CHE VOTATE A FARE? Di G.P.

Che il referendum sul welfare sarebbe stato solo una formalità, una passiva asseverazione di quanto già deciso da governo e sindacati, nessuno lo dubitava. Che si sarebbe arrivati anche alla “sofisticazione” del voto poteva, invece, apparire meno scontato, anche se qualcuno aveva paventato tale possibilità, tanto che una parte della sinistra “di lotta e di governo” si era già messa sul chi vive. Il là alla contestazione è stato dato ieri da Marco Rizzo del PCDI con una dichiarazione al fulmicotone che ha denunciato manovre poco chiare intorno alla consultazione dei lavoratori sul protocollo del welfare, alle quali non sarebbero estranei i vertici sindacali. Qualora la cosa fosse vera, e personalmente credo che i termini della questione, così come posti da Rizzo, non siano affatto peregrini*, sarebbe solo l’ennesima testimonianza del ruolo giocato dal sindacato nelle relazioni sociali, industriali e nell’approntamento della politica economica in Italia, soprattutto allorchè sulle “cadreghe” di palazzo Chigi stridono i culi mastodontici di governatori cosiddetti amici.
Ma fare due conti, in questi casi, non guasta mai anche perché serve a capire dove eventuali rapporti di forza sfavorevoli possono essere raddrizzati. I sindacati stanno perdendo la rappresentanza nei settori industriali, in seguito alla sigla di scriteriati accordi che hanno frantumato le prerogative conquistate dai lavoratori dopo decenni di dure lotte; la CGIL, in particolare subisce, e non da ora, una grave emorragia di adesioni, tanto che deve cedere il passo alle altre due “sorelle” confederali e alle varie sigle autonome (in termini relativi, sintende, perché in termini assoluti tutti i sindacati sono in calo di adesioni) anche nei settori metalmeccanici, con una tendenza al declino che appare irrefrenabile (in proposito vedere il Successo della Uilm nelle elezioni per il rinnovo delle Rsu allo stabilimento Sata-Fiat di Melfi. Qui  la maggior perdita di consensi rispetto ai risultati della precedente consultazione l’ha fatta registrare la Fiom, -7%). Quindi diciamo che era abbastanza scontato, in un clima di diffidenza generalizzata da parte dei lavoratori, che il quesito referendario sulla proposta di accordo con il governo, voluta da questi sindacati profondamente “ingialliti”, incontrasse il massimo sfavore nei luoghi di lavoro. Ma i sindacati pur essendo ormai avulsi alle dinamiche industriali – più interessati ad ottenere concessioni per i propri apparati collegandole, di volta in volta, ad interessi corporativi da tutelare a livello aziendale- possono contare sul controllo di pensionati e di spezzoni del pubblico impiego. In pratica, i Sindacati Confederali, hanno scelto per sé un ruolo molto più redditizio adottando il modello americano, importato in Italia dalla Cisl, per la tutela degli interessi corporativi ma facendo la propria parte nell’elaborazione complessiva della politica economica del paese. Per questo Epifani lega la vittoria del "Si" al referendum alla sorte del governo di centro-sinistra, preoccupandosi di questioni che non dovrebbero riguardarlo affatto. (A proposito, se voi foste lavoratori sottopagati e costretti ai lavori più usuranti vi fareste rappresentare da queste gente senza un minimo di empatia economica con la vostra situazione? Guglielmo Epifani della CGIL guadagna 3.500 euro netti al mese, i 12 segretari confederali circa 2.400 euro. Raffaele Bonanni della Cisl 3.430 euro netti al mese. Luigi Angeletti della Uil 3.300 euro netti al mese, mentre i dieci segretari confederali 2.850 per quelli di via Po, 2.900 quelli di via Lucullo).
Però a condannare l’attacco di Rizzo ci ha pensato l’ineffabile SubComandante Bertinotti, il quale udite udite, ha dato sfoggio, per l’ennesima volta, di buon senso democratico appreso a livello istituzionale: «il referendum è un esercizio di democrazia straordinario. Possono esserci dei nei, ma trovo fuorviante discutere di brogli(…)Il referendum è un’operazione impegnativa e complessa fondata sulla autodisciplina. Non c’è un’autorità che vigila, come ad esempio il Viminale nelle ordinarie consultazioni elettorali». Di fronte ad una dichiarazione di questo genere rispunta prepotente la frase di Marx citata nell’articolo (apparso oggi sul blog) a firma di A. Berlendis “è abbagliato dalla magnificenza della grande borghesia e simpatizza con le miserie del popolo. Interiormente si lusinga di essere imparziale e di aver trovato il giusto equilibrio, che—egli pretende—è qualcosa di diverso dalla mediocrità. Un piccolo borghese di questo tipo divinizza la contraddizione, perché la contraddizione è la base della sua esistenza. Egli stesso non è altroché una contraddizione sociale in atto. Egli deve giustificare in teoria ciò che è in pratica….”.
Ed ecco definito, come meglio non si poteva, quello che si può stigmatizzare con il nomignolo di “comunistardo”, uno che si convince delle proprie menzogne perché il praticarle ordinariamente gli ha fatto guadagnare un bel po’ di fama e di ricchezza. Così il “comunistardo” imbastardisce la teoria “rivoluzionaria”, in ossequio ad una “pratica” quotidiana che è tipica del “borghese” illuminato, quello che scambia il materialismo storico con la filantropia.
Bertinotti, se fosse un comunista vero, partirebbe da ben altri presupposti prima di lanciare le sue lezioni diplomatiche e democratiche. Un comunista realmente tale non potrebbe fare a meno di constatare che i sindacati confederali sono apparati pienamente inseriti nella gestione del potere, sono cinghie di trasmissione che funzionano come selzer, con l’obiettivo primario di far digerire ai lavoratori accordi peggiorativi ma tutelando i propri apparatnik. E No! Perchè Lui in tutto questo ci vede solo dei “nei” che non inficiano la proceduralità democratica. Allora, democrazia per democrazia, non sarebbe stato più giusto far decidere ex ante ai lavoratori su un’ipotesi di accordo da sottoporre, in seconda battuta, al governo e poi ritornare ai lavoratori per la ratifica o la ripulsa del testo eventualmente modificato? Questa sarebbe una forma di democrazia “alta” che Bertinotti non può contemplare nel suo vacuo frasario di uomo delle istituzioni.
Con questo accordo nequizioso s’iscrive, invece, un epitaffio definitivo sulla possibilità di dare nuova dignità al lavoro, la legge Biagi diverrà la bibbia con la quale si continuerà a smembrare il mondo del lavoro spalancando alle future generazioni il baratro di una precarietà inarrestabile, sia per  qualità delle prestazioni che per trattamenti economici.
*Ho votato due volte, è stato facile" Fonte “Il Giornale”
di Gianandrea Zagato
Milano – Che al referendum sul welfare si potesse votare non una ma due e, perché no, anche tre volte era solo un solo un sospetto. Adesso, abbiamo la certezza, con tanto di fotografia. Scatti di un broglio avvenuto nel seggio che Cgil-Cisl-Uil hanno impiantato a due passi da piazza San Babila e che ha avuto replay alla Camera del lavoro.
Due crocette sul pacchetto Damiano che si sommano ai 150mila voti – dato della Triplice – raccolti a Milano e Provincia nella giornata di ieri. Centocinquantamila preferenze che, naturalmente, non conteggiano i voti espressi da «una signora, casualmente seguita dalla troupe televisiva di Annozero»: simulazione di un broglio scoperto e denunciato dai confederali che vagheggiano di «tentativo di inquinamento di una straordinaria prova di democrazia sindacale» e di «attacco all’autonomia e al potere contrattuale del sindacato».
Sindacalese che, sua fortuna, Manuela non pratica. Chi è Manuela? Be’, è la venticinquenne impiegata di un’azienda tipografica che nel pomeriggio di ieri ha votato due volte (vedi foto a fianco, ndr) sotto l’occhio attento del vostro cronista e sempre presentando la propria busta paga. Busta paga leggera, «neanche ottocento euro», e sempre, anche se non richiesto, un documento d’identità.
Al primo voto, quello in piazza San Carlo, Manuela è tirata o quasi per la giacchetta. «Dài, compagna, dì la tua sul welfare» e lei – jeans, giubbetto militare e coda di cavallo – non se lo fa ripetere due volte. Documenti alla mano e, oplà, ottiene una scheda di votazione già siglata dalla commissione sindacale. Foglietto che invita a sciogliere tutti i dubbi: «favorevole» o «contrario» sull’«Accordo sottoscritto il 23 luglio 2007 tra Cgil Cisl Uil e governo su previdenza, lavoro e competitività per l’equità e la crescita sostenibile». La risposta di Manuela? «Non mi ricordo che cosa ho votato».
Va be’, anche senza conoscere il voto di Manuela il risultato comunque non cambia. Almeno così sostengono i pasdaran confederali: il referendum, dicono, l’organizzano loro e sempre loro danno il responso del test che incide sull’agenda politica del governo Prodi. Sarà, anche se nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro si respira un’altra aria: gli eredi delle tute blu non la pensano né come Guglielmo Epifani né come i suoi colonnelli milanesi.
Dettagli senza alcuna importanza per Manuela che, attenzione, a votare ci ha preso gusto. E mentre da piazza San Carlo avvertono i dirigenti sindacali che «una troupe tv guasta la festa» – è la troupe di Annozero che in serata sarà denunciata dai sindacati milanesi – Manuela se la fa a piedi sino al seggio pubblico più vicino. Quando mancano dieci minuti alle diciassette entra al civico 43 di corso Porta Vittoria, sede della Camera del lavoro. Sì, nel cuore pulsante del sindacalismo ambrosiano, dove in due minuti scarsi presenta la busta paga, ottiene la scheda e appone un’altra crocetta. Ah, stavolta, Manuela spiega di «aver già votato» ma la bionda scrutatrice intenta a far chiacchiera con la collega di seggio non sembra dar pesa alla notizia. Evvai, un’altra prova provata (vedi foto a fianco, ndr) che questo referendum è falso, che il voto si può truccare e senza troppi problemi.
Giochetto da ragazzi che potrebbe proseguire ancora in qualche sede dello Spi-Cgil, magari al Gratosoglio ma Manuela si è già stancata: per lei, generazione low cost, è solo tempo perso. Quello che non è, invece, per alcuni dirigenti milanesi dei Comunisti italiani che inondano il telefonino di sms con nomi e cognomi di pensionati disposti a dare il voto «ics» volte.
Anche questo un giochetto facile facile, confida un sindacalista di peso in cambio dell’anonimato: «Si sa il pensionato ha tempo, tanto tempo a disposizione e in qualche sezione sindacale di periferia dà un voto dietro l’altro». L’ultima raffica per chi è fuori dal mondo del lavoro e non s’accorge (o finge) del mal di pancia che quotidianamente esplode nei magazzini, nelle mense operaie e davanti alle macchine utensili. Malessere di un generazione che al «sì» imposto da Epifani and company risponde truccando il referendum, «tanto fanno quello che vogliono».