CHI SONO I NEMICI DEL POPOLO?

 

 

Ferrero, nelle agenzie stampa, e Diliberto, dal palco della festa del PD a Pesaro, hanno parlato chiaro. La Federazione della Sinistra sta inseguendo il progetto di un’alleanza col PD, con l’Italia dei Valori e con quel Sinistra e Libertà, sbeffeggiato proprio da gran parte della base di Rifondazione per oltre due anni dopo gli screzi congressuali tra Ferrero e Vendola ai tempi della comune militanza sotto le macerie lasciate dal caudillo della classe operaia delle Bahamas, Fausto Bertinotti.

La priorità è “mandare a casa Berlusconi”. Sembra assurdo, ma dopo quanto accaduto negli ultimi due anni, questi partiti ormai microscopici rispetto ai consensi di un tempo, continuano a chiudere gli occhi dinnanzi alla realtà. Non si capisce dove finisca l’incapacità di analisi e dove cominci l’ottusità nell’ostinata opera di deviazione rispetto ai temi centrali della società, cioè quelli che derivano in modo più diretto e immediato dalle principali dinamiche economiche, strategiche e politiche dei cosiddetti sistemi-Paese.

Le vergognose e pavide posizioni tenute in merito alla guerra in Libia – una guerra che vede l’Italia tutt’ora partecipe e coinvolta nel quadro di quella che si è ormai pienamente configurata come una vera e propria aggressione neo-coloniale da parte della Nato – hanno messo in luce tutta la pochezza programmatica e strategica di questo ambiente, che – in piena sintonia con sé stesso e con le sue radici “berlingueriane” ed “ingraiane” – continua a svolgere una ridicola funzione di catalizzatore in versione radicale della falsa dicotomia destra-sinistra, imposta mediaticamente in Italia dalla dittatura del linguaggio affermatasi negli anni Novanta, grazie tanto a Berlusconi quanto ai suoi avversari. Si è infatti mascherato un confronto in verità ben più profondo e avulso dalle mere contrapposizioni ideologiche (ossia la “nuova contrapposizione” nata a seguito del colpo di mano tentato, con relativo successo, dai centri strategici del capitalismo straniero durante Tangentopoli), con termini e definizioni degni della Brescello tratteggiata dal Guareschi.

È così che Berlusconi ha potuto bellamente continuare ad utilizzare il nome “comunisti” per riferirsi in realtà ad una banda di rinnegati o politicanti di professione, slittati progressivamente dalla tendenza (quasi esclusivamente opportunista) verso un campo (Urss) alla piena militanza sotto l’ombrello dell’altro campo (Usa): uno slittamento ormai evidentissimo dalle posizioni internazionali che oggi caratterizzano il Partito Democratico, a cominciare dalla questione libica (condanna della Jamairyha di Gheddafi e sostegno ai “ribelli” filo-monarchici e pro-Nato) e da quella siriana (condanna di Assad e sostegno alle “rivolte”, in gran parte aizzate da estremisti salafiti), per arrivare alle battaglie filo-tibetane, alla raccolta di firme per il terrorista Liu Xiaobo o alle campagne di solidarietà con la nicchia giornalistica sionista infiltrata in Russia per favorire la destabilizzazione del Paese e un progressivo inglobamento di Mosca nell’orbita occidentale.

La questione internazionale è fondamentale, perché – come asserirono Lenin e Stalin in merito alla questione nazionale – “il movimento nazionale dei paesi oppressi si deve considerare non dal punto di vista della democrazia formale, ma dal punto di vista dei risultati effettivi nel bilancio generale della lotta contro l’imperialismo, cioè «non isolatamente, ma su scala mondiale»”. Invece il culto para-religioso (sebbene laicista) dei cosiddetti diritti umani e l’ipocrita utilizzo propagandistico e mediatico delle libertà individuali – autentici pilastri di quella che potremmo inquadrare come la democrazia formale dei giorni nostri – hanno divorato qualunque senso critico e qualunque, pur residuale, capacità di analisi.

Toni Negri e Marco Revelli hanno ottenebrato, sul piano analitico e teorico, intere generazioni, cresciute ormai con la fissazione quasi messianica delle “moltitudini”, delle masse in rivolta, degli oppressi che insorgono e della ridicola ancorché fantomatica idea di “democrazia dal basso”: parole d’ordine astratte, insulse e prive di significato, che non hanno avuto bisogno di molto tempo per incontrarsi e combaciare quasi alla perfezione con i progetti imperialisti “morbidi” (o soft-power, se si vuole) del cosiddetto “filantropo” e magnate George Soros e del teorico Gene Sharp, veri factotum delle rivoluzioni colorate che negli ultimi undici anni hanno enormemente contribuito all’espansionismo della sfera d’influenza statunitense nei Balcani (Serbia), nell’ex territorio sovietico (Georgia, Ucraina e Kirghizistan, con tentativi analoghi in Bielorussia e in Azerbaigian) e in Medio Oriente.

La guerra in Libia ha inoltre coinvolto in modo particolare il nostro Paese, dimostrando per l’ennesima volta il grado di subalternità e sottomissione politica, economica e militare di cui è vittima, nel quadro di un’alleanza opprimente ed illecitamente schiacciata dall’unilateralismo statunitense, com’è quella della Nato. Berlusconi, paradossalmente, negli ultimi due anni ha rappresentato posizioni di parziale e relativa autonomia, che stavano consentendo al nostro Paese una diversificazione strategica capace di tornare a proiettare – pur con tutte le difficoltà della contingenza – la trama cooperativa di Roma verso il Mediterraneo e verso la Russia.

Oltre alla situazione di oggettivo imbarazzo per le vicende emerse dalle inchieste in merito alle escort, apparve subito evidente la connessione tra le mosse del governo in politica estera e l’accanimento mediatico operato dal gruppo editoriale di De Benedetti (Repubblica e L’Espresso in primis) e dall’opposizione parlamentare per cercare di distruggere una politica estera sempre denunciata come “sbagliata” dal PD, dall’IdV e da SeL, ben prima dello scoppio delle rivolte arabe.

Questi sconvolgimenti – chiaramente artefatti o amplificati dalla propaganda occidentale – hanno poi innescato un clima trionfale nelle opposizioni, che addirittura rimproverarono inizialmente a Berlusconi di temporeggiare dinnanzi alle pressanti richieste della Nato ad intervenire militarmente. La decisione di Berlusconi ha riportato l’Italia in una condizione di completa sudditanza, esattamente come era stato sino a due anni fa. Tuttavia, la questione libica, ha un significato molto più importante delle passate diatribe e ancor più rilevante: l’Italia ha dovuto rinunciare alle sue privilegiate attività di cooperazione con la Libia, stracciare un Trattato di Amicizia e violarlo senza esitazione, andando a muovere guerra contro un ex alleato, fondamentale nell’ambito dell’approvvigionamento energetico, proprio in un momento drammatico, contrassegnato dalla gravissima crisi economica internazionale, dalla folle e pregiudizievole rinuncia all’opzione dell’energia nucleare e dalla richiesta della BCE di anticipare il pareggio di bilancio al 2013.

Chiunque spinga per un governo tecnico o di “larghe intese” in un frangente del genere, forse ha dimenticato completamente cosa accadde nel 1992-1993, quando – nell’immediato post-Tangentopoli – il Quantum Fund di Geroge Soros distrusse lo SME e mise in ginocchio la Lira, mentre il governo Ciampi avviò tutte quelle dismissioni e svendite di numerose aziende statali o a partecipazione “pubblica”, che erano state pianificate e stabilite a bordo di un panfilo attraccato al largo di Civitavecchia, il “famoso” Britannia.

Forse lo dimenticano. O almeno spero. Perché se questi personaggi dovessero ricordarselo, ed agissero ugualmente in questa direzione, all’incapacità di analisi si aggiungerebbe la complicità connivente in un’opera di svendita controllata del nostro Paese, a tutto vantaggio non di fantomatiche “oligarchie invisibili” dell’“alta finanza” (argomenti inconsistenti all’interno dei quali le destre alternative e le sinistre radicali amano tanto crogiolarsi), ma dei centri strategici imperialisti della potenza dominante – gli Stati Uniti – e dei suoi odierni principali alleati: Francia e Gran Bretagna.

Solo l’aiuto cinese – a questo punto – potrebbe garantire all’Italia un ultimo margine di diversificazione nella sfera di cooperazione internazionale, e va senz’altro a merito di Tremonti il fatto di avere contattato il fondo sovrano di Pechino per un aiuto economico, che – come prevedibile – potrebbe costituire il volano (sotto forma finanziaria) di una serie di interscambi che andrebbero a coinvolgere l’economia reale, dalle infrastrutture alle materie prime. È facile ipotizzare che quest’ultima spallata Berlusconi possa subirla proprio per questo. Del resto, dai tifosi di “sinistra” del “povero” Liu Xiaobo e del Dalai Lama non possiamo certo attenderci simpatia per la Cina.