FINTA ONESTA’ E VERO SACCHEGGIO PUBBLICO

MONTI

Monti sale, predicato ascensionale. Sale in politica per convincere il popolo, di cui non aveva mai sentito parlare fino ad ora, circa la diversità che c’è tra lui e gli altri leader i quali, prima della sua apparizione in Parlamento, scendevano in campo ed anche più sotto. Complici il nano, le sue ballerine ed un esercito di lacchè a sua piena disposizione e con predisposizione naturale al servaggio. Con lui invece la dialettica padrone-servo viene rovesciata ed il cortigiano delle consorterie mondiali si presenta quasi in prima persona (la cosa non è ancora chiara), ovviamente conto terzi. Per la verità anche qui manca la trasparenza, perché Monti più che la faccia ci mette l’Agenda, che al contrario dell’etica ha molte pagine, basta girarne qualcuna e ci si ritrova di fronte ad un foglio pulito sul quale riscrivere agiograficamente le proprie lodi. Chi si loden s’imbroda. Marcata questa facile differenza, la strada, almeno secondo il bocconiano, dovrebbe farsi subito in discesa poiché lo stile, l’eleganza, la misura, la credibilità sulle passerelle internazionali sono il suo biglietto da visita. Non sarà una discesa in campo ma la sua assomiglia fin troppo ad una sfilata mondana che con la politica elevata non c’entra nulla. Dietro la sceneggiata della sobrietà c’è la disfatta dell’Italia, un copione che si ripete da vent’anni.

Quindi più che una concezione alta della disputa istituzionale Monti ha una visione aristocratica della cosa pubblica, quella di un barone rampante dai titoli accademici acquisiti senza grandi meriti dottorali (difatti, è rettore prima che professore) grazie a legami internazionali, dalla Trilaterale al Bilderberg, da Goldman Sachs a Bruegel. Barone o marchese, in ogni caso, lui è lui e noi non siamo niente, per chi non l’avesse ancora capito.

Monti sale sul suo cognome d’altura, sospinto dai citati poteri forti, esterni ed anche interni, (dalla Fiat alle banche, il peggio, insomma, dell’alleanza ferale tra Industria Decotta e Grande Finanza che ha distrutto il Paese), per guardarci dall’alto in basso e sputarci addosso. Parafrasando Robert Frost, per Mario Monti la politica è un’ambizione verticale per metterci tutti in orizzontale. Peraltro, ci vuole davvero la sua cera imperscrutabile, con gli occhi di vetro e la bocca che sembra la fessura di un bancomat, per chiamare rinnovamento una lista che porta il suo nome ed è infarcita di vecchi arnesi della prima e della seconda Repubblica, politicanti di mestiere e delinquenti di fatto.

Almeno sulla carta si trova già in pareggio con gli altri sfidanti, perché nonostante la salita, è circondato da saliva, poche idee, tanta confusione e quel tocco di snobismo cattedratico che lo rende il più antipatico di tutti.

La fantomatica Agenda Monti, scritta, pare, da Pietro Ichino con l’inchino e una bella giravolta che ha fatto arrabbiare i suoi compagni di partito, è una serqua di luoghi comuni senza coraggio dove si mescolano vecchie concezioni parassitarie e ubbie iperliberiste che scontentano tanto i burosauri abituati a vivere attaccati alla mammella pubblica che i tromboni del libero scambio, gli unici ancora disposti a credere ai fantasmi della mano invisibile.

Gli apostoli del mercato Giavazzi-Alesina (mezzo cervello in due?) sono già intervenuti per dire che il Programma di Monti non taglia abbastanza le spese mentre prosegue sulla linea errata della conservazione dell’industria strategica, da svendere al peggior offerente. Dall’altro lato ci sono, invece, quei soggetti corporativi, a partire dai sindacati, i quali leggono tradizionalmente lo Stato come un monoblocco indirizzato a contemperare gli interessi generali della collettività. Secondo quest’ultimi il Piano “quinquennale” di Monti è una mannaia sui diritti dei dipendenti pubblici, sui pensionati, sui pochi salariati ancora garantiti dalla tessera “confederale” ma, soprattutto, sulle loro prerogative nomenclaturali. Tutti gli altri, dai precari, agli autonomi, alle PMI possono andare a farsi rappresentare nell’altro mondo perché non pagano le quote sindacali e perché non credono agli spettri della concorrenza, trovandosi spesso di fronte alla realtà di un conflitto imprenditoriale e occupazionale senza esclusioni di colpi che dipende dalle conoscenze politiche per ottenere assunzioni o appalti e dalla capacità di saper ungere le persone giuste per sopravvivere nel mondo del piccolo business italico.

Quello che però non abbiamo ancora imparato, noi italiani pronti a riconsegnare il governo della nazione nelle mani di questi pericolosissimi ciarlatani, è che quando qualcuno dice di avere la coscienza limpida in realtà non ha mai avuto una coscienza. Per questo tra tutti gli sfidanti della prossima competizione elettorale, Mario Monti è il più nefasto e poiché anche i suoi antagonisti affermano di voler porsi in continuità con le politiche del precedente governo tecnico coltivano il seme della rovina nei loro fini. Purtroppo, in assenza di colpi di scena, ormai alquanto improbabili, il nostro futuro sarà caratterizzato da catastrofe assicurata. Moriremo di finta onestà e di vero saccheggio nazionale.

Vi lasciamo con alcuni brani di importanti pensatori molto calzanti per la nostra tragica situazione, già proposti qualche tempo fa. Cordoglio e Buon anno a tutti.

 

Benedetto Croce: “L’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli e prende forma nelle non cantate prose delle loro invettive e declamazioni e utopie, è quello di una sorta di areopago, composto di onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del proprio paese. Entrerebbero in quel consesso chimici, fisici, poeti, matematici, medici, padri di famiglia, [Professori] e via dicendo, che avrebbero tutti per fondamentali requisiti la bontà delle intenzioni e il personale disinteresse, e, insieme con ciò, la conoscenza e l’abilità in qualche ramo dell’attività umana, che non sia peraltro la politica propriamente detta: questa invece dovrebbe, nel suo senso buono, essere la risultante di un incrocio tra l’onestà e la competenza, come si dice, tecnica. Quale sorta di politica farebbe codesta accolta di onesti uomini tecnici, per fortuna non ci è dato sperimentare, perché non mai la storia ha attuato quell’ideale e nessuna voglia mostra di attuarlo. Tutt’al più, qualche volta, episodicamente, ha per breve tempo fatto salire al potere in quissimile di quelle elette compagnie, o ha messo a capo degli Stati uomini e da tutti amati e venerati per la loro probità e candidezza e ingegno scientifico e dottrina; ma subito poi li ha rovesciati, aggiungendo alle loro alte qualifiche quella, non so se del pari alta, d’inettitudine”.

Bernard Mandeville: “Abbandonate dunque le vostre lamentele, o mortali insensati! Invano cercate di accoppiare la grandezza di una nazione con la probità. Non vi sono che dei folli, che possono illudersi di gioire dei piaceri e delle comodità della terra, di esser famosi in guerra, di vivere bene a loro agio, e nello stesso tempo di essere virtuosi. Abbandonate queste vane chimere! Occorre che esistano la frode, il lusso e la vanità, se noi vogliamo fruirne i frutti. La fame è senza dubbio un terribile inconveniente. Ma come si potrebbe senza di essa fare la digestione, da cui dipendono la nostra nutrizione e la nostra crescita? Non dobbiamo forse il vino, questo liquore eccellente, a una pianta il cui legno è magro, brutto e tortuoso? Finché i suoi pampini sono lasciati abbandonati sulla pianta, si soffocano l’uno con l’altro, e diventano dei tralci inutili. Ma se invece i suoi rami sono tagliati, tosto essi, divenuti fecondi, fanno parte dei frutti più eccellenti .È così che si scopre vantaggioso il vizio, quando la giustizia lo epura, eliminandone l’eccesso e la feccia. Anzi, il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtú da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa. Per far rivivere la felice età dell’oro, bisogna assolutamente, oltre all’onestà riprendere la ghianda che serviva di nutrimento ai nostri progenitori”.

Vilfredo Pareto: “….Gli storici lodano il tempo passato; ma quando si tratta di testimoniare sul tempo in cui vivono la scena cambia e sono piuttosto portati ad oscurarne spesso le tinte. In ogni caso, se crediamo alle testimonianze dei contemporanei, è impossibile ammettere che siano i buoni costumi dei popoli, e ancora meno dei loro capitani, che abbiano assicurato le vittorie. Ecco, per esempio, la ritirata dei diecimila; ciò che li salva, è la loro perfetta disciplina, la loro obbedienza agli strateghi; quanto ai loro costumi, lasciano molto a desiderare. Vedete ciò che accade quando gli strateghi decidono d’allontanare tutte le bocche inutili; i soldati sono costretti ad obbedire, «eccetto alcuni che sottraggono o un giovinetto o una bella donna ai quali sono attaccati». Quanto a Senofonte, i suoi costumi possono essere stati i più casti, ma il suo linguaggio non è tale nel Convito; e se si fosse astenuto da questo genere di letteratura, il mondo non vi avrebbe perduto nulla. Val meglio non parlare dei costumi di Filippo il Macedone e delle persone che l’attorniavano. Allorché la battaglia di Cheronea abbatté la potenza ateniese e asservì la Grecia, non si può veramente dire che fu la castità che riportò la vittoria. Filippo, oltre le concubine senza numero, prendeva donne dovunque ne trovava. Né le cause della sua morte possono onestamente raccontarsi. Passiamo rapidamente sui costumi dei valenti capitani, come Demetrio Poliorcete (il conquistatore di città), perché il meno che si possa dire è che furono infami. Alcibiade era pure lontano, molto lontano, dall’avere buoni costumi; tuttavia, se egli avesse comandato in Sicilia, al posto di quell’onesto ed imbecille Nicia, forse Atene avrebbe evitato un disastro irreparabile. I bacchettoni ateniesi che intentarono un’azione penale ad Alcibiade, sotto pretesto della mutilazione delle Erme, furono probabilmente la causa della rovina della loro patria. Più tardi ad Egospotami, se i generali greci avessero seguito il consiglio di Alcibiade, avrebbero salvato la flotta ateniese e la loro città. I generali avevano forse costumi migliori di Alcibiade — ciò non era veramente difficile — ma, quanto all’arte della guerra, gli erano molto inferiori e si fecero battere vergognosamente. Se passiamo ai romani, ci è difficile scorgere virtuisti nei cittadini che, ai giuochi Floreali, facevano comparire sulla scena cortigiane interamente nude. Un giorno che Catone di Utica — il virtuoso Catone — assisteva ai giuochi Floreali, il popolo non osava, in sua presenza, domandare che le mime si spogliassero dei loro vestiti. Un amico avendo fatto osservare ciò a Catone, questi lasciò il teatro onde permettere al popolo di godere lo spettacolo abituale. Se Catone fosse stato un virtuista, sarebbe rimasto al teatro per impedire quello scandalo; ma Catone era solamente un uomo di costumi austeri adstricti continentia mores. I complici di Catilina avevano cattivissimi costumi; si sarebbe soddisfatti poter dire che erano vili; disgraziatamente la verità è il contrario. Sallustio ci narra come caddero nella battaglia di Fiesole. «Ma fu quando la battaglia finì che si poté veramente vedere quale audacia, quale forza d’animo vi fosse nell’esercito di Catilina. Perché ciascuno, dopo la sua morte, copriva con il corpo il luogo che aveva occupato durante la pugna. Un piccolo numero solamente, che era stato disperso dalla coorte pretoriana, era caduto un poco diversamente, ma tutti erano stati feriti davanti.» Non è sicuro che tutti i virtuisti avrebbero fatto altrettanto…Napoleone I non era casto; i suoi marescialli, i suoi generali e i suoi soldati, ancora meno. Essi riportarono tuttavia molte vittorie e, in quanto alla disfatta che ebbero in Russia, sarebbe difficile di vedervi un trionfo dei buoni costumi sui cattivi. Maurizio di Sassonia, che salvò la Francia dalla invasione straniera, era un grande capitano, ma aveva costumi molto cattivi. Sarebbe stato meglio per la Francia che egli fosse stato virtuista e che si fosse fatto battere a Fontenoy? Nelson, il vincitore di Trafalgar, era lontano dall’esser molto casto. I suoi amori con Lady Hamiltonsono conosciuti. Invece del Nelson, sarebbe stato meglio per l’Inghilterra, avere un ammiraglio virtuista, ma che avesse perduto le battaglie navali d’Aboukir e di Trafalgar?”

Karl Marx: “Un  filosofo  produce  idee,  un  poeta  poesie,  un  pastore  prediche,  un  professore compendi, eccetera. Un delinquente produce delitti. Se si considera piu’da vicino la connessione  che  esiste  fra  questa  ultima  branca  di  produzione  e  l’insieme  della societa’, si abbandoneranno  molti pregiudizi. Il criminale non solo produce crimini, ma  anche il  diritto penale  e  quindi  anche  il  professore  che tiene  cattedra di  diritto penale,  e  l’inevitabile  manuale  in  cui  questo  stesso  professore  getta  sul  mercato generale  i  suoi  contributi  come  “merce”.  Cio’  provoca  un  aumento  della  ricchezza nazionale,  senza  contare  il  piacere  personale  che,  come  ci  assicura  un  testimonio competente, il professor Roscher, la composizione del manuale procura al suo autore. Il criminale produce inoltre tutta l’organizzazione poliziesca e la giustizia penale, gli sbirri,  i  giudici,  i  boia,  i  giurati,  eccetera,  e  tutte  quelle  differenti  professioni  che formano  altrettante  categorie  della  divisione  sociale  del  lavoro,  sviluppano  le differenti  facolta’  dello  spirito  umano,  creano  nuovi  bisogni  e  nuove  maniere  di soddisfarli.  La  sola  tortura  ha  dato  occasione  alle  piu’ ingegnose  invenzioni meccaniche, e nella produzione dei suoi strumenti ha dato impiego a una massa di onesti  lavoratori. Il delinquente produce un’impressione, sia morale che tragica, secondo i casi, e rende cosi’ un “servizio” al movimento dei sentimenti morali ed estetici del pubblico. Egli non produce soltanto manuali di diritto penale, codici penali e legislatori penali, ma produce  anche  arte,  bella  letteratura,  romanzi  e  perfino  tragedie,  come  dimostrano non solo “La colpa” di Mullner o “I masnadieri” di Schiller, ma anche l’ “Edipo” e il “Riccardo Terzo”. Il criminale rompe la monotonia e la calma tranquillita’ della vita borghese. Egli la preserva cosi’ dalla stagnazione e provoca quella inquieta tensione, quella mobilita’ senza la quale lo stimolo della concorrenza verrebbe smussato. Egli da’  cosi’  uno  sprone  alle  forze  produttive.  Mentre  il  delitto  sottrae  una  parte  della eccessiva popolazione al mercato del lavoro, diminuendo cosi’la concorrenza fra gli operai  e  impedendo,  in  una  certa  misura,  la  caduta  del  salario  al  di  sotto  del “minimum”, la lotta contro il delitto assorbe un’altra parte della stessa popolazione. Il criminale appare cosi’ come uno di quei fattori naturali di equilibrio, che stabiliscono un  giusto  livello  e  aprono  tutta  una  prospettiva  di  “utili”  occupazioni.  Si  potrebbe dimostrare fin nei dettagli l’influenza del delitto sullo sviluppo della forza produttiva. Le serrature sarebbero giunte alla perfezione attuale se non vi fossero stati ladri? E Cosi’ la fabbricazione delle banconote, se non vi fossero stati falsari? Il microscopio avrebbe  forse  trovato  impiego  nelle  comuni  sfere  commerciali  senza  le  frodi  nel commercio? La chimica pratica non deve altrettanto alla falsificazione delle merci e agli  sforzi  per  scoprirla,  quanto  all’onesto  fervore  produttivo?  Il  delitto  con  i  suoi mezzi, sempre nuovi di attacco alla proprieta’, chiama in vita sempre nuovi mezzi di difesa, dispiegando cosi’ un’azione produttiva del tutto simile a quella esercitata dagli scioperi sull’invenzione delle macchine. E,  abbandonando  la  sfera  del  delitto  privato,  senza  delitti  nazionali  sarebbe  forse sorto il mercato mondiale, o anche solo le nazioni? E dal tempo di Adamo, l’albero del peccato non e’nello stesso tempo l’albero della conoscenza? Mandeville, nella sua Fable  of  the  bees  (1705),  aveva  gia’  mostrato  la  produttivita’  di  tutte  le  possibili occupazioni ecc., e soprattutto la tendenza di tutta questa argomentazione: “Cio’ che in questo mondo chiamiamo il male, tanto quello morale quanto quello naturale, e’ il grande  principio  che  fa  di  noi  degli  esseri  sociali,  e’  la  solida  base,    la  vita  e  il sostegno di tutti mestieri e di tutte le occupazioni senza eccezione[…]; e’ in esso che dobbiamo  cercare  la  vera  origine  di  tutte  le  arti  e  di  tutte  le  scienze;  e  […]  nel momento  in  cui  il  male  venisse  a  mancare,  la  societa’  sarebbe  necessariamente devastata se non interamente dissolta”. Sennonche’  Mandeville  era,  naturalmente,  infinitamente  piu’ audace  e  onesto  degli apologeti filistei della societa’ borghese.”