ESISTE QUEL CHE INTERAGISCE

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Mi sembra interessante condividere i passaggi che riporto sotto, tratti da “Frammenti postumi” di Nietzsche. L’autore in queste riflessioni mette in discussione l’Essere a favore del divenire, la logica quale mezzo per accomodare le cose “a modo nostro” e non legge “immanente” alle cose stesse, l’approccio conoscitivo fondato sul dualismo causa-effetto la cui cronologia viene sempre da noi capovolta, la falsa dualità tra mondo vero e mondo apparente, laddove la cosiddetta realtà vera del mondo è l’unica vera proiezione impropria, l’esistenza di una finalità del mondo medesimo, che come dice il Nostro, se esistesse sarebbe già stata raggiunta perché il passato è infinito eppure nessuna meta finale è stata toccata. Soprattutto, c’è in Nietzsche una concezione dell’Universo che precorre la scienza contemporanea. Il pensatore tedesco sostiene che: ‘Le proprietà di una cosa sono effetti su altre “cose”: se si immagina di eliminare le altre “cose”, una cosa non ha più proprietà; ossia: non c’ê una cosa senza altre cose, ossia: non c’è alcuna “cosa in sé”. La “cosa in sé” è un controsenso. Se immagino di abolire tutte le relazioni, le “proprietà”, le “attività” di una cosa, la cosa non rimane: infatti, la cosalità è una nostra finzione, è aggiunta da noi per bisogni logici, allo scopo di definire, di intenderci (per collegare una molteplicità di relazioni, qualità, attività)’.
Cosa dice la fisica dei nostri tempi in merito?
Che non esistono cose separate. Le cose agiscono le une sulle altre. L’interazione tra le cose è l’unica cosa. Un oggetto che non interagisce non esiste. La realtà, o quella che denominiamo realtà è un reticolo di inter-azioni nel quale noi stessi siamo immersi. Immaginate un uomo che non avesse nulla intorno, avrebbe coscienza di se stesso e del mondo? Esisterebbe? E per chi?
Buona lettura

Del valore del “divenire”.
Se il movimento del mondo avesse una meta, questa dovrebbe essere raggiunta. Ma l’unico fatto fondamentale è questo: quel movimento non ha alcuna meta; e ogni filosofia o ipotesi scientifica (ad esempio, il meccanicismo) in cui diventa necessaria una meta è confutata da quell’unico fatto fondamentale. Io cerco una concezione del mondo che renda conto di questo fatto. Il divenire deve essere spiegato senza ricorrere alla scappatoia di queste intenzioni finali: il divenire deve apparire giustificato in ogni momento (oppure deve apparire non valutabile: il che mette capo alla stessa conclusione): non è assolutamente lecito giustificare il presente con un avvenire, o il passato con il presente. La “necessità” non ha la forma di una forza totale onnicomprensiva, dominante; o di un primo motore; ancora meno va intesa come qualcosa che determina necessariamente un valore. Perciò bisogna negare una coscienza complessiva del divenire, un “Dio”, per non collocare tutto ciò che avviene entro la prospettiva di un essere che ha in comune con noi sentimenti e sapienza, e tuttavia non vuole nulla: “Dio” è inutile, se non vuole qualcosa, e d’altra parte con Dio si pone una somma di dispiacere e di illogicità che abbasserebbe il valore complessivo del ”divenire”; fortunatamente, manca precisamente una simile potenza che tiri le somme (un Dio che guida e vigila, un ‘ sensorio complessivo”, uno “spirito totale” sarebbe la più grande obiezione contro l’essere).
Più rigorosamente: non si deve ammettere alcun ente in generale poiché, se lo si ammette, il divenire perde il proprio valore e appunto perciò appare come privo di senso e superfluo.
Di conseguenza si deve chiedere: come poté (o dovette) sorgere l’illusione dell’ente? E così pure: come sono stati svalutati tutti i giudizi di valore basati sul1’ipotesi che ci sia l’ente? Ma con ciò si riconosce che questa ipotesi dell’ente è la fonte di tutte le calunnie rovesciate sul mondo: “il mondo migliore, il mondo vero, l’aldilà, la cosa in sé.
1) Il divenire non ha uno stato finale, non sfocia in un “Essere”.
2) Il divenire non è uno stato apparente; forse il mondo che è è un’apparenza.
3) Il divenire ha in ogni momento lo stesso valore: il suo valore totale rimane sempre uguale; in altri termini: il divenire non ha valore alcuno, poiché manca qualcosa su cui lo si possa misurare e in rapporto a cui la parola “valore” abbia senso.
Il valore complessivo del mondo non è valutabile, quindi il pessimismo filosofico rientra nel comico.
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Se il mondo può essere pensato come una determinata quantità di energia e come un determinato numero di centri di forza e ogni altra rappresentazione rimane indeterminata e quindi inutilizzabile ne segue che nel grande gioco di dadi della sua esistenza deve attraversare un numero calcolabile di combinazioni. In un tempo infinito, ogni possibile combinazione deve realizzarsi almeno una volta; di più: deve realizzarsi infinite volte. E poiché fra ogni “combinazione’ ‘ e il suo successivo “ritorno” dovrebbero intercorrere tutte le rimanenti combinazioni possibili in generale, e poiché ognuna di queste combinazioni condiziona l’intera successione di combinazioni della medesima serie, sarebbe dimostrato un ciclo di serie assolutamente identiche: si dimostrerebbe che il mondo è un ciclo che si è già ripetuto un’infinità di volte e che gioca in infìnitum il suo gioco.
Questa concezione non è semplicemente una concezione meccanicistica; infatti, se tale non fosse determinerebbe un infinito ritorno di casi identici, ma uno stato finale.
Poiché il mondo non ha raggiunto questo stato finale, la concezione meccanicistica del mondo ci deve apparire come un’ipotesi imperfetta e soltanto provvisoria.
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Conseguenze della lotta: il combattente cerca di trasformare il proprio avversario nel proprio contrario naturalmente, rappresentandoselo come tale. Cerca di credere in sé fino al punto di avere il coraggio della “buona causa” (quasi fosse lui stesso la buona causa): come se il suo avversario combattesse la ragione, il buon gusto, la virtù. .. La fede di cui ha bisogno come del più forte mezzo di aggressione e di difesa è una fede in se stesso, che pero è capace di fraintendersi come fede in Dio: non si rappresenta mai i vantaggi e l’utilità della vittoria, ma solo e sempre la vittoria per la vittoria come “vittoria di Dio”. Ogni piccola comunità che lotta (e perfino l’individuo) cerca di convincersi di questo: “Abbiamo dalla nostra il buon gusto, il giudizio e la virtù”… La lotta costringe a esagerare a tal segno la stima di sé. . .
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Io tengo per ferma la fenomenicità, anche del mondo interiore: tutto ciò di cui diventiamo consapevoli è anzi tutto completamente messo in ordine, semplificato, schematizzato, interpretato; il processo reale della “percezione interiore”, il nesso causale fra pensieri, sentimenti, desideri, fra soggetto e oggetto ci è assolutamente nascosto e forse è una pura immaginazione. Questo “mondo apparente interiore” è posto nelle medesime forme e tradotto con i medesimi procedimenti con cui è trattato il mondo “esterno”. Noi non ci imbattiamo mai in “fatti”; piacere e dispiacere sono fenomeni dell’intelletto tardivi e derivati. . . .
La “causalità” ci sfugge; l’ammettere un vincolo immediato causale fra i pensieri, come fa la logica, è conseguenza di una osservazione del tutto grossolana e goffa.
Tra due pensieri svolgono il loro gioco tutti gli affetti possibili: ma i movimenti sono troppo rapidi, perciò non li riconosciamo, li neghiamo. ..
Il “pensare” nel modo stabilito dai teorici della conoscenza non esiste affatto: è una finzione del tutto arbitraria, ottenuta ponendo in risalto un elemento del processo e sottraendo tutti gli altri, è un preparato artificioso inventato per capirsi…
Lo “spirito”: una cosa che pensa; e, se è possibile, “lo spirito assoluto, schietto, puro” questa concezione è una seconda conseguenza derivata da un’auto-osservazione erronea, che crede nel “pensiero”; qui viene anzitutto immaginato un atto che non ha luogo, “il pensiero”, e poi si immagina un sostrato, un soggetto in cui ha origine ogni atto di questo pensiero, e nient’altro: cioè, tanto l’azione quanto il suo autore sono fittizi.
Il fenomenismo del “mondo interiore”. Si dà un’inversione cronologica per cui la causa accede alla coscienza dopo l’effetto. Abbiamo imparato che il dolore viene proiettato in un punto del corpo, senza che abbia qui la sua sede.
Abbiamo imparato che la sensazione, che ingenuamente è ritenuta condizionata dal mondo esterno, è invece condizionata dal mondo interiore; che ogni vera azione del mondo esterno si svolge sempre in modo inconsapevole. . .
Il frammento di mondo esterno del quale prendiamo coscienza è nato in seguito all’effetto esercitato dall’esterno su di noi e successivamente viene proiettato come ”causa” di quell’effetto…
Nel fenomenismo del “mondo interiore” noi capovolgiamo la cronologia di causa ed effetto. Il fatto fondamentale della “esperienza interiore” è questo: la causa viene immaginata dopo che l’effetto ha avuto luogo.. .
Lo stesso vale anche per la successione dei pensieri: cerchiamo il motivo di un pensiero prima ancora che questo pensiero sia diventato cosciente per noi, e così accedono alla coscienza prima il motivo e poi la sua conseguenza. . .
Tutto il nostro sognare è l’interpretazione di sentimenti complessivi come possibili cause; e in modo tale che uno stato diventa cosciente solo quando è entrata nella coscienza la catena causale inventata per interpretarlo.
Tutta 1′ “esperienza interiore” è fondata su questo: si cerca e si rappresenta una causa dell’eccitamento dei centri nervosi e precisamente la causa trovata accede alla coscienza; questa causa non è assolutamente adeguata alla causa vera: è un andare a tentoni basandosi su precedenti “esperienze interne”, cioè sulla memoria. Ma la memoria conserva anche l’abitudine delle vecchie interpretazioni, cioè della falsa causalità cosicché 1′ “esperienza interiore” in sé deve soltanto sopportare le conseguenze di tutte le precedenti finzioni causali erronee. Il nostro “mondo esterno”, quale lo proiettiamo in ogni momento, è indissolubilmente mescolato e legato al vecchio errore della causa: lo interpretiamo in base allo schematismo della “cosa”…
L’ “esperienza interiore” accede alla nostra coscienza solo dopo che ha trovato una lingua che sia compresa dall’individuo; ciò significa la traduzione di uno stato in stati a lui più noti.
“Comprendere” significa molto semplicemente poter esprimere una cosa nuova nella lingua di cose vecchie, conosciute. Ad esempio: ‘io mi sento male” un simile giudizio presuppone una grande e matura neutralità dell’osservatore; l’ingenuo dice sempre: questo e questo fanno sì che io mi senta male si darà ragione del suo sentirsi male solo quando vedrà una ragione per sentirsi male…
Questo, io lo chiamo mancanza di filologia: il poter leggere un testo come testo, senza mescolarvi un’interpretazione, è la forma più tardiva della ”esperienza interiore” forse è una forma che a stento è possibile…
Non c’è né “spirito”, né ragione, né pensiero, né coscienza, né anima, né volontà, né verità: tutte finzioni inutilizzabili. Non si tratta di “soggetto e oggetto”, ma di una determinata specie animale che prospera soltanto a condizione di una relativa esattezza e soprattutto di una relativa regolarità delle sue percezioni (in modo da poter capitalizzare l’esperienza)…
La conoscenza lavora come strumento della potenza. Quindi, è evidente che aumenta col crescere della potenza. . .
Senso della “conoscenza”: come per le nozioni di “bene” e di “bello”, il concetto va preso in senso strettamente e rigorosamente antropocentrico e biologico. Affinché una determinata specie si conservi, e cresca in potenza, deve abbracciare nella sua concezione della realtà tante cose calcolabili e costanti da potervi costruire sopra uno schema della propria condotta. L’utilità per la conservazione e non un bisogno, teoricamente astratto, di non venir ingannati è il motivo soggiacente allo sviluppo degli organi della conoscenza… Questi si sviluppano in modo che l’osservazione condotta per il loro tramite basti a conservarci. In altri termini: la misura della volontà di sapere è proporzionale alla crescita della volontà di potenza della specie: una specie si impadronisce di molta realtà per diventarne padrona, per prenderla al proprio servizio.
Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni dicendo: “ci sono soltanto fatti”, io direi: no, appunto i fatti non esistono, esistono solo interpretazioni. Non possiamo stabilire nessun fatto “in sé”: forse è assurdo il volere qualcosa del genere.
Voi dite: “tutto è soggettivo”; ma già questo è una interpretazione. Il “soggetto” non è un che di dato, ma un che di immaginato in aggiunta, di posto sullo sfondo. E infine, è necessario porre anche un interprete dietro l’interpretazione? Già questo è immaginazione poetica, ipotesi.
Nella misura in cui la parola “conoscenza” ha in genere un senso, il mondo è conoscibile; ma lo si può interpretare in altro modo: esso non ha un senso dietro di sé, ma innumerevoli sensi. “Prospettivismo.”

Per la “parvenza logica”. I concetti di “individuo” e di “genere” sono ugualmente falsi, semplici parvenze. “Genere” esprime solamente il fatto che a un medesimo istante si presentano molti esseri simili e che la velocità del loro crescere e mutare è rallentata per lungo tempo, cosicché le piccole durate e i piccoli incrementi effettivi non hanno molta importanza (una fase dell’evoluzione in cui l’evolversi non è visibile, così che sembra raggiunto un equilibrio, e diventa possibile rappresentarsi erroneamente c’è qui sia raggiunto uno scopo e che nell’evoluzione ci sia stato uno scopo).
La forma è considerata come durevole e quindi pregevole: mala forma è soltanto inventata da noi; e per quanto spesso accada che “si raggiunge la medesima forma”, ciò non significa che sia la medesima bensì, appare sempre qualcosa di nuovo e solo noi, che paragoniamo, aggiungiamo questo nuovo, in quanto somiglia al vecchio, alla unita della “forma”. É come se si dovesse raggiungere un tipo che in certo qual modo si libra come un modello inerente al processo formativo.
La forma, il genere, la legge, l’idea, lo scopo qui si commette sempre lo stesso errore: sostituire a una finzione una falsa realtà, come se ciò che avviene avesse un qualche obbligo immanente all’obbedienza negli eventi si traccia un’artificiale distinzione fra ciò che agisce e ciò secondo cui l’azione si orienta (ma il che e il secondo cui sono posti soltanto per obbedire alla nostra dogmatica logico metafisica: non sono “dati di fatto”).
Non si deve intendere questa costrizione a formare concetti, generi, forme, scopi, leggi ( un mondo di casi identici”) come se con ciò noi fossimo in grado di fissare il mondo vero, ma come una costrizione ad allestirci un mondo in cui sia resa possibile la nostra esistenza creiamo un mondo che ci risulta calcolabile, semplificato, intelligibile ecc.
Questa stessa costrizione consiste nell’attivitd dei sensi sostenuta dall’intelletto dalla semplificazione, dal rendere le cose più grossolane, dall’accentuarle e interpretarle: su ciò riposa ogni “riconoscimento”, ogni possibilità dí renderci intelligibili le cose. I nostri bisogni hanno così perfezionato i nostri sensi che ritorna sempre “lo stesso mondo fenomenico”, sino ad assumere l’aspetto della realtà.
La nostra necessità soggettiva di credere alla logica significa soltanto che noi, molto tempo prima che avessimo coscienza della logica, non facemmo altro che introdurre postulati fra gli eventi: e oggi li troviamo fra gli eventi e non possiamo fare altro e opiniamo che questo bisogno ci dia una garanzia della “verità”. Siamo stati noi a creare “la cosa”, la “cosa identica”, il soggetto, il predicato, l’azione, l’oggetto, la sostanza, la forma, dopo esserci per lunghissimo tempo esercitati a rendere uguali, a rendere grossolane e semplici le cose. Il mondo ci appare logico perché noi prima lo abbiamo logicizzato.
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Critica del concetto di “causa”.
Noi non abbiamo assolutamente esperienza di una causa; in base a un calcolo psicologico, questo concetto ci deriva interamente dalla convinzione soggettiva che noi siamo causa, ad esempio del fatto che il braccio si muova… Ma questo è un errore.
Separiamo noi stessi, gli agenti, dall’azione, e di questo schema facciamo uso dappertutto cerchiamo un autore di ogni evento. Che cosa abbiamo fatto? Abbiamo frainteso come causa una sensazione dí forza, tensione, resistenza, una sensazione muscolare che è già l’inizio dell’azione, oppure abbiamo compreso come causa la volontà di fare questo o quell’altro, perché a questa volontà segue l’azione.
La “causa” non appare: per alcuni casi in cui la causa ci pareva data, mentre l’avevamo proiettata fuori di noi per comprendere gli eventi, è dimostrato che ci siamo illusi. La nostra “comprensione di un evento” consisteva in questo: abbiamo inventato un soggetto responsabile del fatto che una cosa sia avvenuta e del modo in cui è avvenuta. Abbiamo raccolto nel concetto di “causa” il nostro sentimento della volontà, il nostro sentimento della “libertà”, il nostro sentimento della responsabilità e la nostra intenzione di compiere un’azione: causa efficiens e causa finalis nella concezione fondamentale sono una cosa sola. Opiniamo che un’azione sia spiegata se si indica uno stato al quale sia già inerente. In realtà, noi inventiamo tutte le cause secondo lo schema dell’effetto: l’effetto ci è noto. . . Viceversa, non siamo in grado di prevedere quale sarà 1’ “effetto” di una qualsiasi cosa. La cosa, il soggetto, la volontà, l’intenzione tutto ciò è inerente alla concezione della “causa”. Noi cerchiamo cose che ci spieghino perché una cosa sia mutata. … Da una necessaria successione circostanze non segue il loro rapporto causale (ossia la loro facoltà efficiente di far saltare da 1 a 2, a 3, a 4, a 5). Non ci sono né cause, né effetti. Parlando, non ce ne sappiamo sbarazzare. Ma questo non significa nulla. Se penso al muscolo indipendentemente dai suoi effetti, con ciò l’ho negato… In summa: un evento non è né operato, né operante; ‘causa è una capacita di operare inventata e aggiunta all’evento…l’interpretazione causale è un ‘illusione… Una “cosa” è la somma dei suoi effetti, riuniti sinteticamente per mezzo di un concetto, di un’immagine. A ben vedere, la scienza ha svuotato del suo contenuto il concetto di causalità e l’ha conservato come una formula di uguaglianza, nella quale in fondo è diventato indifferente da quale parte stia la causa e da quale l’effetto. Si afferma che in due stati complessi (costellazioni di forza) le quantità di energia restano uguali.
La calcolabilità di un evento non consiste nel fatto che si sia seguita una regola, o si sia obbedito a una necessita, o che abbiamo proiettato in ogni evento una legge di causalità: consiste nel ritorno di casi identici. Non esiste, come pensa Kant, un senso della causalità. Ci si meraviglia, si è inquieti, si vuole qualcosa di noto a cui potersi attenere..’. Non appena nel nuovo ci viene mostrato qualcosa di vecchio, siamo tranquilli. Il preteso istinto di causalità è soltanto la paura dell’insolito e il tentativo di scoprire qualcosa di noto una ricerca non di cause, ma di cose note.

Le proprietà di una cosa sono effetti su altre “cose”: se si immagina di eliminare le altre “cose”, una cosa non ha più proprietà; ossia: non c’ê una cosa senza altre cose, ossia: non c’è alcuna “cosa in sé”. La “cosa in sé” è un controsenso. Se immagino di abolire tutte le relazioni, le “proprietà”, le “attività” di una cosa, la cosa non rimane: infatti, la cosalità è una nostra finzione, è aggiunta da noi per bisogni logici, allo scopo di definire, di intenderci (per collegare una molteplicità di relazioni, qualità, attività).
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Critica del concetto di “mondo vero e mondo apparente”.
Di queste due nozioni, la prima è una semplice finzione, formata da cose puramente immaginarie.
L’ “apparenza” stessa appartiene alla realtà: è una forma del suo essere; cioè, in un mondo in cui non si dà alcun Essere, bisogna anzitutto creare mediante l’apparenza un certo mondo calcolabile fatto di casi identici; un tempo in cui sia possibile osservare e paragonare ecc.
“L’apparenza” è un mondo arrangiato e semplificato, a cui hanno lavorato i nostri istinti pratici: per noi è perfettamente adeguato, infatti ci viviamo, possiamo viverci: prova della sua verità per noi…
Quel mondo che prescinde dalla nostra condizione, dal fatto che ci viviamo, quel mondo che noi non abbiamo ridotto al nostro essere, alla nostra logica e ai nostri pregiudizi psicologici, non esiste come mondo “in sé”: è essenzialmente un mondo di relazioni; guardato da punti di vista diversi assume, secondo le circostanze, un aspetto diverso; il suo essere differisce essenzialmente in ogni punto: preme sopra ogni punto, ogni punto gli resiste e in ogni caso la somma totale è completamente incongrua.
Una quantità di potenza determina l’essenza di un’altra quantità di potenza: in quale forma, con quale violenza e necessita agisca o resista.
Il nostro caso particolare è abbastanza interessante: abbiamo creato una concezione per poter vivere in un mondo, per percepire con un’esattezza sufficiente a cavarcela.. .
La nostra ottica psicologica è determinata così:
1) La comunicazione è necessaria, e per la comunicazione deve esserci qualcosa di fisso, semplificato, precisabile (soprattutto dei casi identici). Ma perché una cosa possa essere comunicabile deve essere “riconoscibile”. Il materiale dei sensi elaborato dall’intelletto, ridotto a grossolani tratti principali, uniformato, ordinato secondo categorie di affinità. Quindi, la non perspicuità e il caos delle impressioni dei sensi vengono per così dire logicizzati.
2) Il mondo dei ‘ “fenomeni” è il mondo elaborato, che noi percepiamo come reale. La “realtà” consiste nell’eterno ritorno di cose eguali, note, affini, nel loro carattere logicizzato, nella fede nella possibilità di un calcolo.
3) L’opposto di questo mondo fenomenico non è “il mondo vero”, ma il mondo informe e non formulabile del caos delle sensazioni ossia un’altra specie di mondo fenomenico che per noi è “inconoscibile”.
4) Le domande su come possano essere le “cose in sé”, astraendo completamente dalla ricettività dei nostri sensi e dall’attività del nostro intelletto, vanno respinte opponendo la domanda: come possiamo sapere che esistono cose? La “cosalità” è stata creata precisamente da noi. La questione è, se non ci possano essere molti altri modi di creare un simile mondo apparente e se questo creare,
logicizzare, respingere, falsificare _non sia la realtà meglio garantita: insomma, se non sia reale solamente ciò che ” “pone le cose”, e se l’ “azione del mondo esterno su di noi” non sia anch’essa il risultato di simili soggetti volenti…
Gli altri “esseri” agiscono su di noi; il mondo delle apparenze, elaborato da noi, è un’elaborazione e un superamento delle azioni di quegli esseri, una specie di misura difensiva.
Soltanto il soggetto è dimostrabile: l’ipotesi che esistano solo soggetti che 1′ “oggetto” sia solo un modo dell’azione di un soggetto su un soggetto, un modus del soggetto.
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L’errore dei filosofi si basa sul fatto che, invece di vedere nella logica e nelle categorie della ragione dei mezzi per accomodare il mondo a dei fini utili (e quindi, in linea di principio, al fine di un’utile falsificazione), si credette di avere con esse il criterio della verità, ovvero della realtà. Il “criterio della verità” era effettivamente solo l’utilità biologica di un simile sistema falsifìcante per principio: e poiché una specie animale non conosce nulla di più importante della propria conservazione, qui si poté realmente parlare di verità . L’ingenuità fu solo quella di prendere l’idiosincrasia antropocentrica come misura delle cose, come norma del “reale” e dell’ “irreale”: in breve, di rendere assoluto qualcosa di condizionato. E, guarda un po’, ora il mondo si scisse di colpo in un mondo vero e in un mondo “apparente”: e precisamente il mondo per cui l’uomo aveva inventato la propria ragione, per abitarlo, per viverci a proprio agio esattamente questo mondo venne screditato. Invece di utilizzare le forme come strumenti per renderci il mondo manipolabile e determinabile, la folle intelligenza dei filosofi scoprì che in queste categorie è nascosto il concetto di quel mondo al quale non corrisponde il mondo in cui viviamo… I mezzi furono fraintesi come un criterio del valore, persino come ciò che condanna lo scopo a cui essi intendevano servire…
L’intenzione era di illudersi utilmente; e il suo mezzo fu l’invenzione di formule e segni con cui ridurre la sconcertante molteplicità a uno schema maneggiabile e conforme allo scopo. Ma, ahimè! Ora si introdusse nel gioco una categoria morale: nessuna creatura vuole ingannare se stessa, a nessuna creatura è lecito ingannarsi quindi c’è soltanto una volontà di verità. Che cos’è la “verità”? ›
Il principio di contraddizione forni lo schema: il mondo vero, verso il quale si cerca la via, non può trovarsi in contraddizione con se stesso, non può variare, non può divenire, non ha origine e non ha fine.
É questo il massimo errore che si sia mai commesso, il vero errore fatale se mai ce ne furono: si credette di avere un criterio della realtà nelle forme della ragione, mentre le si posseggono per dominare la realtà, per fraintendere la realtà con saggezza…
E guarda un po’: ora il mondo diventò falso, ed esattamente a causa delle caratteristiche che ne compongono la realtà: variazione, divenire, molteplicità, contrasto, contraddizione, guerra. Ed ecco avverato il destino funesto.
1) Come ci si sbarazza del mondo falso, del mondo semplicemente apparente? (Quello che fu il mondo reale, l’unico.)
2) Come potremmo assumere noi stessi il carattere opposto a quello del mondo apparente? (Concetto della creatura perfetta come opposto di ogni creatura reale; piü chiaramente: contraddizione contro la vita…)
3) Tutti i valori erano orientati verso la calunnia della vita;
4) si creò confusione tra idealdogmatismo e conoscenza in genere, così che il partito opposto prese anch’esso in orrore la scienza.
La via verso la scienza fu così doppiamente sbarrata: una volta dalla credenza nel mondo “vero”, un’altra dagli avversari di questa credenza. _
La scienza della natura e la psicologia furono 1) condannare per i loro oggetti, 2) private della loro innocenza…
Nel mondo reale, in cui tutto senza eccezione è concatenato e condizionato, il condannare ed eliminare nel pensiero una qualsiasi cosa significa eliminare e condannare tutto.
Le parole: “questo non dovrebbe essere”, “non avrebbe dovuto essere”, sono farsesche. .. Pensando sino in fondo alle conseguenze, si è rovinata la fonte della vita volendo eliminare ciò che è in qualche senso dannoso, distruttivo. La fisiologia lo dimostra meglio!
Vediamo che la morale a) avvelena l’intera concezione del mondo, b) taglia la via verso la conoscenza, verso la scienza, c) dissolve tutti gli istinti reali e li mina (in quanto insegna a sentirne le radici come immorali).
Di fronte a noi vediamo lavorare un temibile strumento di décadence che si conserva con í nomi più sacri e con i più santi atteggiamenti.
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L’uomo cerca “la verità”: un mondo che non si contraddica, non inganni, non cambi, un mondo vero un mondo in cui non si soffra: contraddizione, inganno, mutamento sono cause di sofferenza! L’uomo non dubita che esista un mondo quale deve essere; vorrebbe cercare la via per giungervi. (Critica indiana: perfino l’ “io” è considerato apparente, non reale.) Ma l’uomo donde prende il concetto di realtà? Perché fa derivare proprio la sofferenza dal mutamento, dalla illusione, dalla contraddizione? E non ne fa piuttosto derivare la sua felicita? Il disprezzo, l’odio per tutto ciò che passa, cambia, si trasforma donde viene questa valutazione di ciò che permane? Evidentemente, qui la volontà di verità è semplicemente il desiderio di un mondo dove tutto rimanga stabile. I sensi ingannano, la ragione corregge gli errori: quindi, si concluse, la ragione è la via verso ciò che è durevole; le idee meno accessibili ai sensi devono essere le piü vicine al mondo vero. Dai sensi proviene la maggior parte degli oltraggi della sventura: sono ingannatori, seduttori, distruttori. La felicita può essere garantita soltanto da ciò che è: mutamento e felicita si escludono. Quindi il supremo desiderio mira all’unione con ciò che è. E questa la strana via verso la suprema felicità. In summa: il mondo, quale dovrebbe essere, esiste; questo mondo in cui viviamo è un errore, questo nostro mondo non dovrebbe esistere.’ La fede nell’ente si rivela come una semplice conseguenza: il vero primum mobile è la mancanza di fede nel divenire, la diffidenza verso il divenire, il disprezzo di ogni divenire… Quale specie di uomini ragiona così? Una specie improduttiva, sofferente, una specie stanca della vita. Se immaginiamo la specie opposta, questa non avrebbe bisogno di credere nell’ente: anzi, lo disprezzerebbe come morto, noioso, indifferente. . . La credenza per cui il mondo che dovrebbe essere è, che esista realmente, è una credenza degli improduttivi, che non vogliono creare un mondo quale deve essere. Costoro lo pongono come già presente, cercano mezzi e vie per giungerci. “Volontà di verità”: impotenza della volontà di creare.
Conoscere che una cosa è in un determinato modo fare si che una cosa divenga in un determinato modo: Antagonismo nei gradi di forza delle nature.
Finzione di un mondo che risponda ai nostri desideri; espedienti psicologici e interpretazioni per legare a questo mondo vero tutto ciò che onoriamo e che sentiamo come piacevole. “Volontà di verità” a questo livello è essenzialmente arte dell’interpretazione; e per quest’arte è sempre e comunque necessaria le forza di interpretare. La stessa specie di uomini, diventata ancor più povera, scesa di un altro gradino, non più in possesso della forza di interpretare, di creare finzioni, è nichilista. Un nichilista è l’uomo che giudica che il mondo così com’è non dovrebbe essere, e del mondo quale dovrebbe essere giudica che non esiste. Quindi per lui l’esistenza (agire, soffrire, volere, sentire) non ha alcun senso: il pathos dell’ “invano” è il pathos del nichilista inoltre, sempre come pathos, è una incoerenza del nichilista.
Chi non sa mettere la propria volontà dentro le cose, chi è privo di volontà e di forza, pone almeno ancora un senso nelle cose, ossia crede che ci sia racchiusa una volontà. Il grado di forza di volontà è misurato da quanto si riesce a fare a meno di un senso insito nelle cose, da quanto si è capaci di resistere in un mondo privo di senso, perché se ne organizza un piccolo frammento. Quindi lo sguardo filosofico oggettivo può essere un segno di carenza di volontà e di forza. Infatti, l’energia organizza ciò che è vicino e prossimo; chi “conosce”, chi vuole soltanto stabilire ciò che è, è uno che non può stabilire niente come dovrebbe essere.

Il mondo vero e il mondo apparente
Le seduzioni che derivano da questo concetto sono di tre tipi: un mondo ignoto: noi siamo avventurieri, curiosi ciò che è noto sembra annoiarci (il pericolo di questo concetto sta nell’insinuare che “questo” mondo ci sia conosciuto…); un altro mondo, dove le cose sono diverse; c’è in noi qualcosa che calcola: la nostra tacita devozione, il nostro silenzio perdono il loro valore forse tutto andrà bene, non abbiamo sperato invano… Il mondo dove le cose sono diverse, dove noi stessi (chissà?) siamo diversi… Un mondo vero: è questo il tiro e l’attacco più sorprendente che mai sia stato tentato contro di noi; la parola “vero” è piena di incrostazioni e noi, involontariamente, le regaliamo anche al “mondo vero”: il mondo vero deve essere anche veridico, un mondo che non ci inganna e non ci prende in giro; credere in esso è quasi un dovere necessario (per decoro, come avviene tra persone degne di fiducia).
*****
Il concetto di ”mondo ignoto” insinua che questo mondo sia “conosciuto” (noioso); il concetto di “altro mondo” insinua che il mondo potrebbe essere diverso sopprime la necessita e il fato (è inutile sacrificarsi, adattarsi); il concetto di ‘ ‘mondo vero” insinua che questo nostro mondo sia non veritiero, ingannatore, disonesto, falso, inessenziale e quindi un mondo non subordinato alla nostra utilità (non conviene adattarvisi; meglio: opporsi). Noi sfuggiamo così in tre modi a “questo” mondo: con la nostra curiosità come se la parte più interessante si trovasse altrove; con la nostra rassegnazione come se non fosse necessario rassegnarsi, come se questo mondo non fosse una necessità di infimo rango; con la nostra simpatia e stima come se il mondo non le meritasse, come se questo mondo fosse impuro e sleale verso di noi… Insomma, noi ci rivoltiamo in tre modi: abbiamo fatto di una x la critica del “mondo conosciuto”.
Primo passo della riflessione: comprendere quanto siamo sedotti cioè: le cose potrebbero stare esattamente alla rovescia:
a) il mondo ignoto potrebbe essere conformato in modo da darci il gusto di “questo” mondo come una forma di esistenza forse stupida e inferiore;
b) l’altro mondo, trascurando la questione se faccia tornare i conti dei nostri desideri non soddisfatti in questo, potrebbe far parte delle tante cose che ci rendono possibile questo mondo: imparare a conoscerlo sarebbe un mezzo per diventare contenti;
c) il mondo vero; ma chi ci dice sul serio che il mondo apparente debba avere meno valore di quello vero? Il nostro istinto non contraddice forse questo giudizio? Forse che l’uomo non si crea eternamente un mondo immaginario perché vuole avere un mondo migliore della realtà? Soprattutto: come giungiamo a credere che non il nostro mondo sia quello vero?… In primo luogo, proprio l’altro mondo potrebbe essere quello “apparente”. Effettivamente, i Greci pensarono a un regno delle ombre, a un’esistenza apparente, accanto alla vera esistenza. E finalmente: che cosa ci da il diritto di stabilire qualcosa come dei gradi di realtà? Questo è alcunché di diverso da un mondo ignoto è già un voler sapere qualcosa dell’ignoto.
N.B. L’ “altro” mondo, quello ignoto va bene! Ma dire “mondo vero” significa ”saperne qualcosa”: e questo è il contrario della supposizione di un mondo x…In summa: il mondo x potrebbe essere in ogni senso più noioso, inumano e indegno di questo. Diverso sarebbe se si sostenesse che esistono x mondi, ossia anche tutti gli altri mondi possibili, al di fuori di questo. Ma ciò non fu mai sostenuto… ¬
Problema: perché la rappresentazione dell’altro mondo ha sempre mirato a svantaggiare, ovvero criticare questo mondo? Che cosa indica? Ossia: un popolo fiero di sé, che vive una parabola ascendente, pensa sempre l’essere altro come un essere inferiore, di minor valore; considera il mondo straniero, ignoto, come suo avversario, si sente privo di curiosità, ripudia completamente ciò che gli è estraneo. .. Un popolo non ammetterebbe che un altro popolo sia il “vero popolo”.. .
E già sintomatico che sia possibile una tale distinzione che si consideri questo mondo come ”apparente” e quello come “vero”.
Il focolaio della rappresentazione “altro mondo”: il filosofo, che inventa un mondo della ragione dove la ragione e le funzioni logiche risultano adeguate: qui sorge il mondo “vero”; l’uomo religioso, che inventa un “mondo divino”: qui sorge il mondo “snaturalizzato, antinaturale”; l’uomo morale, che finge un “mondo libero” qui sorge un mondo “buono, perfetto, giusto, santo”.
Ciò che è comune ai tre focolai in cui nasce “l’altro mondo”: l’errore psicologico, le confusioni fisiologiche; “l’altro mondo”, quale effettivamente a pare nella storia, da quali attributi è caratterizzato? Dalle stigmate del pregiudizio filosofico, religioso, morale..
L’ “altro mondo” chiarito da questi fatti è sinonimo di non essere, del non vivere, del non voler vivere.. .
Veduta d’insieme l’istinto della stanchezza del vivere, e non quello della vita, ha creato l altro mondo. Conseguenza: filosofia, religione e morale sono sintomi della décadence.