APPENDICE A “ CONTRO LE QUATTRO IDEOLOGIE”

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Nel corso della seconda metà del ‘900 è invalso l’uso, presso certi pensatori di derivazione marxista, di unire Marx a qualche personaggio della scienza o a filosofi non marxisti. A volte si è trattato di autori decisamente minori; penso, ad es., a Bateson o anche Luhmann; a volte, invece, di alcuni giganti del pensiero del ‘900: Weber o Keynes, Husserl o Heidegger, ecc. Non credo alle unioni di questo o quello scienziato (sociale) o filosofo a Marx. Se si tratta di una commistione, di un qualche intreccio molto trasversale, questo mi sembra possibile; fermo restando che né Marx né lo studioso con questi con-fuso o con cui almeno “contaminarlo” debbono essere trattati da icone, ma letti e interpretati con molta libertà “d’azione” (nell’ambito dell’attività teorica).
Negli anni ottanta lessi quasi tutto Bergson e mi sembrò possibile la contaminazione di Marx con quest’ultimo, interpretando però tale filosofo – lo dico in due parole e con tutta l’approssimazione che ciò comporta – secondo una particolare angolazione che privilegiava l’aspetto del “vitalismo”, per cui formulai anche alcune “tesi sull’impulso”, ecc. Stetti naturalmente attento a non cadere nella pura e semplice, ma dunque torbida e pericolosa, esaltazione di una spinta (magari volontaristica) verso situazioni che, il più delle volte, degenerano in caos, provocando così quasi sempre la richiesta d’ordine, di cui si fa artefice qualche gruppo capitalistico (meglio detto: qualche gruppo di agenti strategici della sfera politica, e ideologica, che in genere rifluisce poi verso l’alleanza con una parte del capitale); si pensi ad es. ai “soreliani”, agli anarco-sindacalisti, ecc.
Oggi, vorrei rileggere il filosofo in questione, invece forzandolo (perché di forzatura probabilmente si tratterebbe) verso il lato dell’intuizione, che è essenziale per dare al pensiero la sua curvatura strategica. In tale forma di pensiero non vi è alcun disprezzo per la scienza (con la sua razionalità calcolante che individua legalità per via di generalizzazioni e classificazioni), non se ne sottovaluta affatto l’importanza; anzi, si ammette che non si potrà compiere alcun percorso minimamente razionale (il che implica un ordine e non solo il caos, un ordine dopo il caos) senza il ricorso alla scienza, al calcolo, alla (temporanea, per quanto più o meno duratura) fissazione di legalità generali.
Tutto ciò deve però essere posto al servizio – nell’ambito di una preminenza assegnata alla strategia e ai suoi saperi – dell’attenta valutazione del “campo”, delle “forze in campo”, del loro “dispiegamento sul campo”, delle “risorse a disposizione” delle stesse, e via dicendo. Tutto ciò è fondamentale, fa da base ad ogni decisione strategica, ma se ci si arresta a questo aspetto, di base, nessuna decisione del genere verrà mai presa. Sussiste, alla resa dei conti, la necessità di cogliere, con atteggiamento in qualche modo “artistico”, quell’elemento individuale (o singolare) in cui consiste il senso più pregnante, profondo, dell’insieme, che si afferra più compiutamente proprio nel momento della trasformazione “non legale” di quest’ultimo, non connessa a specifiche regole che possano essere stabilite in anticipo, ancor prima dell’azione sul campo (certe regole vengono anticipate sulla base dell’analisi scientifica sopra considerata, ma non “si vince” solo seguendole; non si vincono “battaglie” e “guerre” solo attenendosi ai “manuali”).
Per questo, sia detto per mero inciso, hanno sempre (fin “da piccolo”) sollevato in me ondate di ilarità quei marxisti (bordighisti) che fissano date precise, con “dimostrazioni” matematiche, per la rivoluzione (sempre poi rinviata di volta in volta); o quelli che credono di sollecitarla e renderla vincente, risolvendo le “aporie della trasformazione” (dei valori in prezzi di produzione) o certificando con la loro infantile sicumera che il “saggio di profitto tende a cadere”; “cade” sempre – per questi scolastici – dalla famosa “epoca di Marco Cacco”, ma il capitalismo non se ne accorge, e di conseguenza questi “signor Tecoppa” di un marxismo da operetta non riescono mai ad infilzarlo con le loro spade di carta (però, bisogna ricordarlo, simili infantilismi consentono a certuni di fare carriera nelle nostre Università “d’eccellenza”).
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Riprendendo il discorso, i saperi strategici sono gli artefici della novità, dandosi certe condizioni oggettive, analizzate e “messe in campo” tramite i saperi strumentali della razionalità calcolante, capace di costruire realistiche (e le più semplici possibili) regole o “leggi” generali relative a quel certo settore “fenomenico”. L’evolversi delle condizioni oggettive è attraversato da periodiche discontinuità – le singolarità – che aprono potenzialità innovative. In tali fasi (o punti di crisi o di “catastrofe”) si innestano i saperi di primo grado (strategici appunto), situati al vertice della costellazione delle forze che spingono in direzione dell’attualizzazione (realizzazione) della novità, con prevalenza di certi individui o gruppi su altri nell’ambito di un conflitto; sia che si tratti di concorrenza economica o lotta politica o scontro ideologico-culturale o affermazione di certe teorie scientifiche e via dicendo. Solo l’ideologia delle forze dominanti nei vari contesti tenta di accreditare la convinzione che il conflitto per la supremazia sfoci infine nel civile e democratico confronto tra idee, e che vinca, pacificamente, la migliore fra esse; mentre invece opera sempre un “pugno di ferro”, pur quando sia foderato da un “guanto di velluto”. L’efficienza (razionalità del minimo mezzo) viene posta in primo piano dall’ideologia dominante – o da quella dominata che, anche quando si “rivolta”, resta impigliata nella ragnatela di idee costruita dalla prima – come se reggesse la condotta umana individuale e di gruppo, che sarebbe così progressivamente instradata verso una crescente cooperazione con il graduale affievolirsi della conflittualità. Viene dunque nascosta – perché il nascondimento è funzionale al dominio di certuni su altri; e del resto anche questi altri hanno spesso interesse a nascondere la “verità”, poiché aspirano a divenire loro i predominanti in un tempo successivo – l’efficacia di un certo agire rispetto a quelli con esso contrastanti, efficacia che rinvia appunto all’uso di saperi strategici nel conflitto per la supremazia.
Credere che l’efficacia contrasti con l’efficienza, che l’interesse degli individui si concentri soprattutto in quest’ultima, raggiunta tramite la (solo presunta) “più razionale” mutua cooperazione, è effetto della propaganda ideologica dei dominanti (o dei subordinati che aspirano al “cambio della guardia”); nel lungo periodo, salvo cioè momenti congiunturali di inversione di tendenza, l’efficacia – basata sul conflitto di strategie per la supremazia – può esaltare anche l’efficienza. Non è una regola generale, ma è possibile e anzi probabile che sia così. Potrei continuare, facendo vedere come l’ideologia dei dominanti, e quella dei subordinati che sperano di sostituirsi ai primi, provochi una inversione di giudizio tra “positivo” e “negativo” in merito, ad es., al rapporto tra sviluppo e sottosviluppo, tra boom e crisi, ecc. Non lo farò in questa sede.
L’importante, per il momento, è rileggere l’articolazione spaziale e temporale della formazione capitalistica ponendo a suo perno il sapere strategico, che è perfettamente razionale; diventa perciò centrale l’idea delle singolarità che interrompono l’evolversi “legale” della processualità inerente a tale formazione, creando le potenzialità della novità – in quanto rottura della legalità e avvio ad una nuova forma della stessa – sfruttata solo dalla capacità (“intuitiva”) di attuare la “giusta” strategia per vincere e assumere la preminenza. Basta così, per il momento. Comunque, a questo mi sembra servire Bergson, “letto” in un certo modo.
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