CAPITALISMO, DENARO, FINANZA, CRISI E GEOPOLITICA

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Che cos’è il denaro?  Cosa sono i suoi duplicati finanziari? In quale contesto di vincoli di forza (sociali) si collocano le crisi sistemiche ed economiche passate e presenti ?

In periodi di scandali bancari, e di tasche vuote per la maggior parte di noi, sarebbe opportuno decifrare meglio le funzioni  del denaro (laddove si blatera troppo di neo-mercatismo o di irreversibilità del capitalismo finanziarizzato) e la sua “natura” (variabile nelle epoche storiche), soprattutto, perché gli economisti  accreditati dal potere non hanno mai smesso il vizio di associare le leggi di una specifica formazione sociale, quella capitalistica, a tutte le generazioni dell’umanità, in maniera indifferenziata, facendole discendere dalla notte dei tempi; tanto che in loro resiste ancora il mito fondativo di Robinson, il naufrago finito sull’isola deserta, il quale riorganizza la sua esistenza selvaggia nella stessa maniera in cui gestiva la sua quotidianità nel mondo civilizzato.

Secondo l’economica diffusa, questa trasposizione romanzesca dovrebbe spiegare la spontaneità della mentalità mercantile degli individui  che si riforma da sé in ogni circostanza, mentre, in realtà, certifica esclusivamente i suoi pregiudizi ideologici circa l’interpretazione dei fatti collettivi.

La robinsonata, come l’avrebbe chiamata Marx, sta in questo: il personaggio di Defoe non  trova la razionalità strumentale e l’indirizzo logico che guiderà la sua attività,  in quel luogo sconosciuto, già pronta sugli alberi ma la ricava dai suoi savoir-faire precedenti, acquisiti dal contesto  di provenienza.

Se il Robinson, anziché ai primi del 1700, fosse stato scritto in arco medievale, avremmo visto operare ben altra scala di iniziative e di condotte da parte del superstite, non di sicuro la visione del borghese del XVIII secolo; quantunque si debba ammettere che gli esseri umani abbiano repentinamente imparato a calcolare costi e benefici dei loro atti per sopravvivere in un ambiente costantemente ostile.

Ancor peggio, immaginate che Robinson fosse andato alla deriva con la sua imbarcazione, non in età adulta ma in fasce, in un viaggio compiuto con i suoi genitori. Qualora si fosse miracolosamente salvato e, poi, casualmente raccolto ed allevato da un gruppo di primati, piuttosto che il discendente di un mercante tedesco  trapiantato ad Agua Buena, avremmo avuto a che fare con Tarzan delle scimmie, un vero animale guidato dal codice della giungla.

L’intelligenza di Tarzan, il quale resta, comunque, un rappresentante della razza Sapiens-Sapiens, lo porterà a primeggiare sul branco (intuisce come usare usare un coltello trovato nella capanna del padre) ma i suoi processi di evoluzione rimarranno lentissimi e difficoltosi, limitatamente a quel che gli occorre per farsi rispettare dalle bestie.

Torniamo ora alle nostre domande iniziali e alle medesime alchimie escogitate dagli economisti per spacciare come eterni concetti e categorie che sono sociali e non sovrapponibili  nelle diverse ère (di imperituro c’è solo l’euro che vivrà quanto la faccia tosta di Monti e Draghi).

Mi è capitato, quando ero studente, di trovare sui manuali universitari frasi come questa “considerata la naturale capacità del denaro di autovalorizzarsi…”. Naturale? Un corno! Il denaro diventa quello che è anche adesso, cioè mezzo di accumulazione di valore e misura del valore (delle merci), mezzo di pagamento, mezzo di circolazione e di scambio dei prodotti,  quando quest’ultimi assumono la forma di merci nella loro generalità, ossia quando sorge il lavoro salariato (venduto come qualsiasi altra merce dai suoi portatori ai detentori dei mezzi produttivi, i quali avevano spossessato dei saperi e delle attrezzature gli artigiani e le corporazioni)  e i beni vengono creati direttamente per essere venduti a terzi. Antecedentemente, nelle società pre-industriali, le cose stavano in maniera differente e, nonostante il denaro esistesse, svolgeva compiti interstiziali e residuali.

Se prendiamo come riferimento l’alto medio-evo, andando alle radici dell’economia europea, benché le monete circolassero , anche nelle contrade più amene, non avevano l’importanza corrente. I sovrani ne facevano coniare di bellissime, in lega pregiata, per magnificenza più che utilità. Inoltre, non era tanto il valore nominale che le faceva accettare ma il peso e la materia. Insomma, in quest’epoca e in altre successive, fino all’avvento della modernità, come scrive Duby, i fenomeni monetari erano meno attinenti alla storia economica che alla storia delle culture e delle strutture politiche.

Sarà, pertanto, unicamente con l’affermarsi del sistema capitalistico, storicamente rinveniente da peculiari connessioni sociali, che il denaro, in quanto Capitale, acquisterà la “capacità di autovalorizzarsi”.

La società capitalistica – in cui tutti gli uomini sono liberi da condizioni di schiavitù o servaggio – si presenta come un grande aggregato di individui che riproducono la loro vita associata, cioè i rapporti che li legano reciprocamente, mediante produzione di beni caratterizzata dalla seguente modalità: ognuno produce beni per altri e gli altri li producono per lui. Ognuno si specializza dunque nella produzione di un dato bene, aumentando perciò l’efficienza produttiva dello stesso; poiché tutti si comportano così, nel complesso si ha un vertiginoso aumento della produzione – dunque della ricchezza, che è una somma di valori d’uso – dell’insieme societario. Questo enorme interscambio – che richiede appunto l’uso del mezzo universale di scambio, il denaro nelle sue varie figure monetarie – è colto dai sensi nel suo aspetto più superficiale, che denota la conquista dei diritti personali (di un individuo libero, né servo né schiavo, ecc.) da parte di tutti i membri della società; ognuno ha da scambiare qualcosa di utile per altri. E ognuno è libero sia di migliorare il bene prodotto per la vendita, sia di aumentarne la produzione, al fine di accrescerne la valutazione complessiva – da parte degli altri – e di potersi dunque procacciare da questi ultimi quantità superiori dei beni da essi prodotti e a lui venduti”. (La Grassa).

Dunque, in questa architettura di legami sociali, perché il Capitale è, in primo luogo, un rapporto sociale, la forma dominante di merce dei prodotti implica l’uso generalizzato del denaro e la sua duplicazione (i suoi derivati immateriali), che contribuisce a far emergere un settore specializzato, quello appunto finanziario, dove il denaro compie il “miracolo” di moltiplicarsi da se stesso. Le crisi che si verificano, a fasi  alterne, soprattutto a livello mondiale, dipendono da uno squilibrio dei concatenamenti sociali e di forza, tra formazioni (paesi), o aree di paesi (nonchè al loro interno), in quanto questi sono coinvolti in una rete di relazioni mondiali, di tipo politico (la potenza) ed, in subordine, economico (commerci).

Anche se al primo manifestarsi la crisi si mette in scena col precipitare del business in borsa, con l’arrembaggio speculativo, con i fallimenti bancari, fino al, vero e proprio, blocco dei circuiti mercantili dello scambio, non è in questi elementi che si deve riconoscere la concreta causa della débâcle.  Non è l’immoralità dei brokers e quella di spietati faccendieri  a generare il caos, e non è con il ripristino della morigeratezza negli affari che si può ricostituire un clima di migliore prosperità e collaborazione.

Dobbiamo smentire l’attuale vulgata, così di moda negli ambienti economici ed accademici, secondo la quale siamo  entrati in piena fase di finanziarizzazione del capitalismo che per alcuni, i critici, rappresenta uno stadio di degenerazione ultima del sistema, per altri, i restauratori, una momentanea fuoriuscita dal solco della normalità.

La crisi indica, quando prolungata ed intesa, la trasformazione degli assetti sociali internazionali, con la riconfigurazione dei centri di sprigionamento della potenza e la costituzione di nuovi punti di snodo geopolitico, lungo tutta l’impalcatura mondiale (multipolarismo). La crisi è destinata a sfociare in molti conflitti, di modulazione diversa (non soltanto ed esclusivamente militare), finché i giocatori in campo non si saranno stabilizzati in poli di concorrenza e conflittualità, tanto manifesta che “retroscenica”, rivolti alla conquista della maggiore preminenza possibile sullo scacchiere planetario (policentrismo). Successivamente a siffatto ulteriore gradino, si dovrebbe pervenire, in tempi mai preventivabili a priori, ad una nuova stagione monocentrica, generalmente meno precaria (si pensi al predominio inglese nell’ottocento e a quello, in coabitazione, nel novecento di USA ed Urss). Quindi, siamo solo al principio di eventi devastanti che cambieranno la morfologia e la sostanza del panorama storico-politico del prossimo  futuro.

La ripresa nel 2013, particolarmente per uno Stato fatiscente ed in decadenza come quello italiano, è la favola raccontata ai bambini da saccenti analisti e politici, spesso in malafede o attenti a che il popolo non apra mai gli occhi.