APPUNTI PER UN MENO BANALE CONCETTO DI STATO

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1. Ancor oggi, lo Stato è trattato in veste di soggetto compatto ed unitario che agisce alla guisa di un individuo. Per di più si finge che esso sia il rappresentante dell’insieme dei cittadini, in quanto singoli dotati di pari diritti e tutti eguali fra loro. A volte si considera lo Stato come ostile alla collettività, ad esempio quando esagera con l’imposizione fiscale. Ancora una volta, si è convinti che tale ostilità si manifesti in generale nei confronti dell’insieme dei cittadini o anche verso alcuni raggruppamenti (ad esempio il lavoro “autonomo”, per certuni, o invece il lavoro dipendente, per altri); ma sempre con l’idea che si tratta di distorsioni temporanee, legate al fatto che in quel dato periodo transitorio il governo, in quanto supremo organo esecutivo dello Stato, è diretto da queste o quelle forze politiche. Tali differenziazioni restano nell’alveo di una comune concezione neutralista dello Stato, cui al massimo alcuni schieramenti apporterebbero temporaneamente qualche distorsione, ora in un senso ora in un altro. Lo Stato viene comunque pensato, in linea di principio, quale organo di rappresentanza della collettività nazionale. E addirittura, oggi, si preconizza uno Stato che diventi rappresentante neutrale di comunità sovranazionali.
Contro questa falsa rappresentazione dello Stato si erge – decisamente meno irrealistica, più robusta ed efficace – la concezione marxista che in quest’organo vede lo strumento della classe dominante; esso si porrebbe apparentemente al di sopra dell’intera società, proprio per fingersi garante di quest’ultima e impedire lo scontro violento tra dominanti (estrattori di pluslavoro/plusvalore, quindi sfruttatori) e dominati (i fornitori di tale plusvalore, dunque sfruttati). In realtà, lo Stato serve a garantire l’applicazione delle regole del “libero scambio mercantile”, in cui viene difeso l’equilibrio dello stesso, che deve svolgersi rispettando, in media, l’equivalenza tra le merci scambiate, senza “furti” da parte di nessun contraente mediante imbrogli o uso della forza; giacché è proprio rispettando l’equivalenza (nello scambio della speciale merce forza lavoro) che i dominanti ottengono, in forma di profitto (e rendita, interessi, ecc.), il pluslavoro estorto ai dominati.
Tali regole dell’ordinato “sfruttamento” sono garantite da una serie di apparati coercitivi: corpi speciali in armi, tribunali, galere, ecc. Solo in ultima istanza, però, questi funzionano a fini di repressione nei confronti dei dominati; in genere, servono proprio al rispetto delle regole del “libero scambio”, si rivolgono quindi spesso contro gli imbrogli e malversazioni di gruppi di dominanti quando questi – si pensi a quanto accade durante le crisi finanziarie – provocano danni alla “classe” dominante nel suo insieme, poiché viene messa in luce una serie di gravi malformazioni dell’ordine legale che rende possibile l’uso del raggiro, inganno, furto, prevaricazione, ecc. In questo senso, il marxismo vede lo Stato in quanto rappresentante dei dominanti nel loro insieme (classe); esso garantisce pienamente quella competizione concorrenziale che consente l’aumento del profitto (in quanto plusvalore relativo soprattutto), ma impedisce tutto ciò che incrinerebbe la fiducia dei “cittadini” (in particolare dei dominati, dei fornitori di pluslavoro) nel “libero scambio” e nella parità di diritti in quanto possessori di merci.
Fondamentale diventa quindi la difesa della credenza circa questa eguaglianza di diritti, circa la possibilità, pur mediante lotte pacifiche e legali, di migliorare le condizioni di vendita della propria merce, quindi il proprio reddito e tenore di vita. Importante diventa allora la cosiddetta egemonia ideologica, assicurata da un ceto intellettuale che diffonde la concezione della neutralità dello Stato (salvo deviazioni dovute all’imperfezione delle istituzioni “umane”) e delle virtù del libero scambio tra merci (addirittura sul piano mondiale), anche qui con le imperfezioni “umane”, che si manifestano soprattutto quando gli individui manovrano l’oro, oggi il denaro (anche virtuale), provocando – ma solo per loro cupidigia, che si provvede a punire – gravi alterazioni nel funzionamento “normale”…..dello sfruttamento (plusvalore come profitto) e del predominio.
Smascherando questa ideologia, e ponendo in luce la diseguaglianza reale celata dallo scambio mercantile, il marxismo sta comunque dieci passi avanti a tutte le chiacchiere sulle disfunzioni della finanza, sul signoraggio e altre fanfaluche di quei critici dei dominanti, che servono, nelle situazioni
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di crisi, a mantenere inalterata l’egemonia ideologica di questi ultimi, riempiendo la testa dei dominati di pure illusioni circa la possibile neutralità dello Stato e il possibile ripristino della giustizia nello scambio di equivalenti, ove venga sempre combattuto il “crimine” e ripristinato l’“ordine normale” della riproduzione dei rapporti capitalistici1.
Ci sono però momenti, tipo l’attuale in Italia (che dura da vent’anni) in cui gli ideologi appaiono per quello che sono: incapaci di esercitare egemonia. Allora subentrano gli apparati dello Stato: o la polizia o, come nel caso specifico, la magistratura che funzionano cercando di diffondere per altra via la medesima ideologia della legalità neutrale dello Stato e del “libero scambio”, spudoratamente alterato invece da manovre politiche di tutti i generi. Tuttavia, non sempre, malgrado tutte le prove, cade la maschera e si arriva allo scontro; e se ci si arriva, pure questo può essere deviato da altre ideologie di inganno e distorsione della realtà.
2. Con la fine del predominio, tendenzialmente monocentrico, dell’Inghilterra, e l’apertura dello scontro tra le nuove potenze (in particolare Usa, Germania, Giappone) che caratterizzò l’epoca detta dell’imperialismo, Lenin in particolare apportò delle correzioni di fatto alla concezione marxista dello Stato, pur se non mi sembra che esse siano state teorizzate esplicitamente. In Stato e rivoluzione egli dichiara apertamente di voler ripristinare l’effettivo pensiero di Marx ed Engels, rivalutando la funzione dell’atto rivoluzionario con cui viene “distrutta la macchina statale borghese” per costruirne una nuova (detta di dittatura del proletariato, pesantemente connotata in senso ideologico), adeguata alla transizione al socialismo e comunismo. In realtà, il riferimento alla lotta tra “predoni capitalisti”, l’interpretazione dell’imperialismo non come semplice colonialismo ma proprio come questa lotta tra potenze, muta qualcosa della vecchia interpretazione. Intanto, l’imperialismo non è identificato con la conquista di colonie (come pensò invece l’ortodosso Kautsky), ma nemmeno la esclude; la ingloba invece in una visione più ampia di tendenza alla supremazia mondiale di ognuna delle varie potenze in conflitto.
Certamente Lenin pensa che la lotta interimperialistica avrebbe aperto l’epoca della progressiva rivoluzione proletaria mondiale, con superamento del capitalismo giunto, così i marxisti pensavano, al suo ultimo stadio. Tuttavia, tenuto conto che invece gli Usa diventeranno predominanti nel mondo capitalistico (tradizionale) nel 1945 e, più generalmente, nel 1991 dopo la dissoluzione dell’Urss, si capisce infine che lo scontro interimperialistico è una fase policentrica in cui ogni potenza mira alla supremazia, dunque ad un nuovo monocentrismo; sempre tendenziale e, nel caso degli Stati Uniti dopo il “crollo socialistico”, messo presto in crisi all’inizio del nuovo secolo e millennio. Nello scontro imperialistico (più precisamente policentrico, o multipolare in quanto fase d’avvio a quest’ultimo), lo Stato assume nuovi aspetti, poiché fra i vari “distaccamenti speciali in armi” (che rappresentano ciò senza di cui non esiste Stato in quanto organo cui è demandato l’esercizio “legale” della violenza) diventa via via più rilevante e mastodontico quello militare (l’esercito) e bellico in senso lato (con i servizi segreti e spionistici, il finanziamento di vari organismi politici, a volte mascherati da un addobbo culturale, che si servono sempre di ben foraggiate quinte colonne interne ad altri paesi, perfino interne alle potenze avversarie, ecc.).
Si noti che in Lenin alla di fatto nuova connotazione dello Stato – non più soltanto strumento di dominio della classe proprietaria (dei mezzi produttivi) nel suo complesso al fine di garantire l’ordinata riproduzione dei rapporti dell’eguaglianza formale (nello scambio mercantile) per consentire l’estrazione di pluslavoro/plusvalore dai dominati, in ogni caso tramite competizione concorrenziale intercapitalistica (tra gruppi di dominanti) – si accompagna il passaggio dal concetto di modo di produzione (capitalistico) a quello di formazione economico-sociale 2, quale articolazione di più
1 Si sentono fischiare le orecchie gli italvaloristi, i grillini, i micromeghini e i ciarlatani vari che circolano in internet, questi autentici mentecatti e disonesti distruttori di ogni pensiero critico-razionale, certamente non antitetici, bensì coadiutori dei dominanti, che ben li remunerano in tanti sensi e concedono loro incredibili spazi mediatici?
2 Da non confondere assolutamente con “la formazione economica della società” di cui parla Marx e che è semplice-
mente il processo di conformazione di un’intera società da parte dei nuovi rapporti sociali produttivi (base economica),
in fase di prevalenza sui vecchi ormai superati e divenuti catene per lo sviluppo delle forze produttive; quest’ultimo al-
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modi di produzione, nel cui ambito quello capitalistico assume, ma non in ogni congiuntura storica, una posizione dominante1. Non posso qui mettere in risalto l’importanza di questa novità concettuale – anch’essa un po’ confusa così come lo è la nuova interpretazione dello Stato – ma comunque si comprende che essa si stacca dalla semplice formulazione di un modo di produzione “a due classi” antagoniste decisive, una sfruttatrice ed una sfruttata, alla cui lotta Marx affidava il corso del futuro processo storico ineluttabilmente diretto all’avvento del comunismo.
Nell’epoca dell’imperialismo (policentrismo), il conflitto è nettamente più complicato e vede in primo piano quello intercapitalistico, tra dominanti. Per Lenin, come successivamente per Mao, solo quando lo scontro tra questi ultimi diventa al “calor bianco” – e si produce, non dappertutto ma intanto in un anello debole della catena imperialistica (del dominio capitalistico), una brusca rottura
lora romperebbe “le catene”, i vecchi rapporti, facendo emergere il nuovo dalla vecchia scorza ormai in pezzi (la rivoluzione è quindi per Marx “la levatrice di un parto ormai maturo nel grembo” della vecchia forma di società, dei rapporti sociali di produzione). Con il concetto leniniano di formazione economico-sociale si può pensare alla rivoluzione in una formazione sociale in cui hanno ancora un ruolo progressivo (in tema di sviluppo delle forze produttive) i rapporti dei vecchi modi di produzione. E’ dunque la rivoluzione – la politica al posto di comando – che spinge in avanti verso il predominio dei rapporti del nuovo modo di produzione. I vecchi rapporti non sono catene, senza la cui rottura la società non si sviluppa per cui tutti (salvo una ristretta classe di rentier parassiti) avvertirebbero il bisogno della rivoluzione per affermare i rapporti del nuovo modo di produzione. Se i rivoluzionari non stanno attenti, la rivoluzione arretra; e qui subentra il problema degli apparati rivoluzionari coercitivi, della battaglia ideologico-culturale, della formazione delle alleanze e dei blocchi sociali, ecc. Un orizzonte enormemente più ricco e più vasto di quello consentito dal più elementare modello marxiano del modo di produzione a due classi. Per questi motivi Lenin – e non semplicemente perché viene dopo Marx, in una nuova fase storica – è in grado di vedere “di più” del suo “Maestro”, rappresenta un gradino più alto nell’elaborazione di una teoria della rivoluzione. E non necessariamente una teoria marxista “ortodossa”. Lenin vede più di Marx perché è politico; tutto in lui, anche quando si crede che affronti problemi filosofici, è invece strategia di lotta politica. Quindi Lenin – anche se per motivi storici particolari (il tradimento delle socialdemocrazie nella prima guerra mondiale) gioca il ruolo dell’ortodosso, di colui che ripristina il pensiero di Marx (e perfino di Engels) – è al contrario il primo (e l’unico dei “marxisti”) ad iniziare la fuoriuscita dal pensiero di Marx; ma, lo ribadisco, fuoriuscita da quella porta, non da altre. E la fuoriuscita ha effetti pratici sconvolgenti perché Lenin comprende che il problema centrale è la politica, cioè la concezione del conflitto strategico per la supremazia. Non a caso è il primo (seguito poi da Mao) a porre in rilievo come la rivoluzione non riesca laddove si pensa sia più forte; essa germina, scoppia e vince laddove i dominanti sono più deboli perché dilaniati dal loro conflitto per la supremazia (mondiale). Quindi non il semplice conflitto classe contro classe (dei meschini ripetitori di giaculatorie marxiste), bensì quello di un paese imperialistico contro altri paesi imperialistici, è il migliore viatico per lo scoppio della rivoluzione. Ma questo discorso è di tale rilevanza che merita ben più di una nota. Lo riprenderò a parte.
1 Subito dopo la Rivoluzione d’ottobre, e anche durante gli anni della Nep, il modo di produzione pensato come prevalente in Urss fu quello della piccola proprietà, spesso non ancora capitalistica. Che la forma capitalistica fosse aiutata a divenire predominante per un certo periodo di tempo era considerato necessario, pur sotto il controllo della sedicente dittatura proletaria, per riuscire ad innescare la vera fase di transizione (al socialismo intanto, quale primo gradino del comunismo). Naturalmente, si doveva anche dare impulso alla crescita del settore della proprietà statale, in una prima fase almeno (penso per merito di Lenin, pur malato) non immediatamente identificata con la proprietà socialistica; semplicemente una sorta di modo di produzione a capitalismo di Stato. Dopo il 1929, l’indubbiamente necessaria accelerazione del processo di accumulazione, a carattere industriale e pianificato dal centro, prese il davanti della scena e, alla fine, si pensò a tale processo come “costruzione del socialismo” pura e semplice. Il concetto leniniano di formazione economico-sociale fu di fatto abbandonato. Esso fu invece importante, pur se ancora invischiato nella tematica della predominanza dei rapporti sociali in ambito produttivo (modalità, sia pure attenuata, di economicismo), per pensare la rivoluzione in un paese non caratterizzato dal modo di produzione capitalistico (a due classi fondamentali e decisive nella loro semplicistica lotta antagonistica), l’unico di cui Marx, sul modello del capitalismo inglese, pienamente sviluppato ai suoi tempi e predominante mondialmente, poté costruire la trama di relazioni considerata “essenziale” e base portante dell’intera formazione sociale. Non c’è nulla da fare: Lenin lascia a diverse lunghezze Marx; è l’autentico teorico della Rivoluzione; e non semplicemente “proletaria”, mera superfetazione ideologica, legata ad un dato tempo storico, ad una data fase del conflitto. Questo fu mondiale (geopolitico), ma dovette essere ridotto per le esigenze del momento a quello della “classe contro classe”; da ciò la sua inevitabile involuzione, sconfitta e crollo. Guai a chi (si) inganna sulla posta in gioco, sulle forze nel campo della lotta. Per questo, oggi, comunisti e marxisti sono reazionari, stanno con i peggiori predominanti; la loro involuzione era necessitata dall’errore storico commesso. Lenin fu giustificato nella congiuntura in cui visse e agì; i comunisti e marxisti odierni sono nemici (non semplici avversari) da combattere, perché hanno fatto strame di prassi e di teoria. Chi non capisce il mutamento dei tempi, da progressista diventa il peggiore dei reazionari.
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sociale con crollo delle istituzioni, statali in primo luogo (perciò anche dei corpi speciali in armi) – si è in grado, per merito di una “avanguardia” ferramente organizzata e strategicamente attrezzata, di provocare il fatto rivoluzionario; considerato proletario, ma che vede in realtà in primo piano le masse contadine (dunque precapitalistiche; ancora una volta, si constata l’importanza del concetto di formazione economico-sociale al posto di quello di modo di produzione!).
I comunisti non hanno mai capito (io stesso debbo procedere dopo anni “di buio pesto” a tentoni) quel che avvenne nei paesi a capitalismo relativamente (Italia) o altamente (Germania) avanzato, già caratterizzati da grossi strati di “ceto medio” – non compreso in base al semplice concetto di modo di produzione con due sole classi decisive, borghesia e proletariato, tutto il resto essendo o residuo del passato o gruppi improduttivi (non inutili), alimentati dal plusvalore operaio o proletario – e da sedicenti aristocrazie operaie, nulla più invece che i livelli superiori di raggruppamenti sociali in via di tendenziale miglioramento delle loro condizioni di vita e di status sociale. In tali paesi si sono prodotte, con fascismo e nazismo, due rivoluzioni di tipo diverso da quella verificatasi in Russia, ma pur sempre messe in moto dal disfacimento delle strutture istituzionali a causa dei conflitti interdominanti. Non c’entrava proprio nulla la “reazione” del capitale finanziario o addirittura di quello agrario (non è decisivo accertare da dove provengono certi finanziamenti per capire il carattere di un processo rivoluzionario; altrimenti bisognerebbe fare le pulci pure a Lenin e ai bolscevichi). Nei paesi a capitalismo più avanzato, le “avanguardie” rivoluzionarie si accordarono con i gruppi dominanti del grande capitale. Qui si apre un discorso ancora una volta rilevantissimo, soprattutto facendo un paragone con la veloce “accumulazione originaria” operata in un paese capitalisticamente arretrato come l’Urss; discorso che devo tuttavia lasciare ancora una volta al futuro.
Lo Stato della fase imperialistica – più ancora che strumento di organizzazione dell’ordinato sfruttamento dei dominati da parte della classe dominante nel suo complesso (con apparati ideologici e di eventuale coercizione all’uopo forgiati), come si deve concludere se ci si basa sull’utilizzazione dell’ormai semplicistico e fuorviante concetto di modo (e di rapporti sociali) di produzione – è dunque soprattutto apparato attrezzato al conflitto tra paesi (nazioni), così come lo è ancor oggi, all’inizio della nuova fase multipolare, malgrado le ciance di intellettuali privi di intelletto. Lo Stato diventa “esercito in marcia”, organizzatore di manovre di aggressione e/o di sovversione interna ad altri paesi, promotore di egemonia ideologica non semplicemente “di classe”, bensì di “nazione”; un dato paese può inoltre cercare di uniformare una certa area con strutture socio-economiche similari (o invece da esso dominate direttamente), ma che ancora mantiene caratteri culturali difformi.
3. E’ evidente che occorre andare ben oltre la normale e banale considerazione dello Stato quale organo unitario, sistema di apparati impropriamente trattato quale soggetto individuale dotato di volontà, da cui promanano univoche e coerenti decisioni. E’ fuorviante e mistificatorio – atteggiamento tipico degli ideologi più ipocriti e falsamente “etici” dei gruppi dominanti – concentrarsi sulle procedure formali tramite cui dovrebbe formarsi una “equilibrata” volontà decisionale attraverso il controllo reciproco di più organi, che spesso (quasi sempre, questa è la “norma”) si intralciano invece fra loro, creando “rumore” e non “informazione” per la collettività dei presunti “cittadini” (tutti eguali secondo questa liturgia da filistei). Sia chiaro che non si tratta di aperta malafede (spesso anche si) ma dell’aggirarsi e inutile agitarsi degli agenti ideologici dei dominanti – seguiti oggi da comunisti ed ex comunisti, da marxisti ed ex marxisti divenuti, come in nota ricordato, aperti reazionari e perfino cultori di una vuota Carta Costituzionale – sperduti nei meandri dell’inganno da essi stessi creato mediante un cervello ormai ridotto a un acquitrino melmoso e maleodorante.
Lo Stato non è affatto il creduto organo “essenzialmente” unitario e compatto alla guisa dei reali individui dotati di effettiva volontà (sia pure conformata dall’intreccio di rapporti sociali in cui sono inseriti e agiscono). L’unità dello Stato consiste sempre nella latente minaccia, che solo in date occasioni si manifesta in tutta la sua evidenza, di uso dei suoi apparati di forza e violenza; quelli ideologici servendo soltanto durante lo scorrimento normale e oliato della vita sociale nei periodi in cui i “cittadini” vivono nell’illusione dell’identità tra rispetto delle regole formali – che, così si dichiara,
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garantiscono la parità di diritti per tutti – e una reale eguaglianza. Meglio poi se, con le “libere elezioni”, sono pure convinti di partecipare alla formazione delle decisioni prese da quest’organo “metafisico”, che sta sempre in ogni dove, avendo però sede in materiali luoghi ed edifici, in cui specifici corpi lavorativi (le burocrazie) svolgono le varie pratiche esecutive delle decisioni in oggetto. Che il disbrigo di tali pratiche sia efficiente o meno, di gradimento o di irritazione dei “cittadini”, questo è problema secondario per la “teoria” dello Stato: “nessuno è perfetto”.
A parte il tipo di unitarietà dello Stato appena considerato, quest’ultimo è in effetti, proprio “essenzialmente”, sostanzialmente, disunito, disorganico. Ecco perché sono fatui e sciocchi coloro che blaterano di Stato come se fosse un organo di gestione degli affari generali della società. La società – e non solo quella capitalistica, ma comunque di questa stiamo adesso trattando – non ha semplici affari generali da curare. Non vi è alcun affare trattato nominalmente per conto della “società tutta” che non sia realmente connotato dalla prevalente impronta impressa dall’azione di un qualche gruppo di agenti sociali. La società è un fitto intrico di rapporti tra gruppi e raggruppamenti, a trama sempre più “fine” fino al complesso dei rapporti interindividuali. L’unitarietà dell’intera società, trattata quasi fosse un soggetto individuale, è una finzione; utile, perfino necessaria per dati scopi, ma da non pensare mai come reale, altrimenti si prendono cantonate colossali. L’unica unitarietà è quella attribuita allo Stato tramite il “monopolio della forza” (non è certo una mia definizione) e dunque mantenendo sempre sullo sfondo – anche se più spesso in latenza; o in forme celate, mascherate, dal ben noto “guanto di velluto” – l’uso dei “corpi speciali in armi” per livellare e uniformare con la violenza la “volontà sociale”.
Lo Stato non è dunque realmente unitario; non però perché consta di tanti apparati di vario tipo: di coercizione, di egemonia ideologica, di organizzazione e gestione, di esecuzione di politiche penetranti nella sfera economica, e via distinguendo sempre più finemente le varie mansioni e finalità. Nemmeno è decisivo che vi siano apparati la cui azione si dirige verso l’ambito interno o invece affronta i problemi inerenti all’inserimento del paese nell’agone mondiale. Lo Stato non è unitario perché – prima (logicamente prima) che gli venga attribuita la caratteristica (“monopolistica”) della sua apparente unità – è una rete di conflitti tra vari gruppi sociali; di cui quelli decisivi sono i dominanti (nella versione marxista, sarebbe stata la mera classe proprietaria), in cui, nelle condizioni della normale riproduzione dei rapporti capitalistici, sono cooptati certi dirigenti dei dominati. Ecco perché, e necessariamente fino a quando non si producono gli sconquassi impedienti tale normale riproduzione nel famoso “anello debole”, i sindacati dei lavoratori sono, a tutti gli effetti, apparati dello Stato nei paesi capitalistici, pur se formalmente non vengono considerati tali. Partiti, sindacati, lobbies varie, ecc. stanno fra i gruppi di decisori, di vertice, il cui intreccio conflittuale costituisce la trama essenziale di quello che denominiamo Stato.
Questa rete è però “invisibile”; non perché i gruppi in lotta siano paragonabili a microparticelle (nel qual caso sarebbe sufficiente possedere un buon “microscopio” per vederli). Di tali gruppi sono ben visibili (macrovisibili) i corpi (chi non vede i partiti e altre associazioni? Ma anche molte delle lobbies e gruppi di pressione sono visibilmente organizzati; e pure le massonerie non sono certo “microscopiche”, soltanto più “discrete” nella loro “pesante” presenza). Tuttavia, quel che conta non è la loro “massa”, bensì l’“energia” che sprigionano nel conflitto reciproco, e che fa pendere lo squilibrio (sempre presente) da una parte o dall’altra o dall’altra ancora, perché lo scontro non è affatto tra due entità soltanto come nel modellino marxiano del modo di produzione; ancora una volta si constata che il concetto di formazione economico-sociale tentava pur confusamente un approccio più complesso e pregnante di quello marxiano. Da questo multilaterale intreccio della battaglia, che sprigiona energie da più parti, nascono le alleanze (in orizzontale, tra gruppi dominanti) e i blocchi sociali (in verticale, con egemonia di dati gruppi dominanti su determinati raggruppamenti di dominati).
Certamente, pure l’energia si rileva materialmente, ma non con il microscopio. Inoltre, essa non può agire “in libertà” (altrimenti, parlando sotto metafora, abbiamo la distruzione della bomba atomica, non l’uso della medesima energia nelle centrali nucleari). Quindi, è logico che tale energia si
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“rapprende” negli apparati il cui sistema è detto Stato, e all’interno dei quali prestano la loro opera speciali corpi lavorativi (con la loro organizzazione gerarchica), funzionanti seguendo determinate regole; e comunque anch’essi soggetti al giudizio di efficienza o meno nell’espletamento delle loro specifiche mansioni. Gli apparati rappresentano in ogni caso la condensazione in “materia” dell’energia sprigionata dal conflitto tra più gruppi (dominanti, se siamo nel periodo dell’ordinata riproduzione dei rapporti capitalistici). Anche quando apparentemente non vi è alcun mutamento sostanziale degli apparati (né dei loro corpi lavorativi né della loro organizzazione), l’energia conflittuale è sempre all’opera e produce spostamenti, modificazioni, per quanto di carattere minimo, per piccoli “salti discreti” (tutto il chiacchiericcio di intellettuali pieni di prosopopea sulla “costituzione materiale”, che via via differisce sempre più da quella “formale”, trova qui il suo fondamento e reale spiegazione).
In definitiva poi, come già sappiamo, deve essere presentata “al pubblico” l’unità di questo sistema di apparati – denominato Stato e caricato dei “più alti fini etici” e di “rappresentanza generale” della Società dai filosofi dei dominanti (che lo sono anche quando si credono “critici critici”), che quanto a rodomontate non si tirano mai indietro, megalomani e narcisisti quali sono – altrimenti viene svelato l’arcano ideologico del suo essere luogo e precipitazione (quindi spazio e tempo) di un conflitto tra dominanti per la supremazia. E simile unità è assicurata affidando a quest’organo il monopolio dell’esplicazione della forza “armata”, al cui esercizio sono adibiti “corpi speciali”, senza i quali – e senza la costante potenzialità, con attuazione assai più rara, dell’uso della violenza per reprimere e rendere coercitiva la riproduzione del rapporto capitalistico – non esiste lo Stato; esso si dissolverebbe e resterebbe la famosa lotta non proprio di ognuno contro tutti, ma di ogni gruppo dominante (con le sue alleanze sempre labili e mutevoli e il suo blocco sociale sempre in procinto di sgretolarsi) contro ogni altro. Altro che primato dell’egemonia ideologico-culturale; se questa, come aveva ben capito Gramsci, non è supportata dallo scudo coercitivo, addio predominio di dati gruppi dominanti, addio coesione sociale; solo anarchia e caos, sempre promossi non caso da coloro che cercano di rovesciare “l’ordine esistente” per portare al potere, il più delle volte, nuovi gruppi dominanti, e solo raramente, per brevi periodi, i dominati (comunque sotto la guida di gruppi dirigenti quanto meno ambigui: non sempre soggettivamente ma oggettivamente per le vicende storiche specifiche in cui agiscono).
PRIME CONCLUSIONI PROVVISORIE
Per il problema dello Stato, basta con Marx e il concetto di modo di produzione! Si deve come minimo passare attraverso Lenin, ma poi proseguire oltre ripensando lo Stato quale sistema di apparati “materiali” dotati di massa, che è la precipitazione e condensazione dell’energia del conflitto. Chi non lo capisce è ormai un reazionario, un ideologo dei dominanti: di quelli peggiori nella lotta intercapitalistica che si sta nuovamente scatenando a livello globale. Sedicenti comunisti e marxisti, farfalloni che credono allo Stato come organo di gestione generale – trascurando il monopolio della violenza, l’essenzialità degli apparati della coercizione (pur solo della minaccia di quest’ultima) affinché sussista uno Stato – sono da combattere essendo i più perniciosi imbonitori, falsificatori, mistificatori.
Finito il 17 marzo 2010
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