A MALINCUORE…..

 

 

1. Già, proprio mi dispiace perdere tempo in un momento in cui magari, da metà mese in poi, sarò costretto a perderne un bel po’ non per mia volontà. Tuttavia, è arrivato il momento di fare il punto della situazione, nel periodo storico in cui siamo entrati; l’avevamo in parte previsto, ma non proprio in questi pessimi termini. Parlerò obbligatoriamente di me e di questo blog, ma non certo guardandomi(lo) come l’ombelico del mondo.

Quando due giovani molto in gamba, pugliesi, lanciarono Ripensaremarx (gennaio 2006), mi consultarono per sapere se avevo voglia di partecipare all’avventura. Di fronte alla sistematica distruzione di Marx perpetrata da frotte di (non) studiosi – o dogmatici (veri religiosi) o in vena di sfarfallare in disquisizioni di varia umanità prive di qualsiasi valenza conoscitiva – accettai l’invito. Fin quando è esistito quel blog, si può anche considerare che il gruppetto di collaboratori fosse molto omogeneo e che il sottoscritto si identificasse pressoché completamente con quelle posizioni.

Da molti anni, però, non era mia intenzione semplicemente ripensare Marx, perché come minimo dal 1996 (in “Lezioni sul capitalismo” e in “La fine di una teoria”, con Preve), avevo posto in luce (con il senno di poi, sia chiaro) gli errori marchiani di previsione compiuti da tale pensatore rivoluzionario, e da noi marxisti seguiti per oltre un secolo. Da lungo tempo era quindi cominciato il mio lavoro di fuoriuscita (da quella porta, come ho detto anche ultimamente) e non una semplice “rifondazione comunista”, alla quale non ho mai partecipato veramente se non per motivi provvisori e di incertezza circa le necessità manifestatesi di fase in fase in questi ultimi quindici anni.

Credo di non esprimere un semplice giudizio personale affermando che – pur giudicando un gravissimo errore quello di attardarsi su comunismo e marxismo, dato il loro fallimento verticale – non ho mai avuto dubbi nell’appoggiare le lotte difensive dei lavoratori quanto a condizioni di vita e di lavoro. Né il blog né io abbiamo mai defletto dal considerare positivo e dunque da difendere il cosiddetto Stato sociale; non perché si alimenta così la domanda e quindi lo sviluppo (per noi è una forzatura), ma semmai per il sostegno accordato a favore dei più disagiati e a reddito basso; e per un miglioramento generale del tenore di vita e di salute. Con opportune qualifiche, tuttavia. Intanto, dello Stato sociale vanno difesi soprattutto i servizi (pensioni, sanità, ecc.), certo decisivi per le migliori condizioni di vita. Molto diverso è difendere accanitamente la pletora di impiegati, a produttività nulla, frutto di una distorsione operatasi all’epoca del “compromesso storico”, della cui valenza politica nessuno parla mai (ma noi si, eccome). E’ ovvio che nessuno di noi chiede il licenziamento in massa, ma comunque una diversa soluzione del problema che non implichi continuazione di questa assurda situazione con costante peggioramento delle prestazioni sociali.

In secondo luogo, sono (e credo di poter dire siamo) contro la sostituzione del termine “lavoratori” a quella che un tempo era la “classe operaia”. Adesso, anche i più ritardatari (e ritardati) ammettono evidentemente quanto sia ridicolo parlare di classe che, nel linguaggio originario marxiano, aveva una valenza precisa (e riguardava il “lavoratore collettivo cooperativo”, cioè il corpo lavorativo salariato complessivo “dall’ingegnere all’ultimo manovale”). La classe operaia, in tal senso, nell’errore di previsione marxiano circa la dinamica sociale oggettiva del capitale, aveva un ben preciso senso di “soggetto” e “base sociale” della rivoluzionaria transizione al socialismo e comunismo; sostituirla con il generico termine di “lavoratori” diventa un mezzo riconoscimento dell’errore, assai peggiore tuttavia dell’errore stesso. I lavoratori non sono soltanto quelli salariati, nemmeno solo quelli delle medie e basse mansioni lavorative. Venuto a cadere il senso per cui il “lavoratore collettivo cooperativo” (o “operaio combinato”) rappresentava il soggetto rivoluzionario – cui spettava la missione di superare storicamente la borghesia (ridotta a finanzieri) sempre più reazionaria e solo difesa dal suo Stato (ed è per abbattere quest’ultimo suo baluardo che si predicava la violenza rivoluzionaria) – è profondamente sbagliato, e foriero di divisioni gravi all’interno della popolazione, sostenere ancora le “lotte del lavoro contro il capitale” come fossero l’avanguardia della trasformazione in positivo della società, fra l’altro predicando la superiorità della “proprietà e funzione” dell’Ente pubblico e aderendo così alle balorde tesi dello Stato quale rappresentante degli interessi generali dell’intera collettività.

A questo punto le giuste lotte per difendere le condizioni di vita e di lavoro dei meno abbienti diventano addirittura fuorvianti e reazionarie, veri puntelli del parassitismo generale, favorendo la costituzione di un falso blocco sociale (solo un coacervo di loschi figuri del settore politico e sindacale in combutta con il capitalismo più arretrato e assistito) per succhiare il sangue a tutti quelli che effettivamente lavorano e producono; sia a livelli direttivi che esecutivi, sia salariati che “autonomi”. Le lotte di questi lavoratori – e non perché si sciopera, ché lo sciopero non ha nulla di illecito – guidate da sindacati, ormai organi di uno Stato in mano al capitale più parassitario, sono lotte da non sostenere. L’obiettivo di difendere le condizioni di vita, lo stato sociale (ma, lo ripeto, nei suoi servizi, non nella caterva di lavoratori che vi sostano senza alcuna utilità per la società), sarebbe giusto in sé; ma sbagliato nelle modalità di esecuzione che rompono il fronte dei veri lavoratori produttivi e portano acqua alla cosiddetta “concertazione” tra sindacati diretti da personale miserabile e la GFeID (grande finanza e industria dei vecchi settori superati e non strategici).

Non esiste salvezza alcuna se non nell’annientamento degli attuali sindacati (compresi quelli piccolissimi del semplice “+ 1”) e del personale politico detto assurdamente di “sinistra”. Quest’ultima era la socialdemocrazia, con tutto il suo “tradimento”, ma rappresentante di un produttivismo sia pure basato su mercato e impresa. Questi sono invece i parassiti, il cancro che attanaglia la nostra società; e che si mettono in combutta con quelli da me identificati da lunga pezza quali “i cotonieri” d’Italia, i “poteri forti”, cioè i farabutti traditori, dall’8 settembre fino ai giorni nostri, pur attraverso svariate svolte in fasi storiche diverse; sempre in ogni caso indefessi nei loro servigi allo straniero.

Per distruggere questi capitalisti felloni, è innanzitutto necessario distruggere i loro servitori, i finti “sinistri” e i sindacati e sindacatini della rottura e antagonismo tra lavoratori. Solo la loro eliminazione ci potrebbe salvare. Poiché ciò non appare oggi possibile, si deve dare per scontato il naufragio dell’Italia. L’unica possibilità è approntare qualche scialuppa per salvare il salvabile. La “destra” attuale è un inganno, uno specchietto per le allodole, serve ad impedire l’annientamento della sinistra con la fola della “democrazia”; il tutto perché si tratta di un’altra forza fellona, di complemento (e “gioco delle parti”) in favore dei predominanti centrali. Ci possono essere differenziazioni tattiche (come esistono anche all’interno degli Usa), ma il fine è unico: lo sfracello italiano e la nostra riduzione a lacché, in una società sfilacciata, impoverita, piena di odi reciproci, incapace di risorgere.

Così ci siamo resi conto, dopo alcuni anni di blog, che Ripensaremarx – pur rispondendo ai nostri intendimenti di fuoriuscita dal marxismo (“da quella porta”), e soprattutto di avversione crescente verso coloro che infangano ancora il nome “comunista” – era un titolo fuorviante, faceva pensare a noi come a “vecchi babbioni” rifondativi del “comunismo”. Bisognava invece indicare: quelli che oggi si pretendono “comunisti” non sono nemmeno come i vecchi socialdemocratici detti “rinnegati” dai comunisti rivoluzionari di un tempo. Questi “comunisti” sono o nostalgici, privi di una qualsiasi idea che non sia la difesa delle condizioni di vita di settori di lavoratori – obiettivo giusto ma attuato in modo da mettere lavoratori contro altri lavoratori – oppure sono farabutti che, pur di vivere ancora di politica sulle ormai infime “quote di mercato” di questi poveri “malinconici”, mentono e pervertono ogni sano realismo. E’ gente disgustosa, con cui nessuna persona onesta dovrebbe avere il benché minimo rapporto. E invece, pure noi abbiamo insistito in modo a mio avviso eccessivo. Dobbiamo smetterla definitivamente e non avere più alcun rapporto con simile gente, ogni contatto con la quale è sputtanante al massimo..

 

2. Se ben ricordo, siamo stati G.P. ed io a proporre il nuovo nome, Conflitti e strategie, che voleva essere in qualche modo asettico. Purtroppo, ha dato ad alcuni l’impressione che noi intendessimo diventare un blog soprattutto geopolitico. Mi dispiace, un errore marchiano, almeno per quanto mi riguarda; ma non solo me. L’ho spiegato, non direttamente certo, in molte pagine di carattere teorico, in libri e anche nel sito che si dedica a parti più consistenti, teoriche e storiche; oggi in dissesto e ingestibilità, dopo le sbagliate mosse (tecniche) seguite alla nostra riunione primaverile a Roma (mi auguro che il tutto venga sanato presto perché la faccenda sta diventando inquietante). In realtà, si trattava innanzitutto di comprendere che – in attesa (non certo breve e non spettante a noi in particolare, giacché non siamo usciti di senno) di riformulare in modo accettabile una teoria critica della società capitalistica, dopo svariati tentatiti ampiamente falliti – ci si deve dedicare in modo prevalente alla cosiddetta “analisi di fase”, oltre che senza dubbio a spezzoni di nuova teoria “generale” e a tentativi di sondarne il realismo nelle ipotesi che da essa discendono.

Si deve anche riconoscere – ma questa è certamente una mia ipotesi – la somiglianza dell’attuale epoca con quella degli ultimi tre decenni del XIX secolo, con la sua lunga crisi di stagnazione (di “galleggiamento”), caratterizzata dal declino del centro dominante del capitalismo di allora, da molteplici conflitti (soprattutto dei second comers tra loro), dalla forte effervescenza legata alle varie tappe della “seconda rivoluzione industriale”. Vi era però allora l’ascesa di quello che fu detto movimento operaio o proletario (“quarto Stato”), entrato relativamente presto in forte mutazione (riformistica e di abbandono di prospettive di radicale trasformazione del capitalismo in socialismo) e oggi irrimediabilmente morto, ma purtroppo non sepolto. Le “battaglie del lavoro” sono lotte di zombi, e come tutte le lotte di questo tipo mantengono le forme superficiali (tipo sciopero e alcune violenze) di quelle ascendenti, pur essendo di semplice “retroguardia”.

Queste ultime non sono affatto inutili se esiste un grosso delle truppe in ritirata e che va riorganizzandosi. Altrimenti esse cambiano segno e sono semplicemente gli ultimi rantoli di un’agonia. Oggi, alcuni – o fuori di testa o, lo ripeto, alla ricerca di aggrapparsi agli ultimi fuochi di un accampamento raso al suolo e disperso per continuare a mantenere i loro posticini politico-sindacali di nullafacenti (con i loro “permessi”, “distacchi” e tutte le altre forme di corrompimento stabilite nella ben nota “concertazione”, l’atto di sottomissione dei “rappresentanti del lavoro” agli “industriali” parassiti, vissuti di sussidi statali) – continuano con le disperate e ripetitive ritualità non certo di una retroguardia, ma semplicemente reazionarie, “vandeane”. Non esiste un “grosso delle truppe”, ma branchi di cani randagi che azzannano senza più discernimento, provocando lo sbrindellamento del tessuto sociale, nel mentre i loro apparenti avversari, i capitalisti, proprio quelli anch’essi arretrati e abituati a vivere come mignatte sul corpo produttivo, hanno modo di mantenere i lucrosi legami di servilismo con i luoghi del capitalismo predominante.

Data la situazione, soltanto delineata (ma nel blog l’abbiamo più volte tratteggiata con maggior dovizia di particolari), ci si è necessariamente dedicati all’analisi della configurazione dei rapporti di forza internazionali in questa fase storica che sempre più assomiglia a quella definita multipolare e di cui abbiamo più volte chiarito – malgrado la denominazione forse non chiara e appropriata – la distanza (anche temporale) considerevole rispetto al policentrismo (“imperialismo”), in cui il conflitto tra potenze (abbastanza equilibrate nella loro forza) si scatena con inaudita energia per conquistare la supremazia mondiale. Questa è stata la nostra impostazione “geopolitica”, qualcosa di obbligato dalla situazione esistente al momento, senza però che scordassimo la strutturazione complessa delle società capitalistiche (di quest’epoca del tutto diversa da quella del capitalismo borghese ottocentesco), l’esistenza di strati sociali per i quali siamo ancora costretti ad usare le imprecise e vaghe dizioni di dominanti e dominati (meglio forse dire decisori e non decisori).

In una situazione simile abbiamo scelto di non più scaldarci eccessivamente per le “lotte del lavoro” (sottinteso: salariato e di medio-basso livello); riteniamo giusto, lo ripeto per l’ennesima volta, che ci si difenda dall’attacco alle proprie condizioni di vita e di lavoro. Riteniamo giusto che si difendano certe conquiste in tema di previdenza e sanità (soprattutto però i servizi, la loro qualità ed efficienza, assai compromesse spesso da forze politico-sindacali i cui capi e capetti sono interessati ai loro emolumenti e miserabili poteri, che andrebbero finalmente conculcati e dispersi senza pietà). Ribadito questo, sappiamo però che non si tratta del punto di svolta e d’inizio di una “nuova storia”. E’ necessario ripartire dalla difesa di interessi che possono essere definiti come nazionali; comunque interessi non riconosciuti in Italia (né in Europa) nella battaglia per la supremazia mondiale, che si sta svolgendo sotto la preminenza attuale degli Stati Uniti con la loro vocazione a reprimere la libertà di tutti e a tenersi le “mani libere” per perpetrare massacri quando e dove vogliano, seguendo strategie e tattiche differenziate (espressione di loro gruppi dominanti in contrasto), utilizzando questo o quel sicario. Pure tra i sicari, quindi, si vanno producendo differenziazioni e situazioni di predominio/subordinazione (vedi posizione disastrosa fatta assumere oggi all’Italia da classi dirigenti fellone e incapaci, vere eredi del tradimento Savoia-Badoglio).

In assenza di autentici movimenti “popolari”, in presenza invece di una fantomatica “lotta di classe” (esistente solo nella testa di piccoli gruppi di imbroglioni e “minorati”), occorre prevalentemente dedicarsi alla massima unione possibile (che è già tanto problematica) di forze con orientamenti e origini assai diverse, tuttavia non disposte ad essere succubi di questi nuovi massacratori di massa che sono – e fin dalla seconda guerra mondiale, per la verità – gli statunitensi. Non abbandoniamo affatto – almeno io non l’abbandono per nulla – il tentativo di rielaborazione di spezzoni di una nuova teoria della società e delle sue stratificazioni. E’ però nel contempo indispensabile trovarsi, superare idiosincrasie, ecc. per dare vita ad un “coagulo” politico che si batta per prerogative nazionali. Sapendo che i nemici, i servi degli Usa, sono tanti, alcuni ben mascherati da anticapitalisti, per catturare l’attenzione di quelle scorie sociali e umane, che la crisi strisciante e molto lunga creerà. Da qui, i dominanti trarranno le loro bande assassine per impedire che sorgano gruppi nazionali, i quali devono anche potersi collegare fra loro almeno nei principali paesi dell’area in cui noi siamo collocati.

In un contesto del genere, anche il nostro blog diverrà un insieme di più tendenze, solo convergenti per quanto riguarda il problema di questa difesa essenziale nell’attuale periodo storico. Certamente però, si deve tenere conto delle diverse origini e del background culturale, politico, ecc. in cui ognuno di noi è vissuto. Personalmente, è ovvio che non rinuncerò alle prerogative che furono dei miei tempi, cercando pure l’individuazione della struttura dei rapporti con riguardo al corpo sociale di paesi come l’Italia, della nostra area insomma. Quindi, la differenziazione tra noi sarà maggiore che in Ripensaremarx. In futuro, potrebbero perfino verificarsi lacerazioni e separazioni. Si tenga presente che entriamo in una situazione più movimentata che in passato. Per evitare il più possibile che si producano diatribe su questioni minori e svianti, è indispensabile lasciar perdere i “cascami” del comunismo, coloro che ancora ragionano come esistessero paesi “socialisti” al mondo.

Ci sono limiti di insuperabilità nel giudicare le divergenze che tra noi possono essere ammesse per la loro produttività in termini di unione nella difesa degli interessi del nostro paese. Quest’ultimo è però, incontestabilmente, una società del “capitalismo occidentale”, con una sua cultura, una sua tradizione, certe strutture di rapporti sociali che non sono minimamente simili ad altre, situate a lontananza siderale. Non fingiamo vicinanze, non riproponiamo scelte assurde tra “capitalismo” e “socialismo” (che è un’altra forma, mistificata, di capitalismo) o addirittura “comunismo”. E non sostituiamo la Natura alla Classe o alla Nazione come nemica del capitalismo.

Finisco con una notazione personale. A differenza che in Ripensaremarx, io mi trovo in una posizione di autentico collaboratore; non esterno, ci mancherebbe, ma solo collaboratore. E collaborerò fino a quando a nessuno verrà in testa di accogliere all’interno di C&S posizioni per combattere le quali ho accettato la proposta dei due fondatori del blog iniziale. Mi auguro che noi tutti abbiamo ben capito in questi ormai quasi sei anni di esistenza d’esso quali erano i suoi assunti originari, quale l’apertura del ventaglio via via prodottasi al fine di accogliere posizioni rilevanti per almeno perseguire il comune compito nazionale in un paese del “capitalismo occidentale”. E’ ora che si metta però la parola fine ad una qualsiasi benevolenza verso i cascami del “comunismo” e del “marxismo”, dell’antimperialismo terzomondista, del comunitarismo, del catastrofismo ecologista, ecc. Non posso fare l’elenco completo delle inaccettabilità, ma ormai ci si dovrebbe intendere. Quindi, stiamo attenti ai commenti, non devono più essere indice di una nostra malintesa tolleranza. Gli imbecilli e i farabutti, i cultori di “chincaglierie” d’antan, vadano, per favore, gettati fuori dai coglioni.