DALLA RESISTENZA AL NAZIFASCISMO ALL’ANTIFASCISMO DEI TRADITORI (GLG)

gianfranco

leggete questo articolo scritto nel 2009 (anno in cui sono entrato in FB ma non l’ho pubblicato allora, almeno non ricordo). Allora ero anche fresco delle fonti che cito e che oggi non avrei ricordato. Ho un po’ corretto qua e là, ma poco. Ho però aggiunto brevi riflessioni odierne. Tenete conto di queste prima di chiedermi l’amicizia. Non amo il cancro né la cura Di Bella.

DALLA RESISTENZA AL NAZIFASCISMO ALL’ANTIFASCISMO DEI TRADITORI

[riflessioni di più di 10 anni fa; correva l’anno 2009. Vi ho apportato una serie di integrazioni, ma nella sostanza le affermazioni risalgono a quei tempi]

L’antifascismo ha cambiato segno nel corso degli ultimi 70 anni. C’è stato un antifascismo “nobile”, quello degli uccisi e dei perseguitati, del carcere e del confino, quello che ha iniziato a resistere in anni (i Trenta) in cui non si vedeva la luce in fondo al tunnel, in cui le sconfitte si susseguivano. L’ossatura di questo antifascismo fu comunista. Non voglio generalizzare la mia esperienza limitata ad una certa area geografico-sociale; comunque, ricordo bene che anche gli anticomunisti avevano un notevole rispetto per i partigiani comunisti, mentre più volte, parlando degli altri, li chiamavano ironicamente “spartiroba”; dove la roba spartita non era la loro, e nemmeno sempre di fascisti, incarcerati o eliminati. Non nego affatto che ci furono i Giacomo Matteotti e i fratelli Rosselli (e non semplicemente perché uccisi dal fascismo) e altri ancora di orientamento differente. Non nego la grandezza dei Ferruccio Parri, dei Piero Calamandrei, dei Guido Calogero, degli Emilio Lussu, ecc. Si tratta di stimabili personaggi che figurano nei libri di storia. L’ossatura fu però costituita da artigiani, contadini e operai, in massima parte forgiati dal comunismo, saldi, inattaccabili e resistenti in senso proprio. Gente del popolo né nota, né ricca, né dotata della cultura per scrivere libri e restare nella storia con il loro nome; eppure, senza l’appoggio di questi gruppi sociali, non è possibile modifica di scenario politico alcuna, anche se nei libri di storia entrano con un breve cenno cumulativo, mentre poi si tornano a leggere le imprese e le belle frasi dei “colti” che riempiono pagine e pagine.
Anche Cossiga ha recentemente ammesso che l’80% della Resistenza al nazifascismo era costituita da comunisti. Senza voler fare dell’anticlericalismo, è stata dunque una piccola “distorsione” storica, promossa anche da film peraltro notevolissimi come Roma città aperta, mettere il “partigianesimo” (mi si passi l’orrendo termine) cattolico sullo stesso piano di quello comunista. La Resistenza non poteva comunque vincere da sola, e oltre a tutto ha interessato solo una parte (il nord soprattutto) del territorio italiano. Come nei paesi est-europei fu decisiva l’Armata Rossa, così in Italia lo furono le truppe “alleate”, cioè statunitensi e inglesi. Ciò nonostante è del tutto assurdo considerare la Resistenza come semplice “Liberazione” dal nazifascismo. In primo luogo gli statunitensi, per la funzione svolta nel dopoguerra, vanno considerati più invasori che “liberatori”. In secondo luogo, non vi è dubbio che, data la spartizione del mondo in aree di influenza geopolitica decisa a Yalta, i veri resistenti antifascisti (all’80% comunisti) non poterono realizzare i loro obiettivi: una trasformazione dei rapporti sociali in Italia o, quantomeno, impedire la restaurazione del tipo di capitalismo divoratore di risorse prima esistente (parlo di quello privato, e della FIAT in primo luogo).

L’ANTIFASCISMO DEI CAPITALISTI VOLTAGABBANA

Il capitalismo privato italiano divenne “antifascista” solo a guerra perduta, appoggiando il colpo di Stato monarchico del 25 luglio 1943 ed il relativo cambio di alleanze, per ottenere, a guerra finita, il sostegno ad una restaurazione. Questo fu l’antifascismo “dell’ultima ora”, fino a quella data un’accolita di tracotanti fascistoni, che mostrò il suo viso pienamente reazionario subito dopo la caduta del “governo di unità nazionale” (1947) e le successive elezioni del 18 aprile 1948; e che condusse la sua opera nefasta per tutti gli anni Cinquanta. Dopo il 1962-63 cambiò la sua “struttura” interna di potere (decaddero rapidamente i Volpi di Misurata, i Pesenti, i Faina, ecc.) e dovette convivere con un settore di industria “pubblica” (l’IRI) decisamente rafforzato da ENI ed ENEL. Dato il coacervo di forze che governò l’Italia fino al crollo del regime DC-PSI, il settore “pubblico” funzionò sia come supporto del capitalismo privato, quello dell’“antifascismo” detto impropriamente laico e azionista – in realtà quello del tradimento e della totale sottomissione allo straniero, assolutamente privo degli ideali della Resistenza, interessato a tutelare solo i propri privati e individuali vantaggi parassitari – sia soprattutto come base di potere di alcune porzioni del corpo governativo in grado di condurre, ma sempre di soppiatto e con defatiganti raggiri, una politica estera di minima autonomia.
Chi tentò di liberarsi con maggior chiarezza e vigoria del giogo straniero (Mattei) fu soppresso. Gli altri continuarono il gioco con minore efficacia e chiarezza, con estenuanti compromessi e complicità che infine impedirono loro di resistere quando negli anni Novanta, finito il bipolarismo geopolitico, i poteri stranieri (diciamolo con chiarezza: statunitensi), promossero la svendita delle partecipazioni statali, abbattendo una importante base del potere DC-PSI, con le sue propaggini in certi settori privati, come il Berlusconi favorito da Craxi. In ciò ancora una volta appoggiati all’interno dall’“antifascismo” del “25 luglio” (FIAT e Mediobanca in testa con i settori politici ad essa legati) che profittarono pure, almeno in un primo momento, della svendita di banche e industrie statali (specialmente durante la presidenza Prodi dell’IRI).
Queste oligarchie hanno goduto dell’importante appoggio mediatico del ceto intellettuale “di sinistra” (importante il ruolo di Repubblica, fondata nel 1976), che ha perso ogni funzione cultural-egemonica per fungere da vera congrega di ringhiosi cani da guardia dei “poteri forti”, dei dominanti economici ormai distruttori del tessuto sociale e produttivo del nostro paese, e che diede all’antifascismo un significato non resistenziale e di semplice appoggio alla “liberazione” da parte degli “alleati”. Tali falsi antifascisti, ribadisco, non si riallacciavano affatto ai grandi, ma ormai isolati, nomi dell’antifascismo azionista. Puramente e semplicemente erano gli eredi dei finti antifascisti del “tradimento” perpetrato il 25 luglio 1943, quelli che poi restaurarono pienamente il capitalismo (privato) italiano più reazionario, che sostennero le sanguinose repressioni alla Scelba, che istaurarono i reparti confino alla FIAT, arrivando fino al Governo Tambroni e al luglio 1960. Non siamo insomma in presenza degli eredi dei veri resistenti, di quelli delle commoventi e nobili Lettere dei condannati a morte della Resistenza (europea e italiana), libri che non vengono più, non a caso, propagandati, diffusi, letti. Chi ha in mano stampa, editoria, ecc., preferisce ignorarli perché ogni loro riga sarebbe una denuncia di questi mentitori e usurpatori del blasone di resistenti, esagitati e interessati eversori al servizio di Washington, che ha preso nel dopoguerra il posto della Germania anni Trenta.

L’IRRESISTIBILE INVOLUZIONE DEL PCI. IL “COMPROMESSO STORICO” E IL GRANDE CAPITALE

Eliminati giudiziariamente il PSI e gran parte della DC (fu risparmiata ad esempio la “sinistra democristiana” dei De Mita, Prodi, Andreatta…), per creare il nuovo regime totalmente subordinato agli USA era già pronto il sostituto: il PCI. Per comprendere il processo degenerativo, non ci si può limitare a inveire contro i rinnegati e traditori. Sia chiaro che questi ultimi esistono, nessuno va alleggerito della sua responsabilità individuale, personale; ogni processo oggettivo ha sempre bisogno di portatori soggettivi, e questi devono quantomeno essere apertamente criticati. Tuttavia, in sede di analisi, non ci si esime dal considerare, quale causa fondamentale del degrado e marcescenza, l’oggettività del fenomeno.
Sarebbe necessario risalire indietro ai patti di Yalta, per cui la Resistenza, organizzata e combattuta per l’80% dai comunisti, dovette rinunciare ai suoi reali obiettivi di trasformazione sociale, riconsegnando tutto nelle mani dei gruppi dominanti che rimisero in sella la sedicente democrazia sotto la vigile e determinata supervisione dei vincitori (gli Stati Uniti). La scelta fu forse obbligata, come dimostra la fine dei comunisti greci, ma il PCI di Togliatti vi mise del suo; e questa specificità, sempre presa per un vantaggio e una superiorità di tale partito rispetto agli altri dell’Occidente, è stata invece il prodromo della sua degenerazione. In effetti, il PCI non fece la fine degli altri partiti comunisti per il semplice motivo che si era già ben preparato alla mutazione del dopo 1989.
Quello che allora giudicammo come revisionismo togliattiano preparò un terreno fertile a quanto accaduto decenni dopo. Si pensi alla cosiddetta “svolta di Salerno”, avvenuta nell’aprile del 1944, con cui l’allora segretario del PCI, in (non proprio dimostrato) accordo con l’URSS, proponeva di rinviare la soluzione dell’assetto istituzionale italiano – la deposizione della Monarchia sostenuta dalla “base”– a dopo la guerra, appoggiando ed entrando nel governo provvisorio Badoglio II (che si insediò proprio a Salerno fino alla “liberazione” di Roma nel giugno 1944), rappresentativo di tutti i partiti antifascisti; ed assicurando che l’azione del PCI era tesa essenzialmente a combattere i tedeschi ed i fascisti, non al mutamento dei rapporti sociali (in cui predominava un capitalismo particolarmente becero e arretrato). La svolta fu di grande rilevanza storica in quanto spostò il centro della politica italiana dal Comitato di Liberazione Nazionale al governo, ed allontanò i militanti ed i partigiani del PCI da qualsiasi ipotesi di insurrezione o presa del potere nel corso della Resistenza antifascista. Togliatti dirà espressamente che il PCI non si poneva l’obiettivo di fare come in Russia. Da qui partirono le concezioni del “partito nuovo”, della “democrazia progressiva” e della “via italiana al socialismo” (approvata dal quinto congresso del partito, gennaio 1946), concezioni che nella realtà celavano l’integrazione subalterna del PCI e del suo “agglomerato” economico – le cosiddette “cooperative rosse” – nel sistema politico ed economico italiano, alimentando ulteriormente nell’anima rivoluzionaria del PCI i rimpianti per la “rivoluzione mancata”.
Nell’assetto geopolitico fuoriuscito da Yalta, Togliatti mirava ad accreditare il PCI – che da meno di seimila iscritti nel 1943 era passato a quasi due milioni nel 1946– come forza politica “responsabile” e fondatrice della “democrazia” italiana, che partecipò ai governi di coalizione del dopoguerra, insieme agli altri partiti del CLN, fino al maggio del 1947 quando, in seguito al viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti (dove costui prese i “dovuti” ordini), fu buttato fuori dal governo. Si confuse la tattica, legata all’inevitabile accettazione degli accordi di Yalta e della divisione del mondo colà stabilita, con la strategia di una presunta rivoluzione morbida, attuata per via democratica, quella democrazia che era la malattia apportata al mondo – e sempre tramite invasioni, colpi di Stato, massacri e via dicendo – dagli Stati Uniti. Si accettò quindi senza vera intelligenza la predominanza delle lobby e cosche del capitalismo USA; ci s’immise a un certo punto in un gioco di banditismo, di subdola infiltrazione nei gangli delle istituzioni (in alcuni corpi speciali “in armi”, nella magistratura, nella burocrazia ministeriale, nei Servizi in particolare, ecc.) nonché di accordo trasformistico con il capitalismo italiano peggiore. Tuttavia, quel primo periodo del dopoguerra non va considerato alla stessa stregua di quest’ultimo processo, la cui effettiva incubazione, a occhio e croce, si trova nella direzione di Berlinguer (1972-84), tutta intrisa di fondamentalismo “moralista cattocomunista”.
Già prima della svolta della Bolognina di Occhetto (1991) e del totale asservimento del PCI-PDS a favore degli USA e dei “poteri forti” confindustriali e bancari, ritengo infatti che sotto la direzione di Berlinguer (il quale promosse l’ascesa nel partito dei vari Occhetto, Veltroni, D’Alema, ecc.) si è avuto un netto spostamento politico e ideologico ad Occidente, cioè in senso sempre più prono agli USA (perché questo era ed è “l’Occidente!”). Se sino al 1969 il PCI chiedeva l’uscita immediata dalla NATO (cfr. lo stesso Berlinguer, l’Unità, 16 febbraio 1969), già il 15 marzo 1972, nella sua relazione introduttiva al XIII Congresso del partito, Berlinguer esprimeva una valutazione più sfumata, considerando la lotta alla NATO efficace solo nel quadro di «un movimento generale per la liberazione dell’Europa dall’egemonia americana». Poi venne il 1973, con il colpo di Stato di Pinochet in Cile e riflessioni di cedimento opportunistico allo schieramento “occidentale” (monocentrismo statunitense). Berlinguer scrisse per Rinascita tre famosi articoli intitolati “Riflessioni sull’Italia”, “Dopo i fatti del Cile” e “Dopo il golpe del Cile”, in cui abbozzava la proposta del “compromesso storico” come possibile soluzione della “crisi italiana” che lasciava paventare svolte golpiste stile sud-America.
Rilevo a questo punto che proprio nel 1973 – con linguaggio tipico dell’epoca – feci un’analisi, pubblicata sulla rivista Che fare, delle “due anime” del PCI: semplificando, l’“amendoliana” e l’“ingraiana”. Dissi che avrebbe vinto la prima, preparando il partito alla rappresentanza della “grande borghesia monopolistica” (solo in parte coincidente, nel linguaggio odierno, con quella che spesso indico quale Grande Finanza e Industria Decotta); mentre l’altra frangia avrebbe coperto “sulla sinistra” la trasformazione e il passaggio di campo, come sempre ha fatto l’ala sinistra della socialdemocrazia (si pensi al ruolo svolto da Rifondazione comunista nei due governi Prodi…). Credo che, per l’essenziale, la previsione di 36 anni fa si sia ampiamente realizzata, e già da un pezzo.
Nel dicembre 1974 Berlinguer ufficializzò la linea di piena accettazione della NATO, pur nella prospettiva di un futuro dissolvimento dei blocchi (cfr. Enrico Berlinguer, Per uscire dalla crisi, per un’Italia nuova, in Antonio Tatò, La questione comunista, Editori Riuniti, 1975). Al Corriere della Sera Berlinguer giunse a definire la NATO «uno scudo utile per la costruzione del socialismo nella libertà, un motivo di stabilità sul piano geopolitico ed un fattore di sicurezza per l’Italia» (15 giugno 1976). Successivamente Sergio Segre, responsabile dell’ufficio esteri del PCI, citerà in un articolo le parole di Gianni Agnelli che accordava fiducia all’accettazione dell’economia di mercato proferita dal PCI: «Io personalmente, in quanto industriale, non ho motivo di dubitarne». L’allora presidente FIAT, personaggio ascoltato nelle alte sfere di Washington, diede persino semaforo verde ad un più diretto coinvolgimento dei piciisti: «Se il PCI è pronto a dare il suo consenso ad un programma realistico, perché rifiutarlo?» (La “questione comunista” in Italia, Foreign Affairs, luglio 1976). Nel 1975 era stato d’altro canto siglato l’accordo tra Agnelli e Lama (rispettivamente capo della FIAT e Confindustria e della CGIL) sulla scala mobile, cavallo di Troia per trasformare CGIL e PCI in effettivi, pur se non nella forma ufficiale, apparati dello Stato; mantenuti da esso tramite mille fili e “mangiatoie” varie.
A concludere emblematicamente queste dichiarazioni, nell’ottobre del 1977, prima in Senato e poi alla Camera, il PCI votava una risoluzione in cui si dichiarava la centralità dell’allora CEE e della NATO. In tale contesto, enunciando l’idea dell’“eurocomunismo”, che dal 1976 coinvolse i tre partiti comunisti più grandi d’Europa – italiano, francese, spagnolo – il gruppo dirigente berlingueriano provò a dare basi teoriche al consociativismo con la DC e all’accettazione dell’“ombrello NATO” senza comunque recidere del tutto il cordone con l’URSS.
Alle aperture di Berlinguer non corrisposero immediatamente quelle della NATO verso il PCI (ma semplicemente perché nel partito c’era un’ala minoritaria più legata all’URSS e non si potevano dunque rischiare contatti stretti tra elementi piciisti e l’organizzazione atlantica). Quando Giorgio Amendola, rappresentante dell’area moderata del partito, proclamò che l’ora era scoccata per «far parte a pieno titolo del governo», nel febbraio 1977 Ugo La Malfa dichiarava pubblicamente la necessità di un governo di emergenza comprendente i comunisti, ma la proposta cadde nel vuoto. Nell’aprile dello stesso anno, l’ambasciatore statunitense Gardner incontrò Eugenio Scalfari, il quale gli avrebbe confidato la sua impressione che «soltanto quando Berlinguer assumerà il controllo della polizia, ci sarà pace civile in Italia». Gardner raccontò poi di analoghe indicazioni ricevute dal mondo economico e finanziario, mentre Giulio Andreotti gli avrebbe dichiarato che credeva nella sincerità della “svolta occidentale” della dirigenza comunista, ma nutriva dubbi sul sostegno a questa svolta da parte della base del partito (si vedano a tal proposito le informazioni contenute nell’archivio online della Fondazione Cipriani). Da una ricerca pubblicata nel gennaio 1979 da il Mulino, risultava d’altronde che solo il 13% dei militanti approvava il “compromesso storico”. In ogni caso i tempi non erano maturi per l’ingresso nel governo del PCI (verso cui, nonostante le ripetute prese di distanza del PCUS, l’URSS destinava finanziamenti di importo rilevante), e bisognerà attendere la caduta dell’URSS per l’arruolamento del PCI-PDS nelle file atlantiche.
L’ascesa di un piciista a primo ministro coinciderà con uno dei più smaccati atti di servilismo italiano agli USA: l’attacco alla Jugoslavia, con la successiva creazione dell’immensa base militare USA di Camp Bondsteel in Kosovo. L’ex ministro della Difesa Carlo Scognamiglio (cfr. Corriere della Sera, 7 e 9 giugno 2001, ed Il Foglio, 4 ottobre 2000) e ancora Cossiga (cfr. Corriere della Sera, 10 giugno 2001 e Sette, 25 gennaio 2001) hanno sostenuto, mai smentiti, che il governo D’Alema, costituitosi il 22 ottobre 1998, «nacque per rispettare gli impegni NATO» di guerra contro la Jugoslavia. Cossiga diede un decisivo contributo alla caduta del governo Prodi, che a suo dire non sarebbe stato in grado come D’Alema di affrontare la guerra. Il governo dimissionario di Prodi aveva infatti sì approvato l’Activation Order della NATO ad attaccare la Jugoslavia, ma secondo le ricostruzioni dei succitati politici l’assenso si limitava all’uso delle basi e non anche alla costituzione di una forza d’attacco aereo con mezzi italiani, secondo la formula della “difesa integrata”. D’Alema rivendicherà successivamente che «quanto a impegno nelle operazioni militari noi siamo stati, nei 78 giorni del conflitto, il terzo Paese, dopo gli USA e la Francia, e prima della Gran Bretagna. In quanto ai tedeschi, hanno fatto molta politica ma il loro sforzo militare non è paragonabile al nostro: parlo non solo delle basi che ovviamente abbiamo messo a disposizione, ma anche dei nostri 52 aerei, delle nostre navi. L’Italia si trovava veramente in prima linea». Volete infine capire che cosa erano ormai divenuti gli ex piciisti? I più servi fra i servi degli Stati Uniti!!!
Che il centrosinistra fosse la forza politica più affidabile per gli USA venne confermato a chiare lettere dall’alto stratega USA Edward Luttwak: «Nel 1999 il governo di Massimo D’Alema ha combattuto nel Kosovo (…) davanti alla sua porta di casa (…) ed è rimasto lealmente al fianco degli americani dal principio fino alla fine della guerra. Nel 2003 il governo di Silvio Berlusconi non ha partecipato all’intervento in Iraq. Questa è l’unica vera differenza che Washington ha notato fra il centrosinistra ed il centrodestra, sul piano della strategia militare (…) gli Stati Uniti hanno già lavorato col centrosinistra, e si sono trovati meglio che con gli altri governi ostentatamente filoamericani». Luttwak esprimeva in quell’occasione anche delusione per il comportamento di Berlusconi, che in Iraq mandò truppe «dopo, a cose fatte (…) la delusione c’era già stata nel 2003, quando aveva rifiutato di partecipare attivamente all’intervento. Quello è stato il momento della rottura, almeno su questo piano». (La Stampa, 2 novembre 2005).

DIETRO LA COMMEDIA DEL “CONFLITTO D’INTERESSI” E DEL NEOFASCISMO

L’antifascismo è così stato egemonizzato dai voltagabbana e dai servi degli USA: i “fu piciisti”. Una riprova è costituita dal rinnovato vigore dell’antifascismo condotto da grande stampa e dall’establishment italiano a partire dalla discesa in politica di Berlusconi, contro cui, in particolare adesso, è partito un attacco da più fronti. L’importuno è accusato di perseguire interessi personali, il ben noto conflitto di interessi, che invece sparisce non appena i gruppi imprenditoriali privati perseguono i loro, soddisfacendo anche quelli degli USA, servendosi però a tale scopo di date forze politiche (al primo posto quelle che portarono a lungo la falsa etichetta PCI) prone ai loro voleri. Basta separare formalmente l’economia dal suo apparato di servizio politico, e il conflitto di interessi sparisce. Basta pagare bene una serie di studiosi di diritto, economia, politologia, ecc., mettendo a loro disposizione media, editoria – e logicamente cattedre universitarie, posti in consigli di amministrazione di imprese o in istituzioni statali, seggi parlamentari nazionali o regionali, ecc.– e tutti costoro spiegheranno che ogni cosa (in realtà sporca) è trasparente, onesta, lecita.
Il capitalismo mal tollera la “confusione” tra sfera economica e politica. Le sedicenti classi dirigenti (dominanti) devono stare dietro le quinte e far agire sul palcoscenico i loro attori politici. Con Berlusconi la struttura della recita saltava. Da qui tutta la pantomima del “conflitto di interessi”. Per mezzo secolo, la FIAT ha ottenuto una bella quantità di aiuti di ogni genere, ma nessuno ha parlato di conflitto di interessi per quando riguarda la sua famiglia proprietaria. E ogni volta che sono saltate fuori, anche ultimamente per questioni ereditarie, “strane cose”, l’azione giudiziaria si è sempre impantanata e dispersa. Anzi, si è sempre raccontata la menzogna che gli interessi italiani coincidevano con quelli della FIAT, a causa dell’occupazione che “dava”: per gli ideologi dei dominanti i capitalisti sono “datori di lavoro”, con “simpatica” inversione della realtà dei fatti che vede i lavoratori offrire la loro merce a chi ha i capitali e la domanda per impiegarla al fine di ottenere un profitto dalla propria impresa; come vedete non entro nemmeno nella discussione intorno all’estrazione di pluslavoro/plusvalore. Quando poi la FIAT ha ridotto drasticamente l’impiego di “mano d’opera” (altro termine edulcorato) nell’azienda, si è però detto che, nell’indotto, “dava lavoro” ad almeno sette persone per ognuna di quelle impiegate direttamente. Resta il fatto che le scelte governative dettate da quell’azienda, e che ad essa portavano vantaggi e profitti, non sono mai state considerate “conflitto di interessi”. Guai, però, se si entra di persona in politica; si contravviene alle regole della recita e se ne pagano perciò le conseguenze (anche in termini di attenzioni da parte di settori della magistratura).
Questi antifascisti si sono messi ad urlare all’ascesa di un nuovo fascismo. Ora, mi sembra evidente che noi viviamo sotto un regime solo formalmente democratico (e con quante limitazioni…) che coinvolge tanto il centrosinistra quanto il centrodestra, in un regime cioè bipartisan totalmente asservito al modello economico neoliberista e alle mire geostrategiche statunitensi. Ma l’idea che il governo berlusconiano possa avere caratteri fascisti è una tesi priva di fattivi riscontri, basata su una idea piuttosto nebulosa di cosa sia stato il fascismo. In quale altro paese e momento della storia un fascismo, dopo 16 anni di ascesa, non si è ancora installato saldamente al potere, eliminando le opposizioni perentoriamente affinché non si sentano più le loro urla stentoree? Quando mai un fascista si è fatto buttare giù da un “ribaltone”, dopo aver vinto le elezioni, e abbia accettato di perderne due, rimanendo tranquillamente all’opposizione? In quale altro regime fascista conosciuto un capo di governo si è fatto insultare, dileggiare, spiare nella sua vita privata, minacciare da settori della magistratura? Inutile porre simili domande alla “sinistra” del grande capitale parassitario e del servaggio verso gli USA. E nemmeno a quella detta “radicale”, con Paolo Ferrero, segretario della Federazione della sinistra, oltre che di Rifondazione, che si dichiara «pronto ad allearmi anche con il diavolo» (la Repubblica, 21 dicembre 2009) pur di battere Berlusconi, vale a dire pronto a fungere da ultima ruota di un eventuale carrozzone elettorale che, da Di Pietro a Fini passando per Bersani e Casini, provi a battere il Cavaliere nero. Opzioni politiche alternative e strategiche: zero. Non c’è più nemmeno quella patina di illusorietà PRC-bertinottiana di voler condizionare da sinistra il governo di centrosinistra di turno. Si ripropone l’antiberlusconismo, in forma peggiore della già pessima “desistenza” del 1996, per veicolare, con soggetti e accenti diversi, la solita politica atlantista di centrodestra e centrosinistra.

RIFLESSIONE FINALE ODIERNA

Se i fu comunisti sono i peggiori rinnegati (e servi dello straniero) di tutta la storia italiana, per definire coloro che ancora speculano sul fascismo, da una parte, e sulle “feroci dittature comuniste”, dall’altra, non trovo le parole più adeguate. Comunque ribadisco almeno la sintetica frase: la “sinistra” è il cancro della nostra società, la “destra” è una sorta di cura Di Bella. Sia chiaro, questa “destra” non è migliore della “sinistra”. Solo che, per ragioni storiche ben precise e “oggettive”, quella ancora definita “sinistra” (di cui una buona parte origina dal ’68 e ’77, anni decisivi dell’inizio della parabola discendente della nostra società) ha occupato il 90% dei gangli del potere e dei mezzi di informazione; e dilaga nelle pubblicazioni, nell’insegnamento di ogni ordine e grado. Per questo è lei il cancro e non la “destra”; non certo perché quest’ultima sia migliore come visione politica e servaggio verso gli USA. In ogni caso, non si curerà questo cancro con quella menzogna chiamata “democrazia” e “voto del popolo”. Contro il cancro solo due cure sono possibili: asportazione chirurgica e chemioterapia. Entrambe però richiedono la FORZA NUOVA, sulla cui formazione al momento solo ipotetica dovrebbe a breve uscire il libro di Petrosillo e mio.