IL COMUNISMO IMPOSSIBILE

Karl-Marx

Gli studi di Gianfranco La Grassa su Marx hanno ampiamente dimostrato che il comunismo, basato sulle previsioni del pensatore tedesco, è irrealizzabile. Marx credeva che il comunismo fosse necessario, non semplicemente possibile (lo affermò esplicitamente, “il comunismo è necessario ma non è detto che sia possibile”, anche se non ricordo in quale scritto). Necessario perché, ai suoi occhi, stava emergendo in fieri, cioè si sviluppava come nuovo rapporto sociale, nelle viscere stesse del Capitale.

Giustamente, in un Convegno del 2001 dell’associazione Modotti, il prof. Ricciardi, faceva notare che:

Se il comunismo è determinato, ma non necessitato, vuol dire che le persone scelgono di fare questo piuttosto che altro in base a degli ideali morali…perché il nostro amico qui di Rifondazione Comunista ha dato una risposta che suonava molto bene. Se non ricordo male, lui ha detto: “il comunismo non è necessario, ma è una possibilità”; è determinato, ma non è necessitato. Allora, se è determinato, ma non necessitato, vuol dire, evidentemente, che è qualcosa che può accadere e che può non accadere. Se accade dipende in parte, anche se non esclusivamente da quello che persone fanno per farlo accadere. Ora, perché mai questa persone dovrebbero fare questo piuttosto che altro, piuttosto che andare al mare, coltivare il proprio giardino, dedicarsi alla pittura, o cose del genere?”. Come riscontrate, gli stessi marxisti non conoscono Marx. Infatti, Marx non contava affatto sulle persone (maschere di rapporti sociali: “Una parola a scanso di possibili malintesi. Io non dipingo affatto in rosa le figure del capitalista e del proprietario fondiario. Ma delle persone qui si tratta solo in quantopersonificazioni di categorie economiche, esponenti di determinati rapporti e interessi di classe. Meno di qualunque altro, il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della struttura economica della società come un processo di storia naturale, rende l’individuo responsabile di condizioni delle quali egli resta socialmente il prodotto, per quanto possa, soggettivamente, elevarsi al disopra di esse”) e sui loro valori morali ma sulle dinamiche dei rapporti collettivi che rendono gli individui socialmente creature dei loro tempi, sul processo storico che “produce” “movimenti reali”, ed “ogni passo del movimento reale” vale più di mille programmi o idee rivoluzionarie (che non si accordano al suddetto movimento).

Tuttavia, questo “parto ormai maturo” abbisognava di una “levatrice” che mettesse al mondo la “creatura”. L’ostetrica in questione non era la classe operaia, come rozzamente sostenuto da molti. Marx è chiaro sul punto, per questo il suo travisamento, durato fin troppo, grida vendetta. Egli parla, precisamente nel III libro del Capitale, di: “Trasformazione del capitalista effettivamente funzionante in puro e semplice dirigente, amministratore di capitale altrui, e dei proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari. Anche quando i dividendi che essi intascano includono l’interesse e l’utile d’intrapresa, cioè il profitto totale (perché lo stipendio del dirigente è, o dev’essere, pura e semplice retribuzione di un certo tipo di lavoro qualificato, il cui prezzo sul mercato del lavoro è regolato al modo di quello di ogni altro lavoro), questo profitto totale è intascato ancora soltanto nella forma dell’interesse, cioè come puro e semplice indennizzo della proprietà del capitale, ora separata dalla funzione svolta nell’effettivo processo di riproduzione esattamente come questa funzione è separata, nella persona del dirigente, dalla proprietà del capitale. Il profitto (non più soltanto quella sua parte, l’interesse, che trae la sua giustificazione dal profitto del mutuatario) si rappresenta quindi come mera appropriazione di pluslavoro altrui, nascente dalla trasformazione dei mezzi di produzione in capitale, ossia dalla loro estraniazione rispetto ai veri e propri produttori, dal loro contrapporsi come proprietà altrui ad ogni individuo veramente attivo nella produzione, dal dirigente fino all’ultimo giornaliero. Nelle società per azioni, la funzione è separata dalla proprietà di capitale, quindi anche il lavoro è completamente separato dalla proprietà dei mezzi di lavoro e del pluslavoro. Questo risultato del massimo sviluppo della produzione capitalistica è un punto di passaggio necessario per la riconversione del capitale in proprietà dei produttori, ma non più come proprietà privata di produttori isolati, bensì come loro proprietà in quanto produttori associati, come proprietà sociale immediata. È, d’altra parte, punto di passaggio per la trasformazione di tutte le funzioni finora connesse alla proprietà del capitale nel processo di riproduzione in semplici funzioni dei produttori associati, in funzioni sociali”.

La classe intermodale per Marx non è quella operaia bensì quella dei produttori associati, il G.I. Ma questa nuova formazione che avrebbe reso superflui i capitalisti, trasformatisi in redditieri, non si condensa in un corpo unito come da lui dedotto. Quindi, niente comunismo, sia per mancanza di soggetti della trasformazione che di basi materiali (oggettive). Aver messo in evidenza questa contraddizione è il grande merito di La Grassa, l’unico marxista che capendo fino in fondo l’analisi marxiana ha saputo “falsificarla”, per rispetto di Marx e della scienza sociale medesima.

Qualche anno fa, La Grassa scrisse un bel saggio sulle condizioni di possibilità del comunismo che mi sembra importante riproporre. Ci sono in giro troppi ciarlatani che ancora ricorrono a questo orizzonte, ormai solo utopistico e irrealizzabile, per distrarre i dominati dai loro urgenti compiti storici. Lo fanno richiamandosi a Marx e gabbando il prossimo in suo nome. Non è più ammissibile anche perché si sta aprendo una nuova epoca. Questa richiede immani sforzi di ricostruzione politica e intellettuale. Disperdere risorse preziose all’inseguimento di un passato che non può ritornare è un delitto imperdonabile.

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