GLI EQUIVOCI DI EGdL; ovvero un giornalista equivoco

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Una chiosa a http://www.corriere.it/opinioni/14_gennaio_10/equivoco-poste-ferrovie-non-consideriamole-servizio-pubblico-5400a320-79de-11e3-b957-bdf8e5fd9e96.shtml

Ernesto Galli della Loggia (EGdL) ha acquisito ormai la consumata abilità di recuperare le tematiche potenzialmente erosive della solidità dell’attuale classe dirigente per banalizzarle e ricondurle nell’alveo della compatibilità con la sua sopravvivenza.

Due anni fa aveva riscoperto il tema della sovranità (http://www.conflittiestrategie.it/la-riscoperta-della-sovranita-di-giuseppe-germinario); tanto ardore però alla fine si risolse ingloriosamente nel riconoscere a Monti, il “podestà straniero” e agli accoliti il ruolo di salvatori della patria.

Oggi EGdL affronta un argomento dall’impatto apparentemente più sfumato, quello della salvaguardia e della permanenza dei simboli di una comunità nazionale, più adatto a spargere le nebbie di un po’ di sociologismo a buon mercato che a motivare gli animi, ma rivelatore dei limiti invalicabili di un ceto intellettuale dibattuto tra una riesumazione di romanticismo arcaico e una accettazione un tempo entusiasta oggi rassegnata, visti i tempi, del globalismo costruito sull’aridità del profitto, cosi come rappresentato da costoro http://www.corriere.it/opinioni/14_gennaio_10/equivoco-poste-ferrovie-non-consideriamole-servizio-pubblico-5400a320-79de-11e3-b957-bdf8e5fd9e96.shtml.

I simboli del persistente immaginario collettivo nazionale oggetto di attenzione  dell’editorialista-accademico sono le Poste e le Ferrovie; in effetti, nel bene e nel male, le due reti di servizio, grazie alla loro pervasività ormai secolare di un territorio così ostico, teatro di migrazioni epocali, sono uno dei catalizzatori più importanti del sentimento e delle aspettative comuni di un popolo. Nel bene e nel male appunto; ma già la raccomandazione esplicitata nel titolo “non consideriamole servizio pubblico” suona come il classico effetto speciale da luna park; rappresenta una soluzione al male, reale o presunto che sia, degna di un prestidigitatore di bassa lega, piuttosto che di un intellettuale al servizio dell’intelligenza del genere umano.

Prospettare intanto una comune rappresentazione nell’immaginario nazionale di due servizi dalla missione così diversa e soprattutto dal destino agli antipodi in un futuro abbastanza prossimo si configura come un esercizio arduo, praticamente irrisolvibile per una mente dall’approccio rigoroso, se non proprio scientifico.

Le ferrovie sono una rete vitale e ampiamente sottostimata nella loro funzione nei prossimi decenni, sia come strumento di coesione che di sviluppo del paese; le poste, nella loro classica funzione di recapito della corrispondenza epistolare e di sistema di pagamento allo sportello di bollette ed emolumenti, sono destinate a un declino sempre più rapido ed inesorabile legato alla diffusione delle tecnologie telematiche.

Le prime, facendole regredire di colpo dal sistema elettrificato del periodo fascista a quello a vapore, subirono un colpo terribile nella seconda guerra mondiale dal quale le classi dirigenti del dopoguerra le risollevarono solo in parte, con il ripristino solo parziale della rete, in particolare quella passeggeri sulla direttiva nord-sud e quella più organica sulla direttrice nordovest-nordest, ma con un progressivo ritardo tecnologico ed organizzativo in nome del primato assoluto dell’autotrasporto.  Le seconde, a partire dagli anni ’70, cumularono semplicemente uno spaventoso ritardo organizzativo e tecnologico compensato dalla sovrabbondanza di personale e farcito da enormi sacche parassitarie.

L’unico fattore che accomunava le due reti negli anni ‘90, oltre all’utilizzo parziale della rete ferroviaria da parte di Poste, era la necessità di una profonda riorganizzazione e di un contenimento di costi insostenibili ed imprevedibili. L’introduzione di criteri privatistici di gestione avrebbe dovuto servire a quantificare correttamente i costi di gestione e di riorganizzazione delle reti e dei servizi; un principio fondante e corretto, ma che trova una sua applicazione pratica e coerente e una modalità di esercizio solo in funzione degli obbiettivi strategici definiti.

A questo punto le similitudini da cogliere tra i due processi sono del tutto ardue se non in una visione romantica e reazionaria quale appunto quella di EGdL.

Il paese avrebbe bisogno di una estensione e di una maggiore efficienza e livello di utilizzo della rete ferroviaria, di una integrazione dei diversi sistemi di collegamento (intermodalità), di un potenziamento oltre che della rete ad alta velocità, del sistema di rete regionale e del trasporto merci ferroviario. Il ridimensionamento e il degrado di alcune dorsali e di alcuni sistemi regionali invece sta contribuendo attivamente all’ulteriore frammentazione e all’alimentazione dello storico dualismo economico e sociale del paese, anche se con caratteristiche diverse da quelle degli anni ’50. Le politiche comunitarie, le modalità di utilizzo dei suoi fondi strutturali e di coesione, il caos amministrativo e finanziario legato al dualismo di potere tra stato centrale e amministrazioni decentrate non fanno che accentuare questi processi, sia a livello continentale che, soprattutto, negli stessi paesi periferici, sulla falsariga di quanto avvenuto con le politiche agricole negli anni ’50 e industriali a partire dalla fine degli anni ’70.

Riguardo alle Poste, invece, si tratta (tratterebbe) di salvaguardare il più possibile una rete unica e preziosa di sportelli e di recapito, con l’aggiunta e l’innesto in essa di una rete logistica e telematica, ineguagliabili nella loro capillarità e pervasività sul territorio nazionale, attraverso la gestione del progressivo e inesorabile declino di alcuni servizi tradizionali (corrispondenza epistolare e sistemi di pagamento e incasso allo sportello), il mantenimento in forme moderne del tradizionale risparmio postale, il potenziamento ulteriore della logistica, del recapito a fini commerciali, di sistemi di pagamento e incasso legati al conto corrente, della diffusione della logistica e di prodotti assicurativi e finanziari, di terminali di contatto e della funzione propedeutica alla riorganizzazione di numerosi apparati amministrativi centrali e periferici dello Stato. Sono tutte dinamiche in corso delle quali ho già trattato in alcuni articoli in buona parte attuali tra cui http://www.conflittiestrategie.it/poste-italiane-tanti-bocconcini-per-tutti-i-gusti-di-giuseppe-g . Un processo che conosce strozzature pesanti legate sia ai limiti intrinseci e atavici di una gestione interna non adeguata dei gruppi di potere e dei moduli organizzativi, all’eccessivo potere concesso alle strutture commerciali rispetto alla direzione strategica e piuttosto avulso rispetto alle strutture gestionali; sia a quelli esterni determinati dalla subordinazione politica e finanziaria del paese in maniera tale che i meritori criteri di trasparenza e garanzia introdotti da Poste Italiane nei servizi finanziari evoluti sono conseguiti a costo di una ulteriore esposizione del risparmio e del debito privato italiano nel sistema finanziario internazionale specie tedesco e angloamericano, anche se con qualche forma più attenuata di dipendenza, soprattutto nel settore del credito visto che il rischio di solvibilità, obtorto collo, è assunto dal creditore piuttosto che dall’intermediario.

Di fronte alla complessità di questi processi, EGdL preferisce guardare indietro ma solo per dare per scontato il futuro tracciato per questo paese, all’unisono con altri centri politici nazionali.

In Gran Bretagna, terra d’elezione dei processi di privatizzazione, si sta riconsiderando ad esempio, in nome della sicurezza del sistema di trasporto e della coesione del paese, quanto meno il carattere privato almeno della rete ferroviaria riconoscendone non solo la funzione ma anche la gestione pubblica, data l’insostenibilità da parte dei privati degli oneri di investimento e gestione.

EGdL, da fervente sostenitore sui generis dell’immagine e della simbologia italica, preferisce sostituire le parole piuttosto che trasformare le cose; preferisce cancellare la definizione di servizio pubblico e arrampicarsi sugli specchi per giustificare tanto coraggio.

Da compassionevole qual è, guarda alle nonnine e alle orde più o meno pazienti di pagatori allo sportello, per lamentare malinconicamente il declino inesorabile di un servizio pubblico piuttosto che chiedersi come mai fatica a prendere piede la diffusione di conti correnti funzionali ed economici fruibili anche dai più tradizionalisti, come mai gran parte delle pubbliche amministrazioni pretendono pagamenti alla cassa di tanti oboli e via discorrendo sino a considerare che una ulteriore massiccia diffusione dei servizi on line porterebbe probabilmente al rallentamento delle reti telematiche, a loro volta vittime del disastroso processo di privatizzazione di Telecom; con questo omettendo clamorosamente, per un accademico di tale statura, la distinzione tra tempo socialmente necessario e tempo effettivo di produzione definito dall’economia classica oppure il concetto di utilità marginale definito dai marginalisti per valutare l’adeguatezza di un’attività produttiva.

Avventuratosi temerariamente in considerazioni giuridiche, arzigogola che lo Stato, i suoi esponenti politici rimangono il parafulmine di disservizi alimentati ormai da aziende private, sostenute dalla logica del profitto, non ostante l’azionista unico di esse sia ancora lo stesso Stato. Non dimentica, ma evita di associare la gestione privatistica e il conseguimento di profitti al rispetto di standard di qualità di servizio, compreso quello pubblico, cui le aziende dovrebbero conformarsi. In questo il nostro, forse inconsapevolmente, pare superare addirittura la sicumera dogmatica e religiosa degli adepti del libero mercato a qualsiasi costo dell’Istituto Leoni. Da cinico insospettabile, lui che compatisce, conclude così che “Poste e Ferrovie sono divenute normali società per azioni (sia pure di esclusiva proprietà dell’azionista Stato) le quali ormai da tempo ispirano le proprie scelte strategiche non certo alle comuni esigenze del pubblico”.  La conseguenza è un giudizio velatamente sprezzante. Così le Ferrovie “alle tratte poco frequentate e poco redditizie dell’Italia meridionale hanno riservato un efferato servizio da Terzo Mondo di una volta. Allo stesso modo le Poste hanno chiuso dappertutto uffici postali a centinaia; in quelli oggi rimasti riservano la maggioranza degli sportelli ai clienti dei nuovi servizi nei quali si sono gettati per fare soldi (assicurazioni, servizi finanziari, carte di credito, telefonia mobile: come se in Italia ci fosse carenza di banche o di compagnie di assicurazioni)”. La supponenza continua evidentemente a giocare brutti scherzi ad un accademico che per professione dovrebbe essere aduso alla ricerca e alla ricostruzione. Le Poste, a metà degli anni ’90, hanno rischiato seriamente l’estinzione della propria rete e di decine di migliaia di occupati, con il varo di un piano aziendale che prevedeva, ad opera dell’allora direttore Cesare Vaciago, nominato nel trionfo generale da Prodi, la salvaguardia velleitaria dei soli servizi postali e l’incognita del futuro del risparmio postale. Un piano sconfitto dall’azione persuasiva di poche persone. Lo spirito critico di EGdL dovrebbe piuttosto indurre ad esaminare gli effetti positivi che l’introduzione di un nuovo soggetto avulso dai consueti cartelli nei mercati finanziari, dei sistemi di pagamento, del credito, della telefonia ha avuto nel mercato.

Dovrebbe essere musica per le orecchie dei liberali, autonominatisi paladini di cittadini e consumatori; invece….

Ho già sottolineato in altri articoli quanto l’ardore liberal/liberista ceda prosaicamente spesso e volentieri alla difesa di particolari settori in nome del bene comune.

Una difesa efficace di questi simboli dovrebbe invece spingere gli occhi dello studioso, attento al consolidamento dell’identità nazionale, verso il presente e il futuro; così, gli attuali processi di privatizzazione dovrebbero meritare maggiore attenzione. Fortunatamente sembrano scongiurate, per le pressioni interne al management, le ipotesi di smembramento e collocamento frazionato delle aziende. Si sa che la propensione di Letta, Saccomanni e dei nuovi vertici del PD sono per una totale liquidazione del patrimonio industriale, visto che “i capitali non hanno passaporto”. Così l’oggetto del contendere per Telecom è l’acquisizione per pochi spiccioli da parte dell’indebitata Telefonica oppure quella un po’ più “expensive” dei fondi di investimento americani.

Ai nostri non sembra passare per la mente che l’ingresso massiccio di capitali esteri sono un debito, nonché un condizionamento politico-economico, nonché un esodo annuale di riserve valutarie valutabile in almeno il 20%, per non parlare dei rischi di trafugamento delle competenze tecnologiche; condizioni quindi da considerare a patto di porre vincoli precisi che un paese deve avere la forza di esercitare nel tempo. A differenza di Stati Uniti, Cina e pochi altri, l’attuale ceto politico italico, specie quello centro-sinistrorso, ha dimostrato più volte di non avere alcuna intenzione e capacità di esercitare alcunché. Piuttosto, dopo l’apparato industriale strategico e quello complementare più significativo, i nostri sono propensi a garantirsi sopravvivenza ed assistenzialismo con la progressiva cessione anche delle reti infrastrutturali e di servizio e trasformare la nostra parte di imprenditoria dedita alla riscossione di pedaggi e rendite in lacchè per conto terzi d’oltralpe e oltreoceano.

Per le Poste, non ostante le rassicurazioni di Catricalà, Saccomanni e Letta, il nostro dovrebbe aiutarci altresì a riflettere su quanto l’ingresso al 35% dei fondi istituzionali potrà influire sulla capacità futura di raccolta del risparmio postale che alimenta i flussi della Cassa Depositi e Prestiti, dell’unica banca ormai ancora sotto il pieno controllo nazionale in grado di alimentare un minimo di politica industriale, di calmierare le oscillazioni speculative sul debito pubblico, di finanziare gli investimenti pubblici e di garantire il risparmio della piccola clientela; su quanto le pressioni a riconoscere alti margini di profitto immediato da parte di costoro si sommino in maniera distruttiva alla consolidata propensione dello Stato ad assorbire integralmente gli utili e qualcosa di più delle risorse aziendali a scapito degli investimenti e delle risorse necessarie alla riorganizzazione interna; dinamiche per altro già in opera pesantemente nelle privatizzazioni precedenti e che hanno contribuito pesantemente ad indebolire la posizione e la credibilità del paese.

Più in generale EGdL dovrebbe aiutarci a comprendere come mai una classe dirigente di un paese con ancora un cospicuo saldo nominale attivo tra risparmio e debito, piuttosto che porsi il problema di utilizzare al meglio le proprie risorse per potenziare il proprio apparato produttivo e produrre le risorse necessarie alla promozione sociale e ad un ruolo significativo ed autonomo del paese nel contesto internazionale, contribuisca di fatto ad alimentare l’esodo di capitali e contemporaneamente l’indebitamento estero, uno dei fattori di precarietà e instabilità di una nazione che sta rinunciando a parecchie delle proprie prerogative.

La delegittimazione di una classe dirigente può percorrere gli itinerari più diversi: anche a partire dall’attesa in un ufficio postale o da un viaggio in treno” recita accorato il nostro EGdL.

Dall’alto delle prerogative e degli onori conquistati sul campo, la preoccupazione del nostro pare tutta rivolta alla salvaguardia del presente e delle persone che lo rappresentano.

I simboli sono però ridotti a mummie e simulacri, buoni a incutere timore e inquietudine  piuttosto che motivazioni. Alcuni, tra questi Renzi, stanno cercando, con qualche probabilità di successo, di sostituire i figuranti e le icone e con questo garantire qualche anno di sopravvivenza ad un andazzo che interrompa la caduta ma confermi la subordinazione del paese; a EGdL basta evidentemente cancellare le parole e con essi i simboli, in modo da non polverizzare nel nulla le mummie poste sugli scranni.

A noi poveri mortali, ancora succubi di queste rappresentazioni, in mancanza del treno, non resta che attaccarci al tram