IL COMUNISMO E’ MORTO MA IL LIBERALISMO E’ SEPOLTO

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Nel nostro saggio, L’illusione perduta, edito da NovaEuropa, insieme a La Grassa e Tozzato, abbiamo cercato di spiegare perché il modello marxiano è da considerarsi definitivamente fuori uso, almeno nella sua parte predittiva, quella per cui, nelle medesime viscere del Capitale, sarebbe sorto un nuovo rapporto sociale, di tipo comunistico, che di lì a breve si sarebbe generalmente affermato, facendo transitare l’umanità dalla preistoria alla storia. Secondo Marx, l’unione dei lavoratori del braccio e della mente nella produzione, avrebbe reso definitivamente superflui i capitalisti e avrebbe destrutturato la forma sociale di cui essi erano espressione e creature. L’evoluzione degli eventi ha inficiato la sua previsione e la sentenza di morte del comunismo deve ritenersi senza possibilità di appello; esso non potrà più essere risuscitato, almeno attenendosi all’elaborazione marxiana, se non sotto specie di narrazione utopistica o moralistica, cioè in totale contraddizione con la lettera di Marx, che era al 100 per cento scientifica. Sappia, dunque, chi ancora, ai nostri tempi, predica il comunismo di farlo contro Marx e contro la scienza, anche quando si dichiara suo allievo indipendente (cosa che non significa proprio niente). Costui è, dunque, un antimarxista ed un irrazionale, anche se afferma di richiamarsi alle analisi del pensatore tedesco (vedi un tale Fusaro). In sostanza, è un cialtrone che prende in giro la gente per interessi sicuramente meschini. Purtroppo, non meno sciocchi degli adulatori di Marx devono essere considerati i suoi detrattori liberali. Oggi, su Il Giornale, Nicola Porro ha vergato un articoletto dal titolo: “E Pareto segnalò l’errore «capitale» di Karl Marx”.
Premetto che la mia considerazione per Pareto e le sue teorie antimoralistiche supera di gran lunga quella che (non) ho per i furbastri pseudomarxisti di cui parlavo poc’anzi. Pareto era un grande studioso, anche se la sua critica a Marx va completamente fuori bersaglio. Innanzitutto, essendo egli un neoclassico ha un approccio diverso al problema del valore, differente sia da Marx che dagli stessi economisti classici. Scrive La Grassa ne “L’illusione perduta”: “Per Marx le merci vengono (mediamente) vendute al loro valore; il prezzo effettivo (il salario nel caso della merce forza-lavoro) oscilla attorno a questo valore. Il “nostro” accetta la teoria dei classici, secondo cui il valore è la quantità di lavoro (di energia lavorativa, misurata in tempo) spesa per produrre i beni, incorporata quindi in essi. Tale teoria è nettamente diversa da quella che verrà poi accettata unanimemente con la nascita della teoria detta neoclassica (o marginalistica) che dominerà dopo il 1870, anno in cui escono le fondamentali opere di Walras (Francia), Menger (Austria) e Jevons (Inghilterra). Secondo tale teoria il valore dipende dalla scarsità del bene in relazione al bisogno del singolo individuo (il Robinson); diciamo che è il valore dell’ultima dose del bene a disposizione dei consumatori dello stesso.
I classici non avevano distinto tra lavoro e forza-lavoro. Marx introduce questa decisiva differenza: il lavoro è appunto l’energia spesa per produrre un oggetto e che ne costituisce il valore; la forza-lavoro è la potenzialità di lavoro contenuta nella corporeità umana, nella sua mente e nei suoi muscoli, nervi, ecc. Tale potenzialità, data la libertà da vincoli servili tipica del capitalismo, è venduta dal lavoratore come merce. Dunque, essa ha un valore, che è come per ogni altro prodotto umano (divenuto merce nella società moderna) una data quantità di lavoro incorporato. E quale sarà il lavoro incorporato nella speciale merce forza-lavoro? La risposta è semplice e logica: è la quantità di lavoro spesa per produrre i beni necessari all’esistenza del lavoratore, di colui che vende in qualità di merce la sua potenzialità lavorativa. Naturalmente, non si tratta di mera sussistenza biologica, ma invece storico-sociale, tenuto cioè conto dei livelli medi di vita raggiunti in ogni data fase di sviluppo della società; sviluppo particolarmente accelerato con la sopravvenienza della forma capitalistica dei rapporti sociali”.
Pareto, come riporta Porro (il quale è stoltamente accecato, da acritico supporter liberale, dall’abbaglio paretiano) attribuisce a Marx due errori che però sono inventati di sana pianta: “Pareto dice che Marx avrebbe dovuto titolare il suo libro Capitalisti, più che Capitale, poiché è contro di loro che rivolge il suo sguardo. E poi critica (cosa che oggi è diventata generalmente accettata) la cosiddetta teoria del valore marxiana. «Marx cade nell’errore di non fare abbastanza attenzione a ciò che il valore d’uso non è una proprietà inerente a ciascuna merce, come sarebbe la composizione chimica, ma è al contrario un semplice rapporto di convenienza tra una merce e uno o più uomini. Questo errore è ancora più manifesto per il valore di scambio, ed è una delle cause principali del sofisma che si trova nella teoria del plus-valore». Pareto con semplicità spiega come il valore di una merce sia il valore che ad essa viene attribuita dallo scambio e dalla posizione relativa di che intende scambiare. Un bicchiere d’acqua non ha un valore d’uso intrinseco, basti pensare quanto vale per un assetato nel deserto rispetto a quanto sia apprezzato da un cittadino davanti a una fontanella. Anche l’economia borghese su questi termini – ammonisce però Pareto – ha spesso fatto confusione, come ad esempio quando attribuisce al valore di scambio il costo di produzione”.
Manco per il cazzo. Marx è chiarissimo sul primo punto. I capitalisti (e gli operai) gli interessano solo in quanto maschere di rapporti sociali. Nel Capitale lo ribadisce più volte. Lo sostiene nella prefazione: “Una parola per evitare possibili malintesi [malintesi evidentemente non afferrati da Pareto]. Non dipingo affatto in luce rosea le figure del capitalista e del proprietario fondiario. Ma qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personalizzazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi. Il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi”. Poi, in altri passaggi della sua massima opera: “Comunque si giudichino le maschere con cui gli uomini si presentano l’uno di fronte all’altro su questo palcoscenico, in ogni caso i rapporti sociali fra le persone nei loro lavori appaiono quindi come loro propri rapporti personali, e non travestiti da rapporti sociali fra le cose, fra i prodotti del lavoro”… “le maschere economiche dei personaggi sono soltanto le personificazioni dei rapporti economici come depositari dei quali si stanno di fronte”. Quindi Marx non avrebbe mai potuto intitolare la sua opera “I Capitalisti”, così come Pareto non avrebbe mai potuto scrivere un elogio dei moralisti.
Quanto alla seconda critica di Pareto, quella per cui Marx non sarebbe stato attento al fatto che “il valore d’uso non è una proprietà inerente a ciascuna merce…ma è al contrario un semplice rapporto di convenienza tra una merce e uno o più uomini”, mi sembra ancora più inessenziale trattandosi di divaricazione di visione. Per i neoclassici l’azione individuale è al centro dei problemi societari, pertanto tutto ruoto intorno al soggetto e alle sue scelte (più o meno razionali), per Marx no, perché sono le dinamiche oggettive dei rapporti sociali a creare le funzioni e i ruoli in cui si incastonano gli individui (individui che sono sempre socialmente creature di uno specifico meccanismo di riproduzione sociale e che solo occasionalmente si emancipano dalla loro condizione di partenza): “il processo di produzione capitalistico si svolge in determinate condizioni materiali, che però sono al contempo depositarie di determinati rapporti sociali in cui entrano gli individui nel processo di riproduzione della loro vita. Quelle condizioni, come questi rapporti, sono da un lato i presupposti, dall’altro i risultati e le creature del processo di produzione capitalistico; ne sono prodotti e riprodotti”. Più chiaro di così non si poteva enunciare. Ora, io non sostengo semplicemente che Marx aveva ragione mentre Pareto aveva torto marcio. Non commetto l’errore di Porro il quale confonde la scienza con la propaganda. Dico, piuttosto, che si tratta di approcci intellettuali agli antipodi, entrambi dotati di una certa coerenza logica e forza conoscitiva, coi quali i due autori hanno cercato di isolare quelle che a parer loro erano le dinamiche fondamentali per cogliere il fulcro dei fenomeni sociali. Personalmente, credo che, in questo caso, abbia visto più lontano Marx di Pareto ma si può anche pensare il contrario.
Marx ha però certamente errato quando ha immaginato l’avvento del comunismo per autoconsunzione del Capitalismo (nel giro di qualche decennio), a causa dell’inasprirsi delle sue intrinseche contraddizioni che avrebbero spalancato le porte ad un superiore modo di produzione-riproduzione collettivo in cui le classi si sarebbero estinte e l’appropriazione privata del sovrappiù sociale sarebbe terminata. Quando anche i liberali arriveranno ad ammettere gli errori delle loro teoresi, ormai ampiamente superate e smentite dagli avvenimenti allora potremo chiamarli onesti ed iniziare con loro un dialogo autentico. Attualmente, sono soltanto dei servi sciocchi che negano l’evidenza per opportunismo individuale e corporativo, sono messi male quanto i marxisti ortodossi perché come loro non comprendono la natura dei capitalismi evolutisi sotto i loro occhi perennemente bendati.
Ps. Il nostro libro, L’illusione perduta, è sempre disponibile. Chiedetelo direttamente all’editore sul suo sito. E’ una buona occasione per approfondire quanto qui appena abbozzato.