Afferrare l’essenziale

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(12 giugno 08)
Francamente, mi sembra che il blog sia uno strumento “maledetto” che abitua la gente ad uno stile di discussione “da bar”; nel migliore dei casi, ad un buon stile giornalistico dedito al quotidiano e allo spicciolo. Ritengo invece doveroso fare uno sforzo di riflessione di più ampio respiro, pur se la necessaria brevità degli interventi può spesso rendere il discorso un po’ ellittico, con qualche salto logico.
Venendo al dunque, credo non sia stata colta da molti l’importanza (me la attribuisco da solo, e pazienza se qualcuno mi ritiene presuntuoso) del mio recentissimo intervento su “Competizione tra imprese, ecc.”. L’economicismo, caratteristica principale sia della teoria liberista che del marxismo scolastico, diffonde l’illusoria convinzione che, in definitiva, l’economia comandi la politica; quindi, riducendola ancor di più al personale, che Bazoli e Montezemolo (e oggi la Marcegaglia) siano i veri “capi” rispetto a Prodi (e oggi Berlusconi). Tale elementare concezione induce, non sempre ma spesso, in errori gravi e in discorsi un po’ superficiali. In termini di polemica “pamphlettistica”, ho anch’io usato una terminologia del tipo dei “politici quali servi dei finanzieri e industriali” (la GFeID); talvolta è però bene andare un po’ più in profondità e non indulgere in semplificazioni che – purtroppo me ne sto accorgendo sempre più – hanno indotto molti lettori a fraintendere il reale significato delle mie affermazioni, e a non riuscire più a seguire riflessioni meglio meditate e articolate come quelle che sto conducendo da alcuni mesi. Indubbiamente, il mio nuovo atteggiamento è stato favorito dalla sconfitta e sbandamento della sinistra (in specie la più “sinistra”, in tutti i significati di questa parola), che hanno un po’ placato i miei “bollenti spiriti”, prima sottoposti a continua provocazione da parte di quelli che restano pur sempre i più “scemetti” di tutti. Non cambio, sia chiaro, idea sul fatto ripetutamente rilevato che “quanto più a sinistra vai, tanti più deficienti (o farabutti) trovi”; si tratta però di questioni non strutturali, eminentemente comportamentali e psicologiche invece: quanto più un individuo ha un’area cerebrale ristretta e sinapsi “allentate”, tanto più “sbanda a sinistra”.
Andando allo strutturale, e quindi al più serio, ho voluto scendere più a fondo nell’analisi, non limitandomi a rovesciare l’economicismo tipico sia del liberismo che del marxismo scolastico; non ho semplicisticamente sostenuto che “la politica comanda l’economia”, affermazione comunque meno scorretta in mancanza di meglio. Ho suggerito di mutare il paradigma di riferimento del marxismo (scolastico) centrato sull’efficienza economica – massimo profitto in quanto introduzione di innovazioni (nella tecnologia e nell’organizzazione dei processi di lavoro) relative ai metodi del plusvalore relativo – adottando quello inerente all’efficacia delle strategie (politiche in qualsiasi sfera sociale siano svolte) utilizzate nello scontro tra gruppi dominanti per la supremazia; tale cambiamento comporta, in tutta evidenza, l’esistenza di differenze solo di grado e non di natura tra istituzioni e apparati economici (nella forma d’impresa e di mercato) e istituzioni e apparati politico-culturali (tra cui quelli rilevanti dello Stato).
Ciò che fondamentalmente cambia, nelle diverse sfere, è l’ampiezza della visuale, degli orizzonti, di impiego delle varie strategie. Gli agenti imprenditoriali debbono concentrarsi assai di più sulle attività mercantili (di investimento e di compravendita di prodotti e fattori produttivi), tenendo comunque conto degli interessi dell’impresa o complessi di imprese da essi diretti, pur se il principale riferimento non è soltanto il profitto (plusvalore “estorto” ai salariati) bensì, soprattutto, l’ampliarsi dell’area di influenza di quella impresa o gruppo di imprese: influenza nella specifica sfera di competenza (economica) come anche nel collegamento (alleanza o subordinazione, corruzione, ecc.) con gli agenti politici e culturali, che hanno orizzonti decisamente più vasti. Malgrado le chiacchiere fasulle sulla fine delle funzioni dello Stato nazionale, gli apparati di quest’ultimo sono per l’essenziale ancora centrati sugli interessi dei vari paesi (formazioni particolari di quella globale o mondiale).
Precisiamo: gli agenti culturali si consentono con maggior larghezza un’apertura effettivamente transnazionale, in genere relativa ad ampie regioni socio-geografiche sufficientemente omogenee
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come storia, formazione etnica, religiosa, ecc. Quelli politico-statali, al cui interno occupano ruoli specifici i “distaccamenti speciali di uomini in armi”, sviluppano una potenza applicativa prevalentemente orientata da interessi nazionali (pur se spesso non perseguiti in piena autonomia), ma di forza assai maggiore; è però precisamente in questa sfera della società che si manifestano crescenti differenze della potenza in oggetto – dipendenti dallo sviluppo ineguale delle formazioni particolari – con il loro condensarsi in rapporti di predominio/dipendenza tra queste ultime, rapporti che assumono configurazioni diverse nelle varie epoche storiche mono o policentriche (e nelle fasi di trapasso tra le une e le altre).
Posto in questi termini – assai meno semplicistici di quelli dell’economicismo liberista o scolastico-marxista – il problema del rapporto tra economia e politica, risulta evidente la necessità (teorica; ma sapendo che la teoria, per quanto più o meno elaborata, è parte della pratica) di tenere distinti, ma non fra loro scollegati, funzioni e ambiti di intervento degli apparati prevalentemente (mai esclusivamente, perché ogni tipo di apparato svolge con intensità e rilevanza diverse le differenti funzioni) economici o politici o culturali. Prolungare semplicemente la potenza degli apparati economici (visti magari quali semplici prelevatori o “esattori” del massimo plusvalore possibile) in direzione di quelli politico-culturali – riducendo così gli agenti “politico-ideologici di Stato” a semplice longa manus di quelli economico-imprenditoriali – o invece semplicemente invertire il loro rapporto (pur sempre da “padrone” a “servo”), fa parte dello schematismo di molte ideologie che vanno per la maggiore. Uno schematismo, lo ripeto, di possibile uso (e avvertendo il lettore) nello stile polemico-pamphlettistico; ma non affatto in una vera analisi teorica, pena lo slittamento di quest’ultima verso conclusioni di grande banalità e che conducono a marchiani errori di prassi politica.
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Fissati in modo meno semplicistico e schematico i vari “paletti teorici”, si comprende bene – andando ad un esempio concreto – che l’acquisizione dell’americana Drs da parte della Finmeccanica non stabilisce e chiarisce, di per sé, se con questa operazione – fra l’altro affetta da molti chiaroscuri anche economici, dipendenti dalla necessità di procurarsi i mezzi finanziari tramite indebitamenti vari, ecc. – la nostra azienda è diventata sostanziale “appendice” del sistema economico-finanziario statunitense o se ha posto al contrario migliori basi per un futuro, al momento solo potenziale, contributo ad una possibile (ma in altra sede e con altri mezzi) maggiore autonomia del nostro sistema-paese (la formazione particolare Italia).
Il marxista scolastico è invece giunto all’affrettata conclusione che la nostra azienda sia stata nei fatti incorporata dal sistema degli Stati Uniti; il liberista, altrettanto scolastico, afferma che si tratta di un’operazione di integrazione tra due aziende in vista di una migliore competitività nell’ambito della sedicente globalizzazione (sputtanata ormai anche da un Tremonti, assai più “furbo” dei “cervelli corti” precedentemente citati). No, la questione non è così subitaneamente decidibile senza valutare meglio (e nel tempo) tutte le altre coordinate del possibile futuro (che appare comunque assai grigio) di una Unione Europea ormai scombiccherata e, al suo interno, di questo nostro “pauvre pays”. Nello stesso senso, ho rilevato l’impossibilità di affermare, in mancanza di una valutazione più complessiva e distesa nel tempo, che la politica dell’Eni è di maggiore autonomia e tendenzialmente filo-russa, quasi anti-americana. A conferma, c’è oggi la notizia delle dichiarazioni di Scaroni in merito ad importanti imminenti acquisizioni in direzione dell’Inghilterra (particolarmente filo-statunitense) per sfruttare il gas del Mare del Nord, che servirà fra l’altro ad alimentare la Distrigaz, società belga (del gruppo Suez) acquistata recentemente dall’Eni battendo l’Edf, colosso francese dell’elettricità.
Nel contempo, Alexej Miller, presidente della Gazprom (che ha stipulato l’importante accordo con la nostra azienda per la costruzione del gasdotto Southstream), ha annunciato che la società russa diverrà a breve il primo gruppo produttore di gas nel mondo, con forte crescita anche nel settore
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del petrolio e dell’elettricità. D’altra parte, al contrario di quanto affermato da filo-ambientalisti mentitori per colossali interessi economici in ballo, non c’è alcuna ritirata della Francia né di altri paesi – a partire dalla solita Russia, dove sono piuttosto avanzati nella progettazione e costruzione di reattori di quarta generazione – nell’utilizzazione dell’energia nucleare. Come ben si vede, nei settori prevalentemente economici, che certamente sono assai ben collegati a quelli delle altre sfere sociali, si è in presenza di tumultuosi cambiamenti e di attività frenetica, malgrado la situazione mondiale in campo finanziario (ma anche in quello produttivo) sia tuttora critica. Tutta questa effervescenza può senz’altro far presagire una transizione d’epoca in direzione del policentrismo, ma non consente di dedurne tassativamente tempi e modalità.
Sembra comunque necessario, in un periodo futuro, l’intervento ben più energico degli apparati e degli agenti strategici della sfera prevalentemente politico-statale. E non andrebbe sottovalutata nemmeno la battaglia culturale, che dovrà però uscire dal semplicismo di molte delle teorie-ideologie propagandate oggi. Il marxismo ha ancora voglia di fare la “sua parte”? L’importante è che non si nutra la banale pretesa di andare “oltre Marx”; è invece indispensabile uscire dal marxismo (cioè da quell’ideologia scolastica e semplificata elaborata a partire da Kautsky, e ulteriormente degradata nel secondo dopoguerra con l’unica eccezione dell’althusserismo) nel pieno rispetto di alcuni cardini “metodologici” dell’autentico pensiero marxiano; dove, con l’improprio termine virgolettato, intendo riferirmi in realtà alla forza critica del fondatore tesa al disvelamento del mascheramento ideologico annidato nella “scienza” dei dominanti capitalistici.
Per il momento, mi limito ad indicare in breve l’importanza di rielaborare più compiutamente una teoria sociale, partendo certo da Marx – e non per un omaggio formale all’autore che ha influenzato il mio pensiero, ma proprio per la convinzione che la sua opera sia il migliore punto d’avvio possibile – ma uscendo dal marxismo, ideologia creata successivamente, dopo la sua morte. Sia chiaro che non mi sogno di sostenere che tale marxismo è stato un tradimento del pensiero originario, poiché ne ha rispettato alcuni canoni fondamentali: la teoria del valore-lavoro e del plusvalore, il rapporto antagonistico tra il capitale – considerato nella sua mera figura proprietaria, sia pure dei mezzi produttivi – e il lavoro salariato. Su quest’ultimo punto, come chiarito più volte, il marxismo ha invece veramente cambiato il concetto marxiano di classe operaia, pensando ad un “soggetto” della rivoluzione (le tute blu) che in realtà non poteva guidare, proprio per le sue intrinseche caratteristiche sociali e culturali, alcun processo di trasformazione; da tale decisivo mutamento concettuale è derivata, fra l’altro, la divisione tra chi inneggiava, diciamo ingenuamente (eufemismo), alla prevalente spontaneità delle “masse proletarie” (tipo la Luxemburg o i consiliaristi) e chi più realisticamente (Lenin, Gramsci, ecc.) indicava la via del partito in quanto “avanguardia organizzata”, un escamotage, tuttavia, effettuato per supplire alla reale mancanza del suddetto soggetto rivoluzionario e foriero di tutta una serie di fraintendimenti, su cui non torno in questa occasione.
Uscire dal marxismo significa quindi liberarsi di simili fraintendimenti, della serie di escamotages tentati con successi parziali, temporanei e il cui tempo è ormai abbondantemente scaduto; non significa affatto invece voler smorzare la carica critica e di smascheramento ideologico dei dominanti. Le cui attività interconflittuali non hanno però dato origine ad un modo di produzione capitalistico eguale o simile in tutto il mondo; tesi che, ancora una volta, non è sostenuta dal solo marxismo scolastico, ma in fondo anche dal liberismo con le sue tesi intorno alla globalizzazione. Infatti, i più furbastri, tra gli ideologi del capitale (“occidentale”), hanno tentato di svirilizzare completamente il pensiero di Marx, fingendo ammirazione per la sua “profezia” sulla generalizzazione delle forme mercantili (che è geniale solo in quanto mette in luce l’esistenza di una eguaglianza puramente formale, sotto la quale esiste lo sfruttamento), o per l’oggettiva previsione “scientifica” (però offuscata dalla sua “utopia comunista”) circa l’ineliminabilità del capitalismo fino a quando non abbia dispiegato per intero tutte le sue potenzialità di sviluppo delle forze produttive.
Alla larga da simili ammiratori di Marx; per “non far nomi”, alla larga dai vari Attali e Carandini. Fuoriusciamo dal marxismo proprio per liberarci progressivamente di tutte le pastoie che ormai ci attardano nella ripresa – intanto al livello della battaglia culturale che è anche politica – di una
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nuova teoria critica della presente società; nuova teoria che, tuttavia, non può che prendere le mosse da Marx; con il “condimento” di Lenin, senza il cui pensiero e attività rivoluzionaria ci limiteremmo a “pestar acqua in un mortaio”.
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