Ancora su Popper

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Ad integrazione del precedente intervento su Popper (che trovate a questo link http://www.conflittiestrategie.it/in-difesa-di-karl-popper) riportiamo altri passaggi interessanti che evidenziano la caratura intellettuale di questo autore, il quale viene oggi tirato per la giacchetta dai sostenitori di quella malsana ideologia della “società aperta” di cui si servono i prepotenti per legittimare l’esportazione della democrazia. Probabilmente, Popper non merita nemmeno gli strattoni riservatigli da quei critici a chiacchiere del neoliberismo che lo degradano a mero intellettuale di servizio dei poteri finanziari. La società aperta di Popper non è la open society di Soros. Popper non avrebbe mai condiviso l’idea delle rivoluzioni colorate e violente realizzate finanziando la feccia sociale di cui in genere si servono gli americani per generare caos e guerre civili nei Paesi che non condividono i loro valori. Possiamo disapprovare o meno l’idea di democrazia di Popper ma non possiamo negare la sua onestà allorché egli spiega che questa è per lui la sola via per controllare il potere economico e proteggersi dallo sfruttamento economico. Costui è ispirato da un sincero convincimento: “Per democrazia non intendo affatto qualcosa di vago come “il governo del popolo” o “il governo della maggioranza”, ma un insieme di istituzioni (e fra esse specialmente le elezioni generali, cioè il diritto del popolo di licenziare il governo) che permettano il controllo pubblico dei governanti e il loro licenziamento da parte dei governati e che consentano ai governati di ottenere riforme senza ricorrere alla violenza e anche contro la volontà dei governanti. In altre parole, l’uso della violenza è giustificato solo sotto una tirannide che renda impossibile le riforme senza violenza e dovrebbe avere soltanto un obiettivo: quello di realizzare uno stato di cose che renda possibile le riforme senza violenza”.

Popper non aveva previsto che la democrazia potesse anche trasformarsi in qualcosa di molto meno nobile di quel che pensava, un prodotto da vendere agli elettori per meglio raggirarli o una bomba da scagliare su Stati non allineati a quello egemonico. E’ stato un utopista del sistema democratico, in pratica gli si è ritorta contro la medesima accusa che lui lanciava a Marx sul socialismo. Tuttavia, Popper non era affatto un fanatico neoliberista, come lo liquida qualcuno. Ritiene l’interventismo statale un rischio ma senza questa “interferenza sistematica nel ciclo economico” dello Stato le ingiustizie, soprattutto a danno dei ceti più deboli, si aggraverebbero. Il capitalismo sfrenato era un pericolo non dissimile dall’ingerenza statale nella vita collettiva, lo scrive a chiare lettere.

Detto ciò, questo pensatore ha tanto da insegnarci e i brani che seguono lo dimostrano. La sua interpretazione di Marx e dei fenomeni sociali non è banale, benché non sia scevra di fraintendimenti. Sicuramente è stimolante, molto più stimolante delle inaudibili sciocchezze che si sentono oggi, da parte di globalisti e antiglobalisti.

Rapporti sociali

“abbiamo buone ragioni di credere che l’uomo, o meglio il suo antenato, fu sociale prima di essere umano (se si considera, per esempio, che il linguaggio presuppone la società). Ma ciò implica che le istituzioni sociali e con esse le tipiche regolarità sociali o leggi sociologiche, devono essere esistite prima di quella che alcuni amano chiamare la “natura umana” e prima della psicologia umana. Se una riduzione si dovesse in ogni caso tentare, sarebbe quindi più promettente tentare una riduzione o interpretazione della psicologia in termini di sociologia invece del contrario.
Bisogna riconoscere che la struttura del nostro ambiente sociale è, in un certo senso, fatta dall’uomo; che le sue istituzioni e tradizioni non sono il lavoro né di Dio né della natura, ma i risultati di azioni e decisioni umane, ed alterabili da azioni e decisioni umane. Ma ciò non significa che esse siano tutte coscientemente progettate e spiegabili in termini di bisogni, speranze e moventi. Al contrario, anche quelle che sorgono come risultato di azioni umane coscienti e intenzionali sono, di regola, i sottoprodotti indiretti, inintenzionali e spesso non voluti di tali azioni. «Soltanto un piccolo numero di istituzioni sociali sono coscientemente progettate, mentre la stragrande maggioranza di esse è semplicemente “cresciuta”, come risultato imprevisto di azioni umane», come ho precedentemente affermato; e possiamo aggiungere che anche la maggior parte delle poche istituzioni che sono state progettate coscientemente ed hanno avuto successo (per esempio un’Università di nuova fondazione o un sindacato) non risultano pienamente conformi al progetto: anche in questo caso a causa delle inintenzionali ripercussioni sociali risultanti dalla loro creazione intenzionale”.

Complottismo

la teoria cospiratoria della società. Essa consiste nella convinzione che la spiegazione di un fenomeno sociale consista nella scoperta degli uomini o dei gruppi che sono interessati al verificarsi di tale fenomeno (talvolta si tratta di un interesse nascosto che dev’essere prima rivelato) e che hanno progettato e congiurato per promuoverlo.
Questa concezione dei fini delle scienze sociali deriva, naturalmente, dall’erronea teoria che, qualunque cosa avvenga nella società – specialmente avvenimenti come la guerra, la disoccupazione, la povertà, le carestie, che la gente di solito detesta – è il risultato di diretti interventi di alcuni individui e gruppi potenti. Questa teoria ha molti sostenitori ed è anche più antica dello storicismo (che, come risulta dalla sua forma teistica primitiva, è un derivato della teoria della cospirazione). Nelle sue forme moderne essa è, come lo storicismo moderno e come un certo atteggiamento moderno nei confronti delle “leggi naturali”, il tipico risultato della secolarizzazione di una superstizione religiosa. La credenza negli dei omerici le cui cospirazioni spiegano la storia della guerra di Troia è morta. Gli dei sono stati abbandonati. Ma il loro posto è occupato da uomini o gruppi potenti – sinistri gruppi di pressione la cui perversità è responsabile di tutti i mali di cui soffriamo – come i famosi saggi di Sion, o i monopolisti, o i capitalisti, o gli imperialisti.
Io non intendo affermare, con questo, che cospirazioni non avvengano mai. Al contrario, esse sono tipici fenomeni sociali. Esse diventano importanti, per esempio, tutte le volte che pervengono al potere persone che credono nella teoria della cospirazione. E persone che credono sinceramente di sapere come si realizza il cielo in terra sono facili quant’altre mai ad adottare la teoria della cospirazione e a impegnarsi in una contro-cospirazione contro inesistenti cospiratori. Infatti la sola spiegazione del fallimento del loro tentativo di realizzare il cielo in terra è l’intenzione malvagia del demonio che ha tutto l’interesse di mantenere vivo l’inferno. Cospirazioni avvengono, bisogna ammetterlo. Ma il fatto notevole che, nonostante la loro presenza, smentisce la teoria della cospirazione, è che poche di queste cospirazioni alla fin fine hanno successo. I cospiratori raramente riescono ad attuare la loro cospirazione.
Perché accade questo? Perché le realizzazioni differiscono così profondamente dalle aspirazioni? Perché ciò è quanto nor¬malmente avviene nella vita sociale, ci siano o non ci siano cospirazioni. La vita sociale non è solo una prova di forza fra gruppi in competizione, ma è anche azione entro una più o meno elastica o fragile struttura di istituzioni e tradizioni, azione che provoca – a parte qualsiasi contro-azione consapevole – molte reazioni impreviste, e alcune di esse forse anche imprevedibili, in seno a questa struttura.
Cercare di analizzare queste reazioni e di prevederle per quanto possibile è, a mio giudizio, il compito essenziale delle scienze sociali. È il compito di analizzare le inintenzionali ripercussioni sociali delle azioni umane intenzionali, quelle ripercussioni la cui importanza è trascurata sia dalla teoria della cospirazione che dallo psicologismo, come abbiamo già indicato.

Lotta di classe

La mia critica della teoria delle classi di Marx, nella misura in cui quest’ultima è legata alla sua accentuazione storicistica, segue le linee già note fin dall’ultimo capitolo. La formula «tutta la storia è storia della lotta di classe» è molto apprezzabile come invito a spingerci a tenere conto dell’importante ruolo ricoperto dalla lotta di classe nella politica di potere e in altri sviluppi; questo invito è tanto più apprezzabile in quanto la brillante analisi di Platone della parte svolta dalla lotta di classe nella storia delle città-stato greche fu solo raramente ripresa nei periodi successivi. Ma, anche in questo caso, non dobbiamo naturalmente prendere troppo sul serio, nella formula marxiana, la parola “tutta”. Neppure la storia delle questioni di classe è sempre una storia della lotta di classe nel senso marxiano, se si tiene presente la parte importante svolta dai dissensi in seno alle classi stesse. In realtà, la divergenza di interessi in seno sia alle classi governanti che alle classi governate è tanto forte che la teoria delle classi di Marx deve essere considerata come un’eccessiva e pericolosa semplificazione, anche se siamo disposti ad ammettere che il contrasto fra ricchi e poveri è sempre di fondamentale importanza. Uno dei grandi temi della storia medioevale, la lotta fra Papi e Imperatori, è un esempio di dissenso in seno alla classe dirigente. Sarebbe evidentemente falso interpretare questa contesa come una contesa fra sfruttatore e sfruttato. (Naturalmente, si può allargare il concetto marxiano di “classe” fino a coprire questo ed altri casi analoghi, e restringere il concetto di “storia”, finché alla fine la dottrina di Marx diventa banalmente vera: una mera tautologia; ma ciò la priverebbe di ogni rilevanza).
Uno dei pericoli della formula di Marx è che, se presa troppo sul serio, essa rischia di sviare i marxisti inducendoli a interpretare tutti i conflitti politici come lotte fra sfruttatori e sfruttati (o anche come tentativi di mascherare la “questione vera”, il soggiacente conflitto di classe). Di conseguenza, ci furono marxisti, specialmente in Germania, che interpretarono una guerra come la prima Guerra Mondiale come uno scontro fra le potenze centrali rivoluzionarie o “povere” e un’alleanza di falsi conservatori o “ricchi”: tipo d’interpretazione, questo, che potrebbe essere usato a giustificare qualsiasi aggressione. Questo è solo un esempio del pericolo inerente alla vasta generalizzazione storicistica di Marx.
D’altra parte, il suo tentativo di usare quella che si può chiamare la “logica della situazione di classe” per spiegare il funzionamento delle istituzioni del sistema industriale, mi sembra ammirevole, nonostante certe esagerazioni e la dimenticanza di alcuni importanti aspetti della situazione; ammirevole, almeno, come analisi sociologica di quello stadio del sistema industriale, che Marx aveva soprattutto in mente: il sistema di “capitalismo sfrenato” (come lo chiamerò) di un centinaio di anni fa.

Marx

“Queste erano le condizioni della classe lavoratrice nel 1863, quando Marx scriveva Il Capitale; la sua bruciante protesta contro questi crimini, che erano allora tollerati e talvolta anche difesi, non solo da economisti di professione, ma anche da uomini di chiesa, gli assicurerà per sempre un posto fra i liberatori del genere umano”.

…Libertà, uguaglianza di fronte alla legge, giustizia si presume che siano tutte garantite a ognuno. Non ci sono classi privilegiate di fronte alla legge. Oltre a ciò, egli presuppone che un “giusto prezzo” sia pagato per tutte le merci, compresa la forza lavoro che il lavora¬tore vende al capitalista sul mercato del lavoro. Il prezzo di tutte queste merci è “giusto” nel senso che tutte le merci sono comprate e vendute in proporzione alla quantità media di lavoro necessario per la loro riproduzione (o, usando la terminologia di Marx, sono comprate e vendute secondo il loro vero “valore”). Naturalmente, Marx sa che tutto ciò è un’estrema semplificazione, perché è sua convinzione che i lavoratori non siano mai trattati così giustamente; in altre parole, che essi sono di solito truffati. Ma, argomentando sulla base di queste premesse idealizzate, egli cerca di dimostrare che, anche sotto un sistema legale così perfetto, il sistema economico funziona in modo tale che i lavoratori non sono in grado di godere della loro libertà. Nonostante tutta questa “giustizia”, essi non se la passano molto meglio degli schiavi. Infatti, se sono poveri, essi possono soltanto vendere se stessi, le loro mogli e i loro figli sul mercato del lavoro, per ottenere quanto è strettamente necessario alla riproduzione della loro forza lavoro. Vale a dire che, per l’intera loro forza lavoro, essi non otterranno nulla più dei mezzi minimi di esistenza. Ciò dimostra che lo sfruttamento non è un puro e semplice furto. Esso non può essere eliminato con mezzi puramente legali. (E la critica di Proudhon che la «proprietà è un furto» è troppo superficiale).

Queste considerazioni dovrebbero essere sufficienti a confutare la dottrina dogmatica che il potere economico è più fondamentale del potere fisico e del potere dello Stato. Ma ci sono anche altre considerazioni. Come è stato giustamente sottolineato da vari scrittori (fra i quali Bertrand Russell e Walter Lippmann) solo l’attivo intervento dello Stato – la protezione della proprietà ad opera di leggi sostenute da sanzioni fisiche – fa della ricchezza una fonte potenziale di potere; infatti, senza questo intervento un uomo si troverebbe ben presto senza la sua ricchezza. Il potere economico è quindi interamente dipendente dal potere politico e fisico. Russell fornisce esempi storici che illustrano questa dipendenza, e talvolta anche impotenza, della ricchezza: «Il potere economico all’interno dello Stato, – egli scrive – benché in ultima analisi derivi dalla legge e dall’opinione pubblica, acquista facilmente una certa indi¬ pendenza. Esso può influire con la corruzione sulla legge, e con la propaganda sull’opinione pubblica. Esso può costringere gli uomini politici ad obblighi che interferiscono colla loro libertà. Esso può minacciare crisi finanziarie. Ma ci sono, comunque, limiti ben precisi alle sue possibilità. Cesare fu aiutato a conqui¬stare il potere dai suoi creditori i quali non vedevano speranza di ricuperare i loro prestiti se non procurandogli il successo; ma quando egli raggiunse il successo, la sua potenza gli permise di disilluderli. Carlo V prese in prestito dai Fugger il denaro necessario per comprare il titolo imperiale, ma quando fu imperatore rise loro in faccia e quelli perdettero ciò che avevano prestato».
Il dogma che il potere economico è alla radice di tutti i mali deve essere abbandonato. Il suo posto deve essere preso da una consapevolezza dei pericoli di qualsiasi forma di potere incontrollato. II denaro in quanto tale non è particolarmente pericoloso. Esso diventa pericoloso solo se può acquistare il potere o diretta¬mente o soggiogando gli economicamente deboli che devono vendere se stessi al fine di vivere.

Dal fatto che di due classi ne resta una sola, non consegue che ci sarà una società senza classi. Le classi non sono come individui, anche se ammettiamo che esse si comportano quasi come individui finché esistono due classi che si scontrano in battaglia. L’unità e solidarietà di una classe, secondo l’analisi dello stesso Marx, è parte della sua coscienza di classe che a sua volta è in
larghissima misura un prodotto della lotta di classe. Non c’è ragione al mondo per cui gli individui che formano il proletariato debbano mantenere la loro unità di classe una volta che sia cessata la pressione della lotta contro il nemico comune di classe. Qualsiasi latente conflitto di interessi è ora verosimilmente destinato a dividere il proletariato, una volta unito, in nuove classi e a dar luogo a una nuova lotta di classi. (I principi della dialettica stanno ad indicare che deve ben presto profilarsi una nuova antitesi, un nuovo antagonismo di classe. Tuttavia, naturalmente, la dialettica è abbastanza vaga e malleabile da spiegare qualsiasi cosa, e quindi anche un società senza classi, come sintesi dialetticamente necessaria di uno sviluppo antitetico).
Lo sviluppo più verosimile è, naturalmente, che coloro che si troveranno effettivamente al potere al momento della vittoria, quelli tra i leaders rivoluzionari che saranno sopravvissuti alla lotta per il potere e alle varie purghe – insieme con il loro staff – formeranno una Nuova Classe: la nuova classe dirigente della nuova società, una specie di nuova aristocrazia o burocrazia, ed è molto probabile che essi cercheranno di mascherare questo fatto. Essi potranno farlo, nella maniera più conveniente, mantenendo quanto più possibile dell’ideologia rivoluzionaria, traendo vantaggio da questi sentimenti invece di sprecare il loro tempo in sforzi inutili per distruggerli (secondo l’avvertimento del Pareto a tutti i governanti). E sembra abbastanza verosimile che essi saranno in grado di utilizzare nella più larga misura possibile l’ideologia rivoluzionaria, se sfruttano, nello stesso tempo, la paura di sviluppi contro-rivoluzionari. In questo modo, l’ideologia rivoluzionaria servirà loro per fini apologetici: servirà loro sia come giustificazione dell’uso che essi fanno del potere, sia come mezzo di stabilizzarlo, insomma come nuovo “oppio per il popolo”. Pressappoco di questo genere sono gli eventi che, in base alle stesse premesse di Marx, sono verosimilmente destinati a verificarsi.