DALL’OTTOBRE ALLA GRANDE BELLEZZA, di GLG, 17 aprile ‘14

gianfranco

1. C’era una volta il Movimento Operaio. In realtà, già questa dizione era edulcorata. All’inizio esisteva in effetti la Classe Operaia, il Proletariato, i due raggruppamenti sociali in cui si era coagulato il Terzo Stato in seguito al sommovimento sfociato poi nei moti del 1848 (’49), durato assai poco in verità. E già la concezione di questo dividersi in due gruppi antagonisti – in base alla proprietà o meno dei mezzi di produzione da parte dei soggetti implicati nei processi produttivi – deve essere considerata, in prospettiva storica, assai semplificata. D’altra parte, è ben noto che gli esseri umani hanno una vista che sa abbastanza ben calcolare le distanze in orizzontale, mentre commettono errori di netta sottovalutazione nelle loro misure visive in verticale (in tal caso sono nettamente superiori gli “uccelli da preda”, in particolare le “aquile”; ma sono relativamente pochi gli esseri umani di questo tipo).

Nel 1864 nacque la Prima Internazionale (operaia) e nel 1889 a Parigi la Seconda, la cui più importante organizzazione fu il Partito socialdemocratico tedesco, guidato a lungo da Kautsky, l’autentico fondatore del marxismo così come lo si è conosciuto nel XX secolo, e ancora adesso per gli scampoli che ne restano. In Marx il proletariato, sempre usato di fatto come sinonimo di classe operaia, era in definitiva il corpo lavorativo che vendeva l’unica sua “proprietà” – la capacità lavorativa insita nella sua corporeità, nelle braccia e nel cervello – come merce al proprietario dei mezzi produttivi (il capitalista) dietro pagamento di un salario. Purtroppo Marx stesso parlò, tenendo conto dell’atmosfera culturale e ideologica dei suoi tempi, di “sfruttamento”, di “schiavitù salariale”; e ciò ha gravemente inquinato e indebolito la sua teoria che si pretendeva scienza; e che per larga parte lo era.

Ho spiegato mille volte e in più decenni che per Marx la nascita della “sostanza” dello sfruttamento – il pluslavoro nella sua forma di plusvalore – dipendeva proprio dalla vendita (in media) della merce forza lavoro al suo valore così come avviene per ogni altra merce; e l’emergere di questo “di più” (il profitto capitalistico, per semplificare) sarebbe avvenuto comunque anche con la più completa eguaglianza e libertà di contrattazione tra capitalista e operaio. Corollario della teoria era che ogni salariato, pur a diversi livelli di retribuzione, si sarebbe sentito sulla stessa barca di ogni altro nel suo confronto/scontro contrattuale (pur se libero) con il proprietario dei mezzi produttivi. In Marx l’operaio era quello combinato, l’insieme del lavoro direttivo ed esecutivo (“dall’ingegnere all’ultimo manovale” come egli scrisse) qualora il primo fosse privo di mezzi produttivi e vendesse la sua, pur qualificata, forza lavoro in qualità di merce.

La centralizzazione dei capitali – la concorrenza tra capitalisti che portava al fallimento i molti e all’emergere dei pochi in quanto grandi proprietari – avrebbe comportato non solo la crescita del salariato (i falliti avrebbero ingrossato le schiere dei venditori di merce forza lavoro), ma l’attribuzione della direzione dei processi produttivi a specifici lavoratori salariati. La proprietà sarebbe diventata viepiù assenteista, avrebbe acquisito caratteri quasi-signorili, di tipo parassitario e avrebbe provocato la rivolta del complessivo corpo lavorativo salariato. In questo senso, la classe operaia o proletariato (in quanto operaio combinato, lavoratore collettivo produttivo) veniva pensata quale “soggetto rivoluzionario”, portatore della trasformazione del capitalismo nel socialismo e poi comunismo; formazioni sociali in cui l’egemonia e la direzione della società nel suo complesso sarebbero spettate a questo lavoratore complessivo, sostanzialmente cooperativo: attraversato da contraddizioni interne, ma non più da un reale antagonismo, quello che nutre la cosiddetta lotta di classe. Marx, nelle prime righe del Manifesto del partito comunista, aveva scritto che “la storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotte di classi”. Da “quel momento” (vittoria del lavoratore collettivo) sarebbe iniziata un’altra storia, non più di conflitti e antagonismi irriducibili bensì di prevalente cooperazione e contrasti componibili.

Appunto: la vista del teorico vedeva in orizzontale e non in verticale. Il capitalismo si sarebbe espanso in tutto il mondo, diffondendo ovunque il processo indicato, quello della centralizzazione dei capitali (della proprietà) con allargamento del lavoro salariato alla base, mentre il suo spessore verticale (direzione ed esecuzione con le loro particolari contraddizioni) veniva smorzandosi nella più cogente solidarietà cooperativa. Da qui l’internazionalismo proletario, il superamento di ogni sentimento nazionale (o di cultura, di ideologia, di etnia, ecc.). In realtà, molto presto ci si accorse che non vi era unione e collaborazione all’interno dello stesso corpo lavorativo salariato, tanto è vero che i quadri e dirigenti ecc. vennero spesso indicati quali specialisti borghesi. La classe operaia fu ridotta ai livelli bassi o quanto meno medio-bassi del lavoro salariato; e di questi si continuò a predicare il riconoscimento della propria condizione in tutti i paesi in cui andava sviluppandosi il capitalismo. Con il rafforzarsi della politica colonialista, tuttavia, anche il capitalismo non si diffuse a macchia d’olio come previsto.

Non voglio insistere troppo su temi da me trattati molte volte. Faccio solo notare che il “soggetto rivoluzionario” del nuovo marxismo – ripeto: di fatto quello rivisto da Kautsky e, su questo punto, accettato da tutti i marxisti, compreso Lenin che definì il socialdemocratico tedesco revisionista e poi rinnegato per motivi tutt’affatto differenti – non era certo in grado di esercitare quelle capacità egemoniche necessarie al rivolgimento sociale pensato. Non a caso alla classe si sostituì di fatto il partito in quanto sua sedicente avanguardia mentre era in realtà una élite con una serie di quadri “professionalmente” preparati ai compiti che dovevano essere svolti nella sfera politica della società. Compiti su cui si divise il “movimento operaio” tra coloro che pensavano ad un passaggio graduale e progressivo verso obiettivi socialisti ridotti in realtà a partecipazione di detti quadri (alcuni anche di estrazione operaia) alla conduzione dei processi di riproduzione della formazione sociale capitalistica; e quelli che si battevano per passaggi più radicali ma che in definitiva si limitavano a propugnare una proprietà statale dei mezzi di produzione (creduta collettiva o quanto meno preparatoria di quest’ultima) e una pianificazione dei vari settori produttivi, alla fine responsabili del soffocamento di ogni conflitto e competizione con graduale arresto dello sviluppo (non semplicemente della crescita economica, ma anche di ogni spinta innovativa) e del conseguente imputridimento della situazione sociale.

Aggiungasi brevemente che lo sviluppo capitalistico comportò l’ampliamento dei cosiddetti ceti medi (nei servizi e in altri settori non direttamente produttivi o anche negli apparati politico-statali e ideologico-culturali), distinti in professionalità e in strati (di reddito, di cultura, di addentellati con il potere, ecc.) assai differenziati, che indebolirono di molto la possibile spinta alla trasformazione predicata, in senso riformistico o rivoluzionario, dalle élites che si pretendevano avanguardie della classe operaia. Questi ceti medi, come anche larghi strati operai (basti pensare alle posizioni assunte infine da gran parte del nostro “sindacalismo rivoluzionario”), mostrarono presto, e sempre più frequentemente, che l’orizzontalità – con il suo presunto internazionalismo proletario – possedeva una forza minore rispetto ad altre spinte ideologiche più pressanti, ad es. quelle nazionalistiche. Nel 1914, anno di inizio del regolamento di conti tra i vari paesi già divenuti capitalistici, la Seconda Internazionale implose, anche se fu sciolta ufficialmente due anni dopo. Prova evidente che l’internazionalismo apparteneva a quote minoritarie del movimento, non suscitava sufficiente “passione” ideologica e impulso ad agire per la trasformazione sociale.

 

2. Nessuno si è mai posto il problema – nemmeno il sottoscritto fino a tempi relativamente recenti – che il sedicente Movimento Operaio prende fine proprio con lo scoppio della Rivoluzione d’Ottobre, con il suo successo e l’installazione al potere dei bolscevichi. Intendiamoci bene. Da molto tempo sostengo che la sedicente classe operaia, nella sua versione kautskiana (quella del marxismo realmente esistito e funzionante da specifica ideologia e assai meno come scienza della società) di strati medio-bassi del corpo lavorativo salariato, è stata la meno rivoluzionaria dell’intera storia delle lotte sociali nelle diverse epoche. Inutile rifarsi oggi al tradimento delle socialdemocrazie dei paesi capitalisticamente avanzati. Ogni paese, in cui si è verificato il passaggio da una prevalente fase agraria ad una industrialmente sviluppata, la classe operaia si è sindacalizzata, ha assunto caratteri di compartecipazione allo sviluppo capitalistico. Una compartecipazione generalmente conflittuale ma sul piano della distribuzione del reddito prodotto.

I “grandi conflitti”, apparentemente antagonistici, sono avvenuti nelle fasi di passaggio dalla condizione di contadino ad operaio per motivi di disagio sociale legato alla perdita di quel minimo di sicurezza sociale che forniva la terra in rapporto alle condizioni di vita e lavoro in fabbrica nelle città; e anche per motivi ancora più profondi di carattere culturale. La cultura contadina non poteva assumere funzione di guida nelle società in trasformazione capitalistico-industriale, ma era comunque contrastante con la cultura tipica del capitalismo borghese; mentre quella operaia si andò assuefacendo progressivamente alla sua funzione di “ancella” di quest’ultima per le più larghe “masse”. Restarono pure a lungo residui della cultura del vecchio artigianato, quello vero e proprio (non semplicemente piccolo-imprenditoriale, che ha funzioni subordinate) distrutto dalla rivoluzione industriale, che diede vita alle ideologie “socialistiche” alla Sismondi e Proudhon: e che ogni tanto risorge anche in epoche successive, perfino in forme virulente e fallimentari (si pensi agli anni ’70-’80 in Italia), quando si tratti di meglio adattare lo sviluppo capitalistico subdominante (quello dei settori da me definiti cotonieri) alla predominanza del paese in posizione di centrale coordinamento dell’insieme (ad es. gli Usa nei confronti dell’Europa).

Lenin ebbe ragione a distinguere l’imperialismo dal colonialismo, individuando nel primo la lotta tra potenze (oggi, diciamo, pre e subdominanti) per le sfere d’influenza – commettendo tuttavia la grave “svista” (impossibile evitarla a mio avviso) di considerare il monopolio come sua caratteristica principale – mentre il secondo era semplice annessione di zone agrarie (precapitalistiche) a quelle capitalisticamente avanzate in senso industriale. Tuttavia, ciò che favorì i fenomeni rivoluzionari del ‘900 fu precisamente il colonialismo o semi-tale. Quanto Lenin parlò di masse d’oriente culturalmente arretrate ma politicamente avanzate, mentre il contrario caratterizzava le masse d’occidente cioè il movimento operaio dei paesi capitalistici industrializzati, coglieva nel segno, ma purtroppo sempre in forma distorta pur se inevitabile all’epoca. La rivoluzione, detta a lungo (troppo a lungo) proletaria, scoppiò in Russia, paese ancora largamente contadino e precapitalistico (salvo poche enclaves); e, da allora, andrò spostandosi sempre più ad est e sempre più in zone eminentemente contadine, del tutto precapitalistiche, preindustrializzate. Nel mentre, nelle zone a capitalismo sviluppato, si affermava definitivamente un nuovo capitalismo, di matrice statunitense, studiato a pezzi e bocconi (mai con l’intento sistematico del marxiano Il Capitale, con riferimento specifico al primo libro) e sempre con l’idea che fosse in auge, malgrado il détour storico della rivoluzione in zone contadine, il fondamentale conflitto antagonistico tra borghesia e proletariato (o classe operaia), vero reperto archeologico da ormai un secolo.

Lenin inventò – e fu comunque brillante invenzione se non fosse stata poi cristallizzata in pura e semplice ideologia – che la rivoluzione, nel ’17, scoppiò nell’anello debole della catena imperialistica. L’evento rivoluzionario era però pensato quale semplice detonatore di un sommovimento mondiale. La borghesia era ormai marcia e incapace di vera ripresa. Ed infatti era proprio così. La borghesia tramontò di fatto con la prima guerra mondiale; e in quell’epoca si verificò la “distruzione della ragione” (Lukàcs). Per troppo tempo, negli ultimi decenni, deboli pensatori hanno irriso a quelli che ritenevano puri e semplici errori clamorosi di marxisti imbevuti di superficiale ottimismo rivoluzionario. Siamo stati invece noi particolarmente stupidi. I comunisti erano convinti – e non credo che potesse essere diversamente – della descrizione del capitalismo fornita da Il Capitale. Dopo la borghesia, non poteva che prendere il potere la classe operaia, la quale sarebbe stata pure l’erede del migliore pensiero razionalista (illuminista) borghese. Sbagliata la previsione relativa all’erede della fine borghese, non la considerazione tutto sommato esatta di questa fine.

Si leggano le ultime righe dell’interrotto opuscolo di Lenin La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky:

 

“Queste righe sono state scritte il 9 novembre 1918. Nella notte dal 9 al 10 novembre dalla Germania è giunta la notizia della rivoluzione vittoriosa dapprima a Kiel e in altre città del nord e della costa, dove il potere è passato nelle mani dei Soviet.

La conclusione che dovevo scrivere per l’opuscolo su Kautsky e la rivoluzione proletaria diventa superflua”.

Ho messo in grassetto le affermazioni leniniane, che dovrebbero fare impressione, in merito al movimento rivoluzionario in Germania, schiacciato in breve tempo e con relativa facilità, perché frutto di mosse compiute da minoranze colme di illusioni circa, appunto, la rivoluzionarietà insita nella Classe Operaia (quella di fabbrica, lo ricordo ancora, l’operaio nel senso tradizionale del termine). La rivoluzione in Russia era pensata quale semplice inizio, detonatore appunto della più vasta rivoluzione proletaria che avrebbe vinto almeno in qualche paese a maggioranza della popolazione divenuta operaia. Questa la convinzione dello stesso Lenin, che ribadisce qui l’idea secondo cui l’Ottobre sovietico era solo la prima mossa della rivoluzione generale, compiuta nell’“anello debole” perché all’inizio è più facile vincere dove l’avversario è più debole, non dove le nostre truppe sono più numerose. Illusione, nulla più che illusione. “La grande illusione”, appunto. Nell’Europa capitalistica era in preda a sussulti agonici la borghesia, quella “imparentata” anche con la nobiltà (quella degli Eric Von Stroheim e dei Pierre Fresnay nel grandissimo film di Renoir). Non era ancora del tutto evidente la vittoria della formazione sociale di matrice USA, in cui divenivano dominanti gli strateghi del capitale, ma ormai la sorte della borghesia era segnata.

E con questo era segnata la sorte del “soggetto rivoluzionario” pensato quale classe operaia (o ancora nella vecchia dizione di proletariato). L’ultima difesa della borghesia europea furono i movimenti nazionalisti (Italia, Germania, Spagna, ecc.), pur se in settori degli stessi vi erano posizioni antiborghesi ed essi dovettero comunque porsi in una posizione politica e culturale con suoi larghi aspetti pure populisti, altrimenti la loro presa di massa sarebbe stata minima. Malgrado vadano ricordate le Brigate internazionali in Spagna nel ’36, sarebbe ora di ammettere che, tra le due guerre in Europa, l’internazionalismo proletario non ebbe in definitiva grande rilevanza, mentre si svilupparono i movimenti nazionalisti che tuttavia non afferrarono certo la trasformazione in atto nella formazione sociale del capitalismo più avanzato, dove si andava affermando quella statunitense.

Se vogliamo uscire da certe mitizzazioni, che a me sembrano ancor oggi in voga, dovrebbe essere studiato a fondo il comportamento dei movimenti fascisti (nazionalisti) e comunisti (internazionalisti). Da una parte, mi sembra ci si rifacesse al vecchio modulo del colonialismo, carattere tipico del capitalismo borghese (la conquista del “pezzo di terra al Sole”). Dall’altra, l’internazionalismo veniva di fatto piegato ai compiti difensivi del primo paese conquistato (secondo la rappresentazione ideologica dell’epoca, che non è consapevole menzogna, sia chiaro) al presunto socialismo (in cui, cioè, è “in costruzione il socialismo”). In realtà, oggi si comprende che in Urss era in gestazione una ben diversa formazione sociale, che fu capace di divenire una potenza in grado di tener testa al polo predominante uscito dal secondo conflitto mondiale. Saranno però indispensabili approfondimenti ben superiori per afferrare come mai risultò comunque vincitrice la formazione sociale degli strateghi del capitale (definizione già molto generica).

 

 

3. Nel dopoguerra, con la creazione del mondo bipolare per più di quarant’anni, il confronto si è cristallizzato attorno a quello tra credenza nelle virtù del mercato, fondato sulla proprietà privata e semmai corretto da una spesa pubblica soprattutto capace di alimentare il cosiddetto Stato sociale, e convinzione della superiorità della proprietà statale (confusa con quella collettiva dei produttori associati) più la pianificazione. A parte alcuni paesi – ad es. l’Italia, passata soltanto con il boom del 1958-63 ad una decisa preminenza dell’industria sull’agricoltura, e un po’ più tardi la Corea del sud, ecc. – le lotte operaie mostrarono in tutto l’“occidente” capitalistico (e infine pure nei paesi appena ricordati) un carattere sempre più tradunionistico, sindacale, per la distribuzione del reddito e il miglioramento delle condizioni di lavoro; il rivoluzionamento dei rapporti capitalistici divenne via via un “bel ricordo”.

I “rivoluzionari”, disperati, passarono – sia nei paesi capitalistici avanzati che in quelli detti in via di sviluppo – al terzomondismo. La classe operaia fu sostituita, in qualità di “soggetto” della trasformazione sociale (sottinteso: verso il mitico socialismo), dalle “masse diseredate” dei paesi del cosiddetto terzo mondo; e tali masse erano del tutto contadine. Lascio perdere le diverse variazioni sul tema – la scuola della dipendenza, del sistema-mondo, magari dell’accerchiamento delle città da parte delle campagne; variazioni proseguite ancor oggi, sempre più stancamente, con i vari “socialismi del XXI secolo” – perché tutte partono dalla delusione provocata negli anticapitalisti dalla condotta della classe operaia “occidentale”. Nessuno ha voluto capire che non si trattava di una classe – perché questa era in Marx l’insieme del corpo lavorativo produttivo (braccio e cervello) ormai espropriato dei mezzi produttivi ed in solidaristico antagonismo con la proprietà capitalistica degli stessi – bensì di un agglomerato di lavoratori delle basse mansioni di fabbrica, cui poi si vollero aggiungere i livelli inferiori del lavoro salariato nei servizi e nel commercio; e, in uno sforzo di “modernizzazione”, i sedicenti quadri e competenti di medio livello. Tutti modi per evitare l’ammissione del fallimento totale di una visione ormai totalmente ideologizzata e teoricamente “inerte”.

Invece di prendere atto che Marx si era sbagliato nel prevedere la formazione di un lavoratore collettivo produttivo (dall’alta dirigenza alla bassa esecuzione), si sono cercati mille escamotages pur di non ripensare l’impossibilità di una lotta per la trasformazione del capitalismo in socialismo (lasciamo pur perdere il comunismo) per vie interne alla riproduzione dei rapporti specifici della formazione sociale tuttora vincente; e che comunque non è il capitalismo tout court, bensì quello di matrice americana, quasi tutto ancora da studiare. Coloro che, appunto, abbandonarono la speranza riposta nelle classi lavoratrici dei paesi capitalisticamente avanzati, si lanciarono in direzione della lotta nei paesi di fatto sottosviluppati. Anche qui si diffusero tesi strampalate, di sapore luxemburghiano (rivisto e adattato al rapporto tra industria capitalistica e agricoltura precapitalistica sul piano mondiale), circa il fatto che il capitalismo sopravviveva solo grazie allo sfruttamento di tali paesi; una volta che questi ultimi si fossero liberati dal giogo ancora colonialista (sia pure di nuovo conio), il capitalismo avrebbe vissuto la sua agonia. Per gli ultimi ritardatari “marxisti”, ovviamente, le pretese difficoltà create dalla lotta delle masse contadine del terzo mondo nei paesi del primo avrebbero svegliato la classe operaia dal suo torpore.

Trascuriamo pure le ultime demenzialità di un mondo politico e di un ceto intellettuale, ormai sfatti, in piena decadenza ideale e intellettiva. Le imprese compiute dalle rivoluzioni contadine, guidate da partiti che almeno si dicevano comunisti (e diretti da marxisti o circa tali), si sono esaurite di fatto quarant’anni fa con la vittoria in Vietnam, su cui ci sarebbe molto da dire e da rivedere in chiave un po’ (molto) meno enfatica. Dopo di allora, e soprattutto dopo la caduta del “socialismo reale”, dopo la fine quindi dell’epoca bipolare, le lotte furono condotte nel terzo mondo – che intanto andava differenziandosi al suo interno con lo sviluppo di paesi del calibro della Cina, del Brasile e di altri – da forze nemmeno veramente nazionali; più spesso tribali, guidate da movimenti religiosi, ecc. All’interno di simili movimenti – sempre trattati dagli intellettuali “critici” del mondo occidentale come si trattasse di vere forze di liberazione dall’imperialismo (continuamente confuso con il neocolonialismo) di carattere anche nazionale, mentre avevano ben poco a che fare con una lotta per l’indipendenza del paese – si sono andati affermando gruppi dirigenti che certamente non godono del potere di quelli posti ai vertici nei paesi avanzati, ma sono comunque gruppi dominanti (o subdominanti) in formazione e affermazione e non svolgono certo  lotte per la trasformazione sociale; e tanto meno in direzione anticapitalistica.

Anche questo “soggetto rivoluzionario”, le masse diseredate del terzo mondo, è ormai del tutto finito salvo forse per attardati dello stesso tipo degli insopportabili, e per fortuna rari come i panda, cantori del comunismo o del “socialismo” del nuovo secolo. Talvolta si tratta di imbroglioni ancora all’opera per piccole operazioni soprattutto intellettuali, premiate con qualche prebenda dato che servono pur esse al disfacimento culturale generale di quest’epoca di totale annientamento di ogni forma d’intelligenza attribuita all’essere umano.

4. E siamo così arrivati all’ultimo periodo (per adesso) di un movimento che ha caratterizzato quasi un secolo e mezzo della nostra storia; soprattutto di noi europei e “occidentali”. Non possiamo non notare la pochezza politica degli agenti attivi oggi in questa sfera sociale; non possiamo non essere inorriditi dalla speciale stupidità – direi più precisamente rimbecillimento – di un ceto intellettuale che non svolge più nessuna delle funzioni che dovrebbe esercitare. Ci si è intestarditi nel voler trovare i vari soggetti rivoluzionari in grado di affossare il capitalismo.  Non ci si è accorti che i bolscevichi vinsero grazie a contraddizioni fortissime in atto tra formazioni capitalistiche; contraddizioni ulteriormente rafforzate dall’avvento di una nuova formazione – chiamiamola pure ancora capitalistica solo in base all’esistenza di impresa e mercato, quindi per i suoi connotati soltanto economici – non ancora ben conosciuta né tanto meno “costruita” teoricamente in modo sufficientemente adeguato così come Marx lo fece con riguardo a quella capitalistica borghese. E la nuova formazione in gestazione in Urss, sotto l’ideologia della presunta costruzione del socialismo, avrebbe forse potuto condurre a nuove soluzioni; a patto però che si dimenticasse la “classe operaia” come soggetto della trasformazione in direzione della “società degli eguali”. Non averlo dimenticato è stata causa non ultima del fallimento dell’esperimento “socialistico”. Non parliamo poi della fiducia nelle funzioni liberatorie e trasformatrici delle masse contadine del terzo mondo, che hanno provocato altrettanti guai della ideologica ossessione circa le capacità rivoluzionarie della “classe operaia”.

Tutto è stato sepolto; alcuni sopravvissuti, forse solo morti viventi, non fanno più testo, ma continuano certo a provocare qualche danno. Tuttavia, la vera “grande trasformazione” (con débacle paurosa) si è prodotta nel ceto politico e intellettuale dei paesi subdominanti (in specie europei), dove non esiste più una vera classe dirigente di carattere strategico. I centri strategici sono tutti negli Stati Uniti; in Europa si gioca di rimessa. C’è solo da sperare in una tendenziale affermazione del multipolarismo che faccia quanto meno crescere il potere contestativo di centri russi e cinesi (gli altri lasciamoli al momento perdere in quanto ulteriori illusioni) nei confronti di quelli statunitensi. L’Italia è quasi un paese d’avanguardia nel processo degenerativo del ceto politico e intellettuale.

Quello detto di “sinistra” o “progressista” ha dovuto trovare altre sponde trasformative, altri soggetti del mutamento. Deluso dalla classe operaia (cioè semplicemente dagli operai e altri lavoratori dei medio-bassi livelli lavorativi ormai non più soltanto di fabbrica), forse ancor più deluso dalle masse diseredate del terzo mondo, il pensiero radicale degli intellettuali “progressisti” – spesso verbalmente ancora anticapitalistico ma ormai privo di radici e di contenuto vago e soltanto aperto alla “novità” (purchessia, senza alcun discernimento) – si è rivolto sia ai problemi di costume e apparente libertà da ogni costrizione sia al cosiddetto “buonismo” nell’accoglienza delle suddette masse diseredate (quelle un tempo pensate come rivoluzionarie) nei nostri paesi detti avanzati.

E’ ovvio che la “classe operaia” era “cosa di casa nostra”; e le masse diseredate dovevano effettuare la rivoluzione nei loro paesi. Oggi, fallito tutto questo, si propone di accoglierle nelle società a capitalismo avanzato. L’idea cardine di questa intenzione è l’arricchimento che sarebbe indotto dall’incontro delle diversità. Quest’ultima viene trattata come un valore in sé, come la chiave di volta della nuova “rivoluzione” da attuarsi pacificamente, con profonda comprensione reciproca. Finalmente una rivoluzione priva di antagonismi e conflitti, armoniosa, ricca soltanto di condivisione e messa in comune di culture del tutto differenti. Non c’è invece alcun “incontro” che non produca la sua dose di conflitto, perfino nell’ambito della condivisione di alcuni parametri fondamentali caratterizzanti la convivenza tra simili in determinate formazioni sociali relativamente omogenee. Parlare genericamente di una diversità, che arricchisce le parti nel loro incontro, produce solo chiacchiere, i vaniloqui cui sono ormai dediti oggi tutti gli intellettuali e politicanti “progressisti”.

Ovviamente, una diversità arricchente – che in realtà serve solo da scusa per conquistare in futuro nuove masse di votanti al solo scopo di mantenersi a galla in una situazione di profondo sfacelo sociale e culturale qual è l’attuale – provoca in genere in molti altri reazioni di paura e di rifiuto del diverso, su cui si innestano altri politicanti e intellettuali che allora parlano di difesa delle tradizioni, di accanita conservazione delle proprie radici storico-culturali, ovviamente millenarie o almeno plurisecolari. Ancora una volta, discorsi che potrebbero avere un senso, ma se condotti con l’intento di approfondire i veri contenuti dell’intero problema. Questo non interessa però una schiera di “pensatori” che non pensano più da quarant’anni, che hanno via via attraversato le varie fasi dello sbriciolamento e isterilimento delle vecchie ideologie, sia “progressiste” che “conservatrici”.

Vale ancora la pena di seguirli, di polemizzare con essi? Se si cade in questo tranello, si sarà soltanto trascinati nel loro insulso schiamazzare. Non dobbiamo nemmeno indicarli come buffoni, perché questi ultimi avevano un tempo funzioni di rilievo. Sono letame, negli ultimi decenni in preda a processi fermentativi nocivi per cui non è più in grado di nutrire i terreni, che rende invece inadatti ad ogni coltivazione. Dobbiamo abbandonare queste nullità al loro blaterare ormai infinito. Dobbiamo semmai riprendere visione di più vecchi dibattiti ideologici, quando questi avevano un senso specifico nell’epoca in cui venivano svolti e condotti da intellettuali e politici di valore. Con la consapevolezza, però, che un’epoca è finita, che tutte le vecchie lotte per la trasformazione della società o almeno per l’ammodernamento delle sue strutture si sono solidificate e cristallizzate in ideologie nettamente superate e non più produttive di effetti significativi.

Abbiamo sul terreno tanta di quella sterpaglia che non possono essere date indicazioni precise su come procedere a estirparla e bruciarla. E la sterpaglia è difesa da gruppi dirigenti che ormai non dirigono più nulla, hanno rinunciato ad ogni loro funzione in tal senso. Dobbiamo procedere un po’ “a vista”, senza dubbio con notevoli incertezze. Non ci saranno “regali”: i vecchi intellettuali e politicanti cialtroni hanno compiuto un’opera abbastanza minuziosa di desertificazione e di annullamento del senso stesso delle parole. Queste vengono sparate a raffica; come prima misura, bisogna afferrare che non significano nulla, che non intendono comunicarci alcuna idea. O, se si vuole, trasmettono una sola idea: che il cervello umano non serve a pensare; usarlo a tale scopo è il più grave delitto che si possa commettere, da punire con la massima severità.