibilità e basta. Se solo di questo si trattasse, si sarebbe potuto continuare a parlare o dello spazio vuoto o dell’infinita presenza di punti inestesi. Gli atomi sono conoscibili. La loro innumerabilità (l’indefinitezza del loro numero) ha il carattere dell’assenza, non semplicemente dell’inconoscibilità. Si fa confusione perché si dice: ma il loro numero è inconoscibile. Nel Gattopardo sta scritto che nel Palazzo del Principe vi erano così tante stanze che nessuno ne conosceva il numero. Era inconoscibile tale numero? Non proprio; non aveva grande interesse conoscerlo, l’assenza (presente) di quel numero non turbava nessuno; non vi era quindi, in chi vi abitava, alcuna spinta a conoscerlo, poteva ben restare nell’assenza di definizione. Quel Palazzo era comunque quello del Principe, conoscerne il numero delle stanze era del tutto superfluo, non avrebbe cambiato l’“essenza” di quel Palazzo. Lo stesso per noi. Ha vero interesse conoscere il numero di quei granuli che compongono l’Universo? Beh. Lo chiederò appunto a qualche amico fisico. A occhio e croce a me sembra di no.

Del resto, anche nel mio concetto di campo è l’assenza – nel senso dell’indefinitezza e non certo intesa come non presenza – a produrre quello squilibrio (sussultorio) che mi serve poi a fondare il conflitto tra strategie di “soggetti” che si pongono nella veste di agenti in lotta per la supremazia; ma si pongono come tali a causa di quell’assenza (indefinita) squilibrante. Speriamo che si riesca a buttare fuori presto (in sede elettronica) il mio libretto sulla teoria dello squilibrio incessante. Vedremo allora se sarò riuscito a spiegarmi adeguatamente.

5. Non me ne voglia nessuno se accenno, e senz’altro in modo improprio, al problema della credenza in Dio. E’ solo un buon esempio per afferrare un po’ meglio questo tema dell’“assenza”. Non lo si intenda in altro senso; solo per il motivo appena detto. Penso si possa porsi la domanda: perché si crede in una “realtà altra” rispetto a quella vissuta tutti i giorni e della cui finitezza l’uomo ha raggiunto piena consapevolezza con il terrore (o almeno timore) di finire nel nulla, nella pura non esistenza? Immagino, appunto, per non cadere in questa situazione psicologica, per poter pensare che vi sarà un’altra vita; di fatto sconosciuta, inconoscibile nella sua essenza, ma “promessa” da qualcuno o qualcosa. Non intendo entrare nelle diverse posizioni assunte dalle varie religioni. Non ne sarei in grado e non è questo il tema in oggetto di trattazione. Lo può affrontare seriamente solo chi ha fede e non fa semplice appello a quella che definiamo ragione. Dico subito che non sono un adoratore della Ragione, non credo sia la suprema qualità dell’umano. Nemmeno sono però per la sua mera svalutazione, per il sospetto nei suoi confronti. E’ un carattere che abbiamo e che senza dubbio gli altri animali (e tanto meno i vegetali) hanno; almeno questa è l’opinione comune. Non mi sembra una situazione di cui dobbiamo esaltarci e nemmeno vergognarci; è così e basta. Certamente, ci rende spesso discretamente poco felici per la consapevolezza piena che abbiamo della nostra finitezza (in tutti i sensi possibili).

Non mi convince per nulla tutta la discussione che vuol provare l’esistenza o l’inesistenza di Dio (o della “realtà altra” di cui detto). Non ho vera paura di finire nel nulla; mi “secca” però moltissimo. E capisco poco quelli che, con fare di grande superiorità intellettuale, dicono: quando sarai nel nulla non potrai saperne nulla e non soffrirai per nulla; e finché sei qui goditi la tua esistenza. Me la godo (diciamo meglio: me la sono goduta), ma sempre con questo “fastidio”: il pensiero di finire in quel nulla che mi agita ogni tanto (non ci penso sempre, per carità). So che se non ci sarà nulla, non lo potrò sapere, non sentirò alcunché, ecc. Intanto però il timore esiste, è presente e mi accompagna mentre non sono ancora arrivato al nulla. Se pensassi, cioè avessi fede, nell’altra realtà, sarei più tranquillo. Non sono però in questa situazione. Tuttavia, mai nella mia vita sono riuscito ad interessarmi veramente alla questione della sussistenza o meno di un’“altra realtà”, di un’altra possibile vita dopo la fine di quella che conosciamo (beh, conosciamo per modo di dire; insomma quella che viviamo).

Sono sempre stato molto freddo, e in definitiva annoiato, nei confronti delle accanite discussioni intese a provare l’esistenza o l’inesistenza di ciò che viene solitamente indicato con il nome di Dio. Molto superficialmente mi è sembrato di capire l’esigenza di coloro che ci credono. Sono rimasto maggiormente stupito dell’accanimento – condito spesso da acredine o da irrisione che copre però la malevolenza – di chi sostiene l’irrealtà di qualcosa oltre all’Universo di cui abbiamo consapevolezza. Costui afferma che non lo conosciamo del tutto, ma pezzo dopo pezzo lo conosceremo; quanto meno ci avvicineremo asintoticamente alla sua completa conoscenza. Insomma, non la raggiungeremo mai in modo proprio completo, ma ci andremo sempre più vicini; infinitamente più vicini (questo è il solito pensiero dell’infinitezza, invece che indefinitezza, che mi lascia perplesso). Ed in questo modo escluderemo via via ogni altra presenza “estranea” a quello che “c’è”. Non credo proprio ad alcun percorso asintotico, non credo che ridurremo sempre più la nostra distanza dall’“ignoto”. Semplicemente, non riesco ad interessarmi a questo “ignoto”.

Qualcuno potrà dire: è chiaro, sei un agnostico. Mi par di afferrare che l’agnostico s’interessa al problema dell’esistenza o meno di Dio, e poi conclude per un “non possiamo sapere” poiché ritiene che non vi siano prove conclusive per una tesi o per l’altra. Io non riesco a seguire proprio la discussione, mi sembra una delle tante contrapposizioni che si (sor)reggono reciprocamente nel mentre si scontrano fra loro con il massimo accanimento. Sono le ben note tesi che si affrontano polemicamente, con continue confutazioni reciproche, ma stanno in “solidarietà antitetico-polare”, espressione quanto mai felice per afferrare il problema.

A me sembra – ma non pretendo che nessuno sia convinto di quanto dico, meglio che lo precisi – che i due “soggetti” in discussione antagonistica cerchino di definire la loro rispettiva posizione. Hanno bisogno di definirla perché, alla fin fine, definire la loro posizione significa autodefinirsi, sentirsi più propriamente esistenti essi stessi. Hanno bisogno della sicurezza di poter dire: “io sono”. E non cambia molto se citiamo il “penso, dunque io sono”. Perché quel penso è in fondo l’esigenza della definitezza, dell’essere saldi nel mondo. Anche chi ha fede, pensa; eccome, pensa ad un’altra definitezza, ma ci pensa fortemente e con grande convinzione. Pensiero non è sinonimo di Ragione. Avere fede è pensare tanto quanto pensa chi crede di esercitare la Ragione per confutare colui che ha fede. Banale affermazione, certo, affermazione incontrovertibile; e tuttavia si ha talora l’impressione che qualcuno lo dimentichi.

Ho la sensazione, per carità solo una (mia) sensazione, che la realtà da noi vissuta – e, a mio avviso, assai poco veramente conosciuta – segnali proprio la presenza di un’“assenza”, di qualcosa che sembra non esserci, ma invece c’è pur se non definito. Non mi convince la tesi che la differenza del genere uomo (pur se è passata per molti generi, alcuni dei quali intermedi tra noi e qualche specie animale) sia spiegabile come una sorta di “eccitazione” della materia. E mi auguro nessuno pensi all’energia perché sappiamo ormai che massa ed energia sono solo due facce della stessa medaglia: quella che chiamiamo materia. Lasciamo perdere la sua “eccitazione”.

Si dice anche che non ha senso pensare alla nostra solitudine nell’Universo. Da qualche altra parte vi sarà un altro pianeta come il nostro, con altra materia arrivata allo stadio dell’essere pensante e raziocinante. E’ una credenza ragionevole, ma tanto diversa da quella di Dio? In fondo, pensiamo a quest’altro essere cosciente, che deve esistere data l’assurdità della nostra solitudine in quest’Universo così enorme, come avesse tutto sommato le nostre stesse caratteristiche. E cosa fanno quelli che pensano ad un qualche Dio? Ne fanno un Superuomo. Non è convincente. Quest’Universo ha una sua “precisa” indefinitezza. Del resto, anche il pensiero del Big Bang (è l’ipotesi più accreditata, pur se mai definitiva) implica qualcosa che verrebbe prima. E che senso ha chiedersi di questo prima? E’ come chiedersi se io, prima di nascere, esistevo in qualche altro essere animato o inanimato. E visto che si crede piuttosto fermamente, in base ad esperienza, che l’Universo è in espansione (mi sembra pure accelerata; comunque non è essenziale), cosa accadrà dopo? Ma dov’è situato temporalmente (e dunque credo anche spazialmente) questo dopo?

Ahi, ahi, credo che non sia definibile né un prima né un dopo. E tuttavia, è difficile non pensare che ci siano. Sono appunto indefiniti, dunque assenti in quanto l’assenza è l’indefinitezza. Ma non si possono dire inesistenti. E nemmeno si può rispondere come Barrie/Depp al bambino: credi fermamente in qualcosa di definito e questo esisterà; solo nel tuo cervello che fantastica, ma esisterà. No, quella di cui parla Barrie è proprio fantasia, inesistenza di ciò che si pensa; importantissima per vivere meglio (salvo le possibili delusioni che fanno entrare in depressione); nessuno lo nega, ma è un’altra faccenda. Il prima e il dopo esistono ma non definiti. Li possiamo fantasticare, crearli con il massimo dispiegamento di immaginazione; ma non sono loro, loro stanno saldi nella loro indefinitezza, sfidano qualsiasi immaginazione umana.

6. Dobbiamo allora non più fantasticare, non crearci delle “realtà” irreali, fittizie, spesso molto belle ed emozionanti? No, fantastichiamo, è importante farlo, è spesso una valvola di sfogo alla solitudine, all’amarezza, alle disillusioni, al disamore, ecc. Solo non partiamo per la tangente immaginando che abbiamo dato vita ad una “realtà altra” ben definita e salda in tutti suoi contorni, situata con precisione nello spazio/tempo della nostra vita. Credo però ci sia questa “realtà altra”, forse qualcuno anche la “sente” nella sua indefinitezza. E sia chiaro: è anche comprensibile e in fondo irrinunciabile che si cerchi di definirla con il linguaggio, comune o matematico (e quest’ultimo temo sia fin troppo impoverente). L’importante è essere consapevoli che quella “realtà” si ritrae, fugge, non si vuol lasciare definire; dunque diventa assente per quanto esistente. Non badate adesso al mio modo di porre il problema. Sembra quasi che questa “realtà” sia diventata come noi, abbia le sue timidezze e si nasconda, scappi. No, è solo un modo di scrivere e parlare. Spero mi si sia capito.

In definitiva, non penso che quella che definiamo realtà sia un intero ancora non conosciuto, ma pienamente aperto comunque alla nostra conoscenza; sia pure, come già detto, per approssimazioni successive. Ritengo ci sia “qualcosa” (ed è già termine scorretto) che esercita i suoi effetti proprio nella sua ineliminabile indefinitezza. Qualcuno è sicuro che arriverà infine a definirlo mediante il linguaggio; alcuni addirittura sono convinti di poterlo fare con tanta precisione e usa il linguaggio matematico. Sarebbe questo che ci avvicina sempre più alla definizione di ciò che è ancora indefinito; dove con tale termine si deve semplicemente intendere indeterminato, e proprio indeterminato nei suoi aspetti quantitativi e numerabili. Invece, secondo gli scienziati, diverrà determinato e proprio sotto l’aspetto quantitativo.

Non credo appunto questo. Per cui se devo rifarmi al linguaggio, ritengo meno lontano da quella indefinitezza (irrimediabile) quello dell’arte e della letteratura, perché lascia più ampi margini non semplicemente alla fantasticheria, ma al pensiero dell’indeterminato e ne accetta l’interminabile successione di tentativi di interpretazione della sua effettiva indefinitezza Alcuni credono di raggiungere la certezza non tramite il linguaggio – e la ragione che esso serve – bensì tramite quella che chiamiamo fede. Non entro qui in discussioni che sarebbero in definitiva interminabili. A me interessava semplicemente porre il problema dell’esistenza dell’indefinito, dell’indeterminato, entro cui si svolge la nostra vita. Il linguaggio non può rendere bene l’idea; comunque diciamo che si tratta di una rete di canalicoli entro cui scorre un “liquido” non conoscibile altrimenti che per i suoi possibili effetti. E dentro quel liquido, nell’ambito di quella rete di canalicoli, scorriamo noi, la nostra vita. E cerchiamo di afferrare, e di precisare – addirittura ricorrendo al linguaggio matematico – in quale(i) canalicolo(i) ci troviamo, la natura del liquido e dove ci porta.

Alcuni sono convinti – e guardate che non irrido affatto a questa convinzione, e nemmeno dico che è fallace – di poter infine individuare Il Canalicolo, quello Vero e Unico che porta in una precisa direzione. Solo che non si scopre tramite Ragione ma per altra via. Altri ritengono che ne esistano propriamente molti, non veri ed unici, ma comunque conoscibili e percorribili sia pure adeguandosi al loro percorso in reticolo. E dunque sarebbe pure possibile individuare, analizzare, fissare nella sua (magari mutevole) natura, il “liquido” che scorre in essi; in modo da definire un possibile ventaglio di scelte che ci portano alla sicurezza di arrivare all’obiettivo od obiettivi voluti. Altri ancora, e forse sono in “questo luogo”, credono che l’idea stessa della rete di canalicoli, del liquido, ecc. sia soltanto un modo di pensare per renderci stabili nel mondo mentre agiamo; ma nel mentre lo facciamo, siamo, inavvertitamente o avvertitamente, trascinati e a volte proprio travolti lungo percorsi che non conosciamo. Ci aggrappiamo, puntiamo i piedi, cerchiamo di afferrare appigli e spesso ci accorgiamo di essere in luoghi ignoti e non troviamo punti solidi su cui stare in piedi; siamo sempre sballottati e facciamo continue capriole nel mezzo di una sorta di mare in ebollizione che ci squilibra continuamente.

E’ in questo ribollimento che penso di trovarmi, nel mentre cerco una mia idea di “campo” per rendermi stabile e saldo in piedi (più semplicemente immagino di essere nella stabilità e saldo in piedi, ma per un po’ di tempo posso fingerlo, mi è utile) al fine di andare verso una profonda trasformazione dell’ideologia che è stata la mia durante una vita: il marxismo. Non ho sfizi di verità, di conoscenza della “realtà”. Devo invece sempre più rendermi conto di quell’“assenza”, presente e produttrice di effetti, che cerco di imbrigliare – senza la pretesa di conoscerla – per poter trascorrere gli anni di vita in questo mondo che non mi è gran che noto. E quell’“assenza” è appunto l’indefinitezza, l’indeterminatezza. Agisco in questa e, al contrario di quanto sostenne il grande Newton, dico: hypotheses fingo. L’ipotesi non ha come scopo di approssimarsi alla conoscenza della realtà: semplicemente vuol provarsi nel compito di creare un campo di stabilità utile alla nostra azione pratica nel mondo.

Questa ipotesi, tuttavia, tiene sempre presente che il mondo in cui vivo e agisco cela un’assenza, da me pensata come indefinita ma non certo priva di effetti. L’ipotesi finge che questi effetti siano quelli da essa previsti in quanto prodotti da un campo non soggetto a squilibri incessanti e tumultuosi; un campo anzi in cui disporre i vari “soggetti” agenti e analizzare lo svolgimento della loro interazione, supponendo l’esistenza di una struttura di rapporti fra loro (solo finta perché lo squilibrio cui mi riferisco non può consentire l’effettivo consolidarsi di una struttura definita). Quando pongo la struttura stabile e “definisco” (fingendo ipotesi) gli effetti dell’interazione tra i “soggetti” nel suo ambito attivi, ricerco il massimo di realismo. E che cos’è questo realismo? Un approssimarsi progressivo alla realtà? No, è un provare se operando su quel campo di stabilità ottengo, almeno per un certo periodo di tempo, dei successi. Se li ottengo, mi dico di avere conseguito un dato grado di realismo. Non però di conoscenza della realtà. Questa continua ad essere indefinibile a causa del suo squilibrio tumultuoso, dell’assenza di ogni struttura; e noi, pur non accorgendoci del fatto, siamo scaraventati in capriole e volteggi come quando si è in assenza di gravità.

Siamo appunto dentro la presenza di un’assenza che è la stessa indefinitezza del movimento squilibrante. Esiste, però, e come se esiste! In definitiva, quindi, non è vero che “non c’è”; invece E’. Non tentiamo tuttavia di definirla, magari con il metodo delle approssimazioni successive. Accettiamo l’indeterminazione; non per favore il principio di indeterminazione quantico che non ha nulla a che vedere con l’indefinitezza. Questa indeterminazione, che è l’assenza, è appunto impossibilità di definizione. E da qui prendiamo le mosse per le nostre ipotesi stabilizzanti che guideranno infine la nostra azione, i nostri movimenti nel mondo. Tenendo tuttavia conto del limite della nostra conoscenza e quindi della temporaneità dei nostri – e solo eventuali – successi. Soltanto l’ideologia fissa poi questa pretesa conoscenza e ci porta progressivamente al fallimento, alla delusione, talvolta al vero disastro.

Spero sia risultato un tantino chiaro.

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