Avanti (o popolo italiano!)


A parte Gramsci, non so quanti altri comunisti siano esistiti in Italia. Ci sono stati i piciisti togliattiani (“revisionisti” come si diceva allora, comunque gente seria) e i detriti bordighisti e trotzkisti, tromboni ultrarivoluzionari con la lingua, opportunisti e assai cedevoli nei fatti. Dopo, abbiamo conosciuto i movimenti del ’68 e ’77, rivelatisi, alla fine e dopo un brevissimo periodo di apparente fulgore, degenerazioni progressive di una ideologia ormai in netta decadenza (malgrado la cosiddetta modernizzazione dei costumi); l’esito ultimo (in ordine di tempo), soprattutto in seguito al crollo del “socialismo reale”, è stato l’accumulo di quel deposito di buonismo, permissivismo, lassismo, ecc. (il “politicamente corretto”, monopolio della sinistra), che ha condotto alla recente, meritatissima, disfatta. Quanto alla dottrina di riferimento (mai termine fu più adatto), il marxismo italiano – a parte il solito Gramsci, l’unico creativo (con alcuni limiti, tuttavia) – è stato abbastanza disastroso. Dall’umanesimo e storicismo – ideologia piegata all’evoluzionismo opportunista e fondamentalmente rinunciatario del piciismo – siamo passati al “grundrissismo” (nel ’68) e poi a una serie di altre mode, in veloce obsolescenza e continua sostituzione con l’“ultimo grido”. Non parliamo dei soliti bordighisti e trotzkisti, che hanno ridotto Marx ad una serie di formule canoniche (talvolta mascherate dall’uso della matematica per fingere esattezza, mentre si trattava solo di certezza dogmatica) ad uso di “religioni” di stampo cabalistico e stregonesco.
Adesso con tutta questa cianfrusaglia chiudiamo una volta per tutte ogni rapporto e, per favore, non lasciamoci più trascinare a fondo da questi “avanzi indigesti”. Mi auguro che veramente ci sia un rapido ricambio di lettori del blog perché non desidero avere più alcuna interlocuzione con simili residui rancidi di epoche non passate, ma trapassate. Resta per me, quale punto di riferimento e ascendente culturale, il pensiero di Marx e di Lenin, da rivisitare con spirito assolutamente libero da ogni intralcio dottrinario; essi vanno trattati come autentici scienziati (della società capitalistica e della pratica rivoluzionaria, poiché c’è una scienza anche di quest’ultima) e quindi come pensatori e attori soggetti all’errore. Nell’ambito dello sviluppo del marxismo, l’unico pensatore di cui terrò conto (e che consiglio vivamente anche a quelli a me vicini) è Althusser; più gli altri autori ad esso assimilabili, del tipo di Bettelheim. Tutto il resto è da cestinare. Un conto sono i rapporti interpersonali (non chiedo agli amici nessuna vicinanza teorica o ideologica), un altro i rapporti di analisi, studio, dibattito teorico, ecc. Quanto alle battaglie politiche, culturali, ecc. ci possono essere obiettivi comuni e perfino un comune sentire indipendentemente dai propri “padri spirituali”; pur sempre con limiti ben definiti.
In ogni caso, gli zombi vanno lasciati vagare entro i campi da loro stessi recintati con il filo spinato delle loro elucubrazioni demenziali e agitazioni scomposte (alla ricerca della perduta identità religiosa). Finché non tentano di uscire da quei campi, non sono pericolosi e si possono guardare senza tenerezza (perché sono in ogni caso irritanti), ma con sostanziale disinteresse; che però non cerchino di fare sortite, perché allora la musica deve cambiare. In particolare, non vogliamo avere più fra noi cadaveri in putrefazione, cervelli cristallizzati in formule “eterne”, buonisti e permissivisti, egualitari della mediocrità, moralisti della domenica, anarcoidi e disadattati. Non lasciamoci “contaminare” dagli antimodernisti, dai “medievalisti” (non sto evidentemente parlando della categoria degli storici di quel periodo, che anzi sono utili come tutti gli storici, di ogni altra epoca). Sono “biologicamente” vecchio, ho molti ricordi cui rivado spesso con molta partecipazione emotiva; non rinnego nulla di quanto fatto in passato. Tuttavia si tratta appunto del passato: da ricordare per gli insegnamenti che ha fornito, tenendo però conto che il futuro si presenta del tutto diverso.
Basta sventolare bandiere, simboli di una “perduta identità”, che è bene non ritorni più. E’ stata a suo tempo positiva, non c’è proprio nulla di cui vergognarsi (anzi il contrario). Oggi, però, inorridisco a vedere ancora patetici tentativi di riafferrare ciò che è morto da anni e decenni. Tanto più che la rimemorazione è caduta in mano a discutibili marpioni, che sfruttano i sentimenti di nostalgia di tanti vecchietti (non importa l’età che hanno) per cercare di rientrare nel gioco elettorale che dava loro ottimi appannaggi. Da condannare seccamente sono inoltre i giustizialisti che, al seguito di al-
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cuni personaggi assai ambigui, tentano di ripristinare il clima di mani pulite, grossa operazione mossa d’oltreatlantico e appoggiata da gruppi finanziari e industriali italiani – in combutta con apparati partitici e sindacali di “sinistra” – il cui potere non è ancora del tutto smantellato nemmeno oggi, anche se in questo momento sembra indebolito, il che spiega una serie di manovre di aggiustamento tattico.
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In questo periodo postelettorale, di insediamento del nuovo governo, sembra essere in atto una serie di manovre caratterizzate da buone maniere tra maggioranza e opposizione (disturbate, come già rilevato, dai soliti settori giustizialisti e moralisti, che definire di sinistra appare assai azzardato). Divertente è poi constatare che, per tutta una serie di questioni e grazie al non sempre prevedibile ministro dell’economia, la sinistra viene (a parole) scavalcata. Tremonti aveva già da tempo criticato la globalizzazione e quindi il liberismo; andando incontro a critiche perfino da parte del presidente della Repubblica, non del tutto chiare e comunque non condivisibili. Ha continuato parlando della necessità di sacrifici per banchieri (che si sono subito allarmati e messi sul piede di guerra) e petrolieri; poi ha rincarato la dose sollevando lo scandalo degli emolumenti presi dagli alti manager di grandi imprese, anche di quelle che vanno piuttosto male (nessuno ha però citato il duo posto al vertice di Trenitalia, che è quasi al fallimento; comunque in una situazione non migliore di quella di Alitalia). Infine, ha anche di fatto sfottuto certa sinistra, rilevando che sarebbe meglio si rifacesse nuovamente a Marx e Gramsci quali suoi punti di riferimento ideali. Ho la netta sensazione che il governo effettivo del paese non seguirà gli “umori” tremontiani; comunque è abbastanza divertente (si fa per dire) questa sorta di “invasione a sinistra”.
Nel contempo, come riportato anche in un articolo di Repubblica (di cui D’Attanasio ha riferito nel blog alcuni giorni fa), ambienti russi hanno mostrato ampia soddisfazione che sia di nuovo in sella Berlusconi, con riferimento alle prospettive di più ampia collaborazione tra Eni e Gazprom (già nel precedente viaggio di Putin in Sardegna nel 2003 vi erano state convergenze a tal proposito, successivamente un po’ appannate per ostacoli provenienti “da sinistra”). Niente male per un “amerikano” quale l’attuale presidente del Consiglio. Tuttavia, aspetterei le mosse dei prossimi mesi prima di trarre conclusioni affrettate. Ci sono alcune “preferenze” tremontiane – protezionismo verso i tessili cinesi (che mi auguro tramontato), eccessivo entusiasmo per il cosiddetto terzo settore, ecc. – che non mi convincono per nulla ed esprimono, anche se con tattiche (o magari strategie) differenti, un sostanziale allineamento alle posizioni di predominanza mondiale degli Usa. Aspettiamo e vediamo.
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Non c’è invece da aspettare nel dichiarare apertamente le proprie predisposizioni. Manca una analisi (anche storica) dei blocchi sociali esistenti in Italia nel dopoguerra (quindi dopo la caduta del fascismo); o comunque dei tentativi di costituzione (non sempre ben riuscita) di blocchi sociali in quanto cuscinetto protettivo di determinate frazioni delle “classi” (gruppi interconflittuali) dominanti. L’ultimo di tali blocchi – quello successivo all’operazione mani pulite – sembra essere stato largamente basato sull’accordo (già stabilito prima di allora, pur se soggetto a varie manovre di disturbo “craxiane” che non sono mai state ben analizzate e spiegate) tra certi settori di lavoratori dipendenti (rappresentati da apparati di Stato verticistici e burocratici quali i sindacati ufficiali) e gruppi della finanza e dell’industria di tipologia “fordista”. Tale accordo è servito soprattutto a contenere eccessive richieste salariali, dato che le lotte sindacali sono state più che altro orientate a contrastare i successivi “assalti” berlusconiani all’accordo stesso, nel tentativo di tenere sotto controllo quello che è stato spesso definito piccolo establishment (o, dal sottoscritto, GFeID: grande finanza e industria “decotta”, in sostanza quella della passata ondata di industrializzazione).
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Alla fin fine, Berlusconi non ha mai voluto veramente sgretolare questo blocco di potere (cui ad un certo punto, nel periodo del suo precedente governo, ha perfino sacrificato Tremonti, quando questi addivenne ad uno scontro acuto con le banche e le fondazioni bancarie); si è sempre servito della tensione per tentare di giungere ad un compromesso con la GFeID. Tuttavia, quasi non volendolo, ha dovuto in qualche modo appoggiarsi a settori del lavoro autonomo (e delle PMI, piccole e medie imprese), per cui il cosiddetto (in modo errato) ceto medio si è di fatto gonfiato e arricchito per un buon periodo di tempo. Una breve fase di scontro acuto tra disegni diversi – a parte quello conclusosi con le dimissioni di Tremonti – si è verificato nel 2005 quando fu, dopo alcuni mesi di attacchi crescenti, liquidato Fazio (la finanza vaticana dovette evidentemente accettare la sconfitta, almeno momentanea), sostituendolo con un personaggio assai vicino alla finanza del paese predominante. Per quel che mi riguarda, quell’episodio resta oscuro e non so indicarne le motivazioni salienti: solo la conclusione – patrocinata apertamente dalla Confindustria e da banche (“sinistrorse”) quali Intesa e Unicredit (del Monte dei Paschi inutile parlare, mentre Unipol, almeno apparentemente appoggiata da certi settori diessini dalemiani, stava dall’altra parte) – è stata netta e precisa; ed è sembrata rafforzare definitivamente la GFeID (o piccolo establishment, quello il cui nucleo duro è nella Rcs, con il Corriere quale portavoce, ecc.).
Non è stato però così, non almeno del tutto; e le ultime mosse di Montezemolo – e le prime della nuova presidente confindustriale – lasciano presagire cambiamenti tattici per adeguarsi ad una situazione non del tutto favorevole per il blocco di potere in questione. D’altra parte, la disfatta della “sinistra” è superiore perfino a quel che sembra a prima vista; e i tentativi di risalire la china, se affidati a D’Alema e Bersani e ai giustizialisti (falsi moralisti) guidati da un personaggio come Di Pietro, non sembrano gran che all’altezza della situazione, comunque di crisi. Lasciamo stare per il momento il crac finanziario (globale), di cui si sta parlando troppo, ma la stagflazione (con crescita zero in Italia) non è propizia alla “sinistra” (nemmeno alla destra, per carità). In più, ormai si avvertono scricchiolii nei sindacati, invecchiati al massimo (metà iscritti fra i pensionati; se va avanti così, la CGIL diventerà come il partito comunista ceco, i cui “militanti” hanno un’età media di settant’anni).
La crisi ha però messo in sofferenza anche il cosiddetto ceto medio, cioè quella parte sociale costituita dai ceti del lavoro autonomo e delle PMI; e la bonarietà reciproca tra Berlusconi e Veltroni potrebbe non bastare affatto a sanare una situazione critica che non è solo italiana, pur se da noi si riflette con maggior virulenza. Occorrono scelte piuttosto radicali e rapide; e le alleanze internazionali, che ci vedono pur sempre “troppo attenti” (cioè proni) ai “desideri” (cioè ordini) americani, sono un intralcio.
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Comunque, il vecchio blocco sociale – ammesso che fosse qualcosa di veramente stabile e consolidato – sembra in fase di discreto scollamento. Sindacalismo in difficoltà, concertazione sempre più “incerta”, invecchiamento e sclerotizzazione degli apparati (“di Stato” ) dei sindacati ufficiali, lavoratori salariati che non hanno per nulla goduto del quindicennio di alleanza tra GFeID, questi stessi apparati sindacali e le “sinistre” (ivi comprese quelle dette radicali, che si sono pavesate con l’operaismo ma sono state ampiamente contaminate dal parlamentarismo, nazionale come locale). I salari non sono proprio di fame, ma per la maggior parte sono in netto calo in termini reali; mentre si stanno producendo forti differenziazioni all’interno del lavoro autonomo. Per di più, lo scandaloso livello remunerativo dei manager, gli sprechi incredibili della sedicente Casta (ma ce n’è più d’una), l’inefficienza ormai intollerabile di tutto ciò che viene denominato “pubblico” (e che serve solo ad alimentare clientele e entourage dei politici e amministratori corrotti e incompetenti), provocano irritazione e insofferenza in continuo aumento.
La situazione di crisi (crescita zero, ecc.) viene affrontata soprattutto dal lato della domanda; il nuovo governo parla anche di opere infrastrutturali. Abbiamo quindi un misto di orientamento libe-
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rista (diminuzione del carico fiscale, ecc.) e di intenzione di imprimere impulsi tramite la spesa pubblica (per investimenti). Tutto questo è legato ad un tentativo di rilancio dell’economia che non incida minimamente sulla nostra subordinazione al paese preminente. Un rilancio debolissimo, incerto, in ultima analisi dipendente dagli “umori” dell’economia statunitense. Ancora non è chiaro come ci si comporterà nei confronti dell’industria della passata ondata di industrializzazione e delle istituzioni finanziarie (la GFeID), finora sempre aiutate e alimentate dalle politiche governative della “sinistra”. All’appoggio che potrebbe trovare l’Eni verso est (la Russia della Gazprom) ho già sopra accennato. Tuttavia, è necessario impostare una politica delle fonti energetiche di ampio respiro, senza concessioni alla moda delle energie alternative e ad altre manovre diversive; innanzitutto non accettando la separazione di produzione e rete di distribuzione dell’Eni, contrabbandata come una politica di liberalizzazione e di incremento di una vantaggiosa competizione concorrenziale, mentre serve solo ad ingrossare il potere (locale ma proiettato in ambiti più vasti) di molte ex municipalizzate (tipo la Hera di Bologna, che ha ben precisi orientamenti politici nazionalmente negativi).
Quanto a Finmeccanica, vera nostra impresa di punta, è inutile negare il suo attuale orientamento prevalente verso “ovest”. Ridicolo far credere che l’ultima acquisizione di una impresa statunitense di carattere strategico (infrarossi, sensori, ecc.), il cui cliente quasi esclusivo è l’esercito americano, sia avvenuta dopo una gara nel “libero mercato”; leggere, appunto in Liberomercato, la cronistoria (di o.g.) delle trattative, con l’intervento di studi avvocatizi e di consulenza finanziaria nonché di grandi banche (certo necessarie in operazioni del genere), faceva quanto meno sorridere. Tutto ciò è indispensabile ma per nulla affatto sufficiente; alla fine, è sicuro che avranno deciso Pentagono e Dipartimento di Stato, valutando l’affidabilità di Finmeccanica per gli Stati Uniti. La questione andrà riesaminata perché non se ne devono comunque affrettatamente trarre conclusioni univoche.
In ogni caso, fondamentale è che la politica italiana – e l’appoggio non semplicemente finanziario (e tanto meno di tipo assistenziale, come quello cui sono abituate, ad es., aziende tipo Fiat) – si rivolga con decisione all’impulso da dare alle nostre imprese dei settori di eccellenza; dunque anche alla ricerca scientifica e tecnica che è necessaria a tal fine. L’apparato finanziario dovrebbe essere “piegato” ad esigenze simili che rafforzano l’intero sistema-paese. Ovviamente, una politica del genere esige che ci siano gruppi politici all’uopo attrezzati; detto francamente, non lo è assolutamente la sinistra, ma nemmeno la destra. Quindi, per il momento si tratta in fondo di “predicare nel deserto”; eppure bisogna farlo. E’ pure evidente che non esiste politica seria se non si crea per essa una base sociale adeguata. Detto per il momento con molta brevità e secchezza, tale base credo debba essere costituita da una sostanziale alleanza tra ceti del lavoro dipendente di medio-bassa fascia salariale e ceti analoghi (quanto a livello di reddito) del lavoro autonomo e piccolo-imprenditoriale.
E’ quindi logico che ci si dovrebbe battere sia per l’innalzamento dei più bassi livelli salariali sia per una detassazione delle corrispondenti fasce basse del lavoro autonomo. Non però con il semplice fine di incrementare i redditi di tipici spenditori e dunque i loro consumi, dando così impulso a quella domanda, la cui debolezza si pensa essere la causa della stagnazione. A parte il fatto ormai lampante delle difficoltà economiche in cui versano i ceti a basso reddito, il problema centrale è proprio quello della progressiva costituzione di una base sociale in grado di supportare una nuova politica, tesa al rafforzamento del nostro paese e quindi alla sua maggiore autonomia rispetto al paese predominante in tutto l’ “occidente” capitalistico (gli Usa nei confronti di Europa e Giappone). Si tratta di un problema cui si dovrà dedicare d’ora innanzi una considerazione particolare. Qui ho solo fatto un primo accenno, altri ne seguiranno.
17 maggio 2008
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