BRICOLAGE (TERZA PUNTATA) di GLG

gianfranco

1. E’ nella fantasia popolare che la crisi (economica) prende l’aspetto del crac di borsa e dunque eminentemente finanziario? No, sono i corifei del capitalismo, assai ben pagati, ad attribuire principalmente alla crisi questo suo carattere. Lo fanno in aperta malafede o per ignoranza congenita? Non è detto. I giornalisti e soprattutto gli economisti e i sedicenti esperti, in specie universitari, del ramo economico sono pagati dai membri dei vari gruppi di potere e spesso vi fanno parte (in seconda posizione) per “gentile concessione” dei loro vertici effettivi. Tali gruppi di potere, evidentemente, non sono soltanto quelli appartenenti alla sfera produttiva e finanziaria dell’attività sociale; non vi è tuttavia dubbio che questi ultimi sono fra i più ricchi e ogni evento che intacchi le loro sostanze viene particolarmente drammatizzato e reso il segno distintivo di quella data fase storica mediante l’apporto “retribuito” (non in solo denaro) dei corifei di cui sopra.

La “grande crisi” (o grande depressione) per antonomasia scoppiò dunque, per tutti i libri di storia, nel 1929 poiché, dopo un periodo di prosperità e di tendenziale crescita dei valori azionari e dei titoli in genere negli Usa, il giovedì 24 ottobre si verificò l’improvviso crollo di detti valori, crollo che fu definitivamente confermato, con il reale inizio del panico tra gli investitori (e speculatori) in borsa, il martedì 29 ottobre. La letteratura come il cinema, salvo lodevoli eccezioni, hanno inzuppato il loro pane in quel particolare momento, e hanno diffuso la sensazione di un terremoto che travolse gran parte della società mondiale; in particolare, si sono dilettati a creare l’immagine di grappoli di finanzieri in caduta libera dai grattacieli americani.

L’aspetto duro e tragico della crisi (quello che colpisce soprattutto la popolazione degli strati medio-bassi di reddito) si manifestò tuttavia nel ’31 e ’32, come ho già rilevato in altro scritto; e nel ’33, all’apice della stessa, si ebbe la politica economica e sociale del New Deal con gli effetti segnalati nello scritto appena citato, in cui ho anche svolto le argomentazioni in merito al fatto che la vera crisi, quella dell’economia reale e non tanto della finanza, quando assume caratteri di speciale gravità segnala l’instaurarsi o la permanenza – questo il caso dell’evento di cui stiamo parlando – di una situazione di tipologia policentrica con acutizzazione dei conflitti tra gruppi dominanti che, sul piano globale del sistema capitalistico, diventano scontri e infine guerre tra potenze.

C’è un altro processo rilevante di quegli anni che la storia, scritta prevalentemente dai vincitori, non occulta ma altera nel suo effettivo svolgersi. La Germania fu particolarmente colpita dallo sconquasso iniziato nel ’29, che si innestò su una situazione già compromessa dalla sconfitta nella prima guerra mondiale, seguita dal trattato di Versailles, ecc. (tutte questioni credo note nelle loro linee generali). La crisi dei primi anni venti mise a terra la nazione tedesca. Anche di questa crisi si è posto in risalto l’aspetto che più colpisce la vita comune della gente: l’iperinflazione e poi il tracollo dell’economia di Weimar nel 1927. Il ’29 (e soprattutto gli anni successivi della vera e propria crisi reale mondiale) s’innestò dunque su una situazione già fortemente compromessa, con esiti facilmente immaginabili: disoccupazione alle stelle (fino a sei milioni e passa) e fame nera per molti milioni di persone. Questa la congiuntura in cui si trovò ad operare il nazismo una volta andato al potere nel ’33.

E anche qui si constata la solita superficialità degli storici (quelli economici in testa). Intanto, si stabilisce la sequenza causale: catastrofe economica e ascesa al potere dei nazisti, mentre la spiegazione del processo è assai più complessa. In ogni caso è da rilevare che, una volta al potere, essi assunsero decisioni tali da migliorare notevolmente la situazione in tempi assai brevi, tenuto conto della lunga durata della crisi in Germania (dalla fine della guerra del 1914-18). Tra la primavera del ’33 e il Congresso di Norimberga dell’autunno del ’34, la disoccupazione scese fino ad un milione (alcuni dicono due) e il prodotto nazionale tornò a livelli pre-crisi (pur se non ho sottomano dati statistici). Il successo fu comunque considerevole. Anche in tal caso, la sequenza causale viene spesso semplificata in senso economicistico. Il merito spetterebbe alla decisione nazista di opporsi al cartello di banche internazionali e di riprendere il pieno controllo della moneta nazionale. Nel suo Behemoth Franz Neumann rileva che gli economisti nazisti si rifacevano largamente a tesi sostenute ne Il capitale finanziario del marxista Hilferding, scritto oltre vent’anni prima.

La causa delle cause è tuttavia la presa del potere, frutto di capacità politiche e organizzative unite al concorso di una serie di condizioni nazionali e internazionali con il loro effetto sulla formazione, fra l’altro, di particolari scenari ideologici, in specie di tipo nazionalistico. Da qui seguirono una serie di scelte che andarono ben oltre il controllo della stampa e circolazione della moneta nazionale. Anche coloro che superano il solo lato monetario delle decisioni tedesche in quel frangente tendono a semplificare la questione, adducendo la vocazione bellica espansionistica del nazismo e la conseguente accelerazione impressa allo sviluppo dell’industria delle armi. In realtà, si diede impulso a molte industrie del settore manifatturiero ed energetico. Certamente, tutto ruotava intorno alla crescita della potenza del paese.

Se si prende il potere e se si è intenzionati ad usarlo per finalità nazionali, e non per semplice arricchimento del tipo di quello delle “borghesie compradore” in dati contesti coloniali (o simili a questi), è ovvia la necessità di utilizzare strumenti appropriati, che nell’era moderna risiedono soprattutto in dati settori industriali strategici e non semplicemente nella produzione di armi; giacché questa, da sola, non consente nemmeno il più efficace impiego delle stesse. In ogni caso, la produzione (e quindi i settori della stessa da incentivare e sviluppare) sono strumento del potere e delle sue prefissate finalità, e non invece sua causa. Ancor meno lo è la moneta, strumento di uno strumento (cioè della produzione reale, soprattutto dei settori strategici) in una società dove il sistema – che contorna l’eventuale sottosistema (cruciale) indispensabile al mantenimento e rafforzamento del potere (interno ed estero) – è caratterizzato dalla produzione generalizzata di merci, necessitante del denaro nelle sue varie figurazioni monetarie.

Per studiare le cause del successo (o insuccesso) degli attori nel gioco del potere è perciò necessario porre in primo piano gli scopi perseguiti dagli stessi e il complicato loro atteggiarsi nello svolgerlo mediante opportune sequenze di mosse strategiche (quella che è la politica nel suo significato più proprio). Successivamente, e nell’ambito delle strategie svolte, è allora senz’altro utile considerare gli strumenti impiegati: graduandoli nella loro rilevanza, per cui, ad esempio, nella strumentazione economica è più decisiva quella attinente alla produzione reale (facendo però attenzione ai settori, nevralgici o meno, che vengono specialmente rafforzati) rispetto a quella monetaria. Non va inoltre mai dimenticato il cosiddetto “imponderabile”, quello che alcuni trattano da Destino (o Fatalità) e altri (fra cui il sottoscritto) da Caso, il cui influsso implica un’ipotesi aggiuntiva. Per il gioco del potere, per una sua mirabile rappresentazione mediante la “recita” dei diversi attori nelle sue più svariate contingenze, rette dal Destino e/o dal Caso, è fondamentale la tragedia (greca, Shakespeare, ecc.), insuperabile strumento di conoscenza. La scienza deve fare un ulteriore passo, una “massima astrazione” dalla realtà empirica che viviamo quotidianamente; altrimenti essa scade a più banale “tecnica” delle modalità utilizzate nel gioco in questione. Di questo parlerò tuttavia in altra sede (ne ho comunque già trattato, se chi legge conosce qualcosa dei miei scritti).

Per questo, di molti (non di tutti, certo) sedicenti scienziati della nostra epoca, così modesta, si potrebbe benissimo fare a meno; meglio piuttosto tornare alla rappresentazione artistica della nostra vita, che coglie con precisione (se gli artisti non hanno la stessa inconsistenza di buona parte degli scienziati odierni) gli aspetti drammatici, e meno drammatici, della stessa; e ci può quindi aiutare a comprendere come dobbiamo atteggiarci nel nostro vivere faticoso.

2. Il 15 febbraio Napolitano sarà ricevuto da Obama nella stanza ovale della Casa Bianca, stanza molto “riservata”, cioè utile a colloqui con ampi margini di segretezza. Successivamente, si recherà in Germania a rendere visita alla Merkel e infine riceverà la Regina d’Inghilterra (a mio avviso, è l’incontro meno significativo). Volendo, si possono tenere tutti i colloqui segreti che si vogliono in qualsiasi luogo, come sono sicuro avrà fatto lo stesso Napolitano nel suo primo viaggio negli Usa nel 1978, che si sostenne culturale mentre era il passo finale della prima fase di cambio di campo del Pci, iniziata con moltissima cautela nel 1969 quando divenne vicesegretario Berlinguer, l’eurocomunista, cioè il non più ormai comunista. Ed è da lì che inizia anche la stagione dei cosiddetti “anni di piombo” in Italia con il presunto “terrorismo”, che fu tutto fuorché questo poiché s’inseriva nelle complesse manovre, provenienti pure da est, dove ormai si era capito il gioco degli ex comunisti italiani; e lo si era capito perfino dal loro atteggiamento durante il regime dei colonnelli greci, quando il Pci tenne rapporti con il cosiddetto PC greco dell’interno (circuito pure da alcuni ambienti statunitensi pronti all’eventuale sostituzione del regime militare con uno “democratico”, ma filo-occidentale e filo-Nato) e fu nei fatti “scostante” verso quello dell’esterno, maggioritario, di “fedeltà” filosovietica.

Questa è storia che si rifarà a suo tempo, ma adesso torniamo al nostro “simpatico” personaggio, molto rassomigliante fisicamente a membri di una famiglia piuttosto esiziale per l’Italia (in specie durante la seconda guerra mondiale con culmine nel famoso otto settembre 1943). Egli ha iniziato i suoi più stretti rapporti con gli Usa in quel lontano 1978 (durante la prigionia di Moro, poi finita come sappiamo, e tuttavia ancora oscura nelle motivazioni della sua eliminazione, anche se qualche idea si può nutrire in proposito). Adesso, viene dato il tocco finale a detti rapporti con il ricevimento nella stanza ovale. Non c’è più bisogno di colloqui riservati tenuti segreti; viene invece ufficializzato che quest’uomo è stato il “migliore amico” mai avuto dagli Stati Uniti nel nostro paese e viene ricevuto, appunto ufficialmente, nella stanza dove la riservatezza viene mostrata al mondo e diventa quasi un segno di ringraziamento molto amichevole. Un ringraziamento tutto particolare per i suoi servigi resi da quarant’anni a questa parte e conclusi in bellezza con la contorta liquidazione di Berlusconi da premier e la sua sostituzione con il più grigio esecutore di ordini di nome Monti.

Questo finale pirotecnico del nostro presdelarep andrà meditato a fondo perché potrebbe rappresentare un buon avvio alla spiegazione degli avvenimenti degli ultimi due anni, con il tradimento berlusconiano della Libia, l’allentamento dei suoi rapporti con Mosca (e anche di quelli tra Eni e Gazprom, ad esempio, di cui parleremo altrove) e con la separazione tra un partito filo-Monti ed uno filo-Draghi, entrambi agenti americani in Italia ed in Europa senza che si possa dubitare di questo loro ruolo. E forse si potrà capire meglio l’acredine contro entrambi mostrata da Tremonti, che non rappresenta certo un campione d’indipendenza nazionale rispetto alla predominanza (e prepotenza) statunitense. Dovremo ragionarci con più calma e meditazione d’ora in avanti. Tuttavia, avanzo il sospetto che si siano per troppo tempo considerati gli Usa come un blocco unico.

Ho chiarito più volte teoricamente che, anche all’interno di una formazione particolare (un paese, spesso una nazione), sussiste il conflitto acuto tra gruppi dominanti per la supremazia, conflitto che, nei paesi divenuti potenze, è strettamente intrecciato a quello per assolvere il compito di estensione della propria sfera d’influenza sul piano mondiale, cercando perfino la predominanza globale (instaurazione della situazione di monocentrismo o “imperiale”; da non confondere con l’“imperialismo”, che è il policentrismo). Anche lo Stato (insieme di apparati con varie finalità, sia verso l’interno che l’estero), quale strumento della forza di una potenza, è sede di conflitto tra i vari gruppi dominanti. Nelle subpotenze, e soprattutto nei paesi i cui gruppi di vertice sono dei subdominanti, il conflitto tra questi (e nell’ambito dello Stato in quanto sede e nel contempo sintesi “temporanea” dello stesso) si svolge per conquistare la primazia nel servire una delle potenze o addirittura la potenza che in quella fase storica è la più forte (oggi ancora gli Usa).

Data la situazione, non vi è dubbio, credo, che in detta potenza (prepotente in massimo grado) i gruppi predominanti in lotta siano tutti interessati alla superiorità “imperiale” del paese. Tuttavia, fermo restando tale obiettivo, già da tempo si va notando l’enuclearsi di strategie (o quanto meno di tattiche) differenziate. Ne abbiamo già parlato, indicando in quella più recente una tendenza a creare il caos in varie aree mondiali, in particolare in quella che va da ovest ad est nella zona africana, fino al Medioriente e verso le zone di confine con la Russia nella sua parte meridionale, ecc. Accenno soltanto a possibili motivi della diversità.

Da una parte, constatiamo la presenza di una politica particolarmente aggressiva (e appunto tendente al caos), utilizzando dati sicari (subpotenze europee in specie), che vengono messi in stato di “stress” accentuando i loro contrasti reciproci tesi a conquistare la posizione preminente in un’area comunque sottoposta al totale predominio Usa; insomma una posizione “preminente” di capo-cameriere rispetto al servitorame di pulizia (in specie dei cessi). Dall’altra, mi sembra vi sia maggiore preoccupazione per problemi interni; non solo economici, ma legati alle varie etnie, culture, ecc. che convivono nel “grande paese” non particolarmente unite da sentimenti di partecipazione ad identiche finalità, ma dalla constatazione, pragmatica, che la forza della nazione serve i loro pur diversi interessi.

Da una parte, ci sono in definitiva soprattutto (non dico esclusivamente) i democratici, dall’altra i repubblicani; con indubbiamente, a quanto è dato di constatare, numerosi intrecci e relazioni incrociati fra loro. Da una parte i “progressisti”, che intendono stabilire una sorta di “internazionale” del sistema dei funzionari del capitale, integrando alcune couches dirigenti (ma del tutto subordinate) dei paesi “alleati” (in specie nella Nato, ecc.). Dall’altra i “conservatori”, con tendenza alla propaganda mondiale circa la grandezza dello “spirito americano”, ma preoccupati di mantenere la coesione nazionale o quanto meno una minore disarmonia tra quote di popolazione afferenti ad ambienti economico-sociali di diversa “modernità”. Anche i “conservatori” non si tirano certo indietro nell’esportazione della “democrazia” americana con aggressioni, tuttavia più dirette (tipo Afghanistan e Irak), controllate strettamente dai militari, con l’apporto di altri alleati in posizione nettamente subordinata al loro comando e non come, ad es., i francesi e gli inglesi in Libia, che hanno finto un intervento autonomamente deciso, seguiti poi dalla Nato (e non al completo).

E’ probabile che i fautori della “baraonda” intendano comunque effettuare, in Europa, un migliore controllo “a zona”, di fatto concedendo qualche potere d’intervento a singoli paesi per aree differenti d’attività. Mettiamo, ad esempio, quello militare in paesi africani francofoni affidato al paese che li ebbe come colonie. Quello economico, invece, assegnato al più solido dei paesi europei, la Germania. Magari da qui discende in Italia la formazione – per meglio favorire la politica dei componenti lo schieramento democratico americano più decisi e radicali nel perseguire la nuova strategia – del “partito filo-Monti”, con in testa Napolitano (malgrado qualche sua presunta strigliata indirizzata al “professore tecnico”) e l’appoggio dell’ammucchiata denominata “sinistra”. Potrebbe essere che gli altri, i “conservatori” (più numerosi tra i repubblicani), preferiscano un diverso equilibrio, con la formazione di due centri di controllo: uno per la zona europea nord ed uno per la zona sud. Simile orientamento ha forse consentito la meno stringente obbedienza della politica estera italiana (soprattutto berlusconiana) tra il 2003 e il 2008-9, grosso modo il periodo in cui si è ottenuto qualche nostro vantaggio in dati ambiti (nei confronti della Libia o con l’accordo tra Eni e Gazprom per il Southstream, ecc.); politica entrata in crisi, all’inizio in modo ancora poco visibile, già verso la fine del 2009 con accentuazione dopo il noto 14 dicembre del 2010 e il crollo totale nel 2011 fino alla sostituzione, verso fine anno (novembre), di Berlusconi con Monti.

Tale politica, pur ormai in esaurimento, è magari egualmente sfruttata in tono minore, e probabilmente con finalità di accentuazione del disordine in Europa, da una parte dei gruppi strategici americani “progressisti”; ed è in quest’ambito che viene lasciata a Draghi una qualche discrezionalità di contestazione della politica europea perseguita dalla Germania. Quest’individuo, nettamente legato ad ambienti statunitensi, non volge certo il timone verso una rotta molto diversa, ma ammorbidisce i diktat tedeschi, e ha fornito qualche palliativo alle economie del sud Europa (Italia, Spagna, perfino Grecia), che la politica della Merkel tende a vessare ben di più nella sua volontà di divenire capo-cameriere degli Usa. Il debole centro-destra – e lo stesso Berlusconi, dimostratosi ampiamente incapace di assurgere al ruolo di statista – si aggrappa a questa blanda “dialettica” Draghi-Monti, tutto sommato interna alla strategia degli attuali gruppi (pre)dominanti statunitensi.

Tuttavia, direi di seguire con particolare solerzia quanto andrà sviluppandosi dopo le elezioni politiche in Italia e la nomina del nuovo presdelarep. Resterei inoltre attento a certe differenziazioni esistenti negli Stati Uniti, da non trattare sempre come un blocco monolitico, salvo tenere nel debito conto l’interesse di tutti i suoi vertici allo svolgimento di una politica “imperiale”. E sono convinto che in Italia lo schieramento detto di centro-sinistra (e “progressista”) è il principale affossatore del nostro paese. Il suo nucleo centrale (il meno disorganizzato ed evanescente) è rappresentato da coloro che di fatto abbandonarono l’orientamento comunista (non era tale, ma questo non rileva nel presente contesto), cioè da coloro che compirono la “transumanza” dal “campo socialista” (non lo era affatto, ma anche questo non ci interessa qui) a quello centrato sul più (pre)potente paese del mondo, gli Stati Uniti.

I piciisti, come già detto, iniziarono il mutamento di gabbana a partire dal 1969 (anno della vicesegreteria a Berlinguer, l’“inventore” dell’eurocomunismo, cioè del cambio di alleanze internazionali, pur mascherato fino al crollo dell’Urss), approfittando di una serie di giravolte e trame segrete durante il regime dei colonnelli greci (su cui non avanzerò adesso ipotesi) e, ancor più, approfittando di altri rimescolamenti torbidi e segreti durante e dopo l’organizzazione (americana) del colpo di Stato in Cile dell’11 settembre 1973. Vi fu infine il ben noto viaggio del 1978 negli Usa di Napolitano (nel mentre Moro veniva fatto prigioniero e poi eliminato per motivi che lascerò ancora una volta inevasi), il personaggio che il 15 febbraio concluderà brillantemente il suo iter di “amico e alleato” degli Stati Uniti (quelli democratici) nella stanza ovale della Casa Bianca.

Di fronte a tali mene dei “progressisti” (americani e italiani) – che stanno conducendo l’Italia al più degradante servilismo della sua storia, quel tipo di servilismo che fu evitato nel 1946 facendo vincere la Repubblica (si tenga presente che gli statunitensi erano favorevoli a tale esito mentre gli inglesi preferivano la Monarchia) – stanno il “coniglio” (sappiamo chi è) ed un centro-destra di grande meschinità e rozzezza politica. Non voglio adesso proseguire. Mi sembra che quanto detto basti al momento. Tuttavia, siamo ad un tornante abbastanza cruciale, magari proprio come quello del 2 giugno 1946, in un contesto del tutto diverso e senza più l’esistenza dell’Urss, in campo internazionale, e del Pci di allora in quello nazionale. Siamo circondati da coloro che stanno ormai distruggendo ogni minima autonomia nazionale. I più pericolosi – perché traditori degli interessi nazionali senza il benché minimo freno e remora – sono i “democratici”, i “progressisti”, ma gli altri non rappresentano un’effettiva alternativa; sono pur sempre delle bestiole addomesticate e tenute al guinzaglio dagli Usa. Situazione pessima, la peggiore presentatasi in Italia dalla sua Unità.