CONVERGENZE PARALLELE NELLO SCENARIO SIRIANO

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Secondo fonti del Pentagono la Cia avrebbe addestrato miliziani in Iraq per combattere al fianco di Assad. Si tratta di milizie sciite operative a sud di Aleppo, città martire della guerra contro il Califfato. Alcuni di questi battaglioni, adeguatamente equipaggiati , presidierebbero i dintorni Damasco. Altre divisioni di tali forze sarebbero persino inquadrate nelle forze regolari iraniane.
Dunque, mentre il Dipartimento della difesa americano puntava le sue fiche sui sedicenti ribelli moderati sunniti, acerrimamente antiregime e difficilmente distinguibili dai tagliagole di al Qaeda e dell’Isis, l’Intelligence statunitense percorreva una strada diametralmente opposta, quella della collaborazione con gli sciiti e i loro sostenitori.
E’ difficile venire a capo di simili contraddizioni nelle geometrie strategiche statunitensi eppure una logica che tiene insieme queste decisioni, apparentemente agli antipodi, esiste. Gli yankee sono soliti disegnare scenari variegati per raggiungere i propri intendimenti, lasciandosi numerose porte aperte nell’eventualità di mutamenti della situazione, senza perdere mai di vista i target della loro sicurezza (e supremazia) nazionale.
Nel caso in questione, è probabile che la scelta di Washington di tenere il piede in due staffe derivi dalla volontà di non essere trascinata dall’aggressività dei suoi alleati nel “Golfo allargato”, i quali si contendono la leadership regionale con colpi bassi e poca coordinazione. Parliamo di Turchia, Arabia Saudita e Qatar in particolare (ma anche Israele). Dall’altra parte della barricata c’è l’Iran, con il quale però Obama ha recentemente stretto uno storico accordo sul nucleare che sta riannodando i fili diplomatici ma anche quelli commerciali, rompendo l’isolamento di Teheran che durava da anni.
E’ chiaro che gli Usa puntano ad un equilibrio tra i contendenti del quale essere ago della bilancia. Così possono disimpegnare risorse e condividere i rischi, anche con i diretti competitori internazionali dei suoi “possedimenti egemonici”. Per raggiungere lo scopo stanno coinvolgendo la Russia nei loro piani. Come scrive Caracciolo su Limes: “Mosca cerca di riannodare nel Vicino Oriente i fili del dialogo con gli Stati Uniti strappati dalla crisi ucraina e di salvarvi i residui d’influenza ereditati dall’Urss, compresa la base siriana di Ṭarṭūs, suo unico sbocco sul Mediterraneo. Vista dal Cremlino, la frontiera settentrionale del Golfo allargato, dal Mar di Levante al Caspio, deve stabilizzarsi per fungere da porta tagliafuoco destinata a spegnere le scintille jihadiste generate in Mesopotamia prima che infiammino il Caucaso. Speciale cura è rivolta alla Siria, dove Putin ha voce in capitolo almeno fin quando qualsiasi compromesso sul futuro di Damasco dovrà vertere sul suo protetto Baššar al-Asad – o meglio su come gestirne la successione garantendone il vasto clan. In questo senso, un’azione parallela russo-americana è già in corso”. Ipotesi confermata anche dalla rivista Stratfor vicina ai servizi statunitensi che per bocca di G. Friedman afferma che: “I russi sono intervenuti in Siria perché volevano compiacere gli americani. Questi in realtà non vogliono sbarazzarsi di Assad e non vogliono realmente eliminarlo. Pertanto, il fatto che la Russia lo protegga, rende impossibile all’ ISIS di muoversi verso Damasco. Sulla base di ciò, i russi pensano a di uno scambio di favori con gli Stati Uniti”.
Evidentemente, nella nuova visione geopolitica statunitense il Vicino-Oriente resta zona nevralgica ma non area strategica, in cui disperdere più energie del dovuto per i destini del XXI secolo. La vera diatriba è in Eurasia dove russi e americani difficilmente arriveranno a compromessi data l’inconciliabilità dei loro orizzonti politici e militari su un teatro attraversato da dinamiche storiche destrutturanti, per ora inarrestabili. Le controversie sull’ Ucraina sono solo un esempio delle fratture e delle linee di faglia che si allegheranno in Europa tra antagonisti mondiali alla resa dei conti. E il Vecchio Continente sarà quasi sicuramente il principale campo di battaglia delle contese tra potenze che si disputeranno il primato nella prossima epoca policentrica. Noi europei siamo, privi d’identità condivisa e nessuna consapevolezza del nostro potenziale ruolo dirimente tra aspiranti dominatori del mondo (nonostante la supponenza fuori posto dei tromboni di Bruxelles che meno contano e più s’impancano), il vaso di argilla in mezzo a quelli di ferro. Rischiamo di andare in pezzi calpestati da tutti ma ancora non ci muoviamo all’unisono per impedire alla funesta sorte di fare il suo corso.