Il mascheramento ideologico nel sistema capitalistico*

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Ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero.
(Karl Marx)

Nella Prefazione alla prima edizione del Das Kapital del 1867 Marx dice espressamente che i soggetti che si muovono sul palcoscenico della società (quindi capitalisti, operai, proprietari terrieri, contadini ecc.ecc.) sono maschere di rapporti economici, ovvero portatori di funzioni differenziate scaturenti dall’oggettiva intelaiatura sociale dove si trovano inseriti, in quanto membri di una collettività umana complessamente organizzata. Anzi, si potrebbe ancor più forzare il concetto affermando che, allorché si studia una formazione storicamente determinata (il suo modo di produzione e di riproduzione), secondo il metodo dell’astrazione scientifica (indispensabile per cogliere l’intimo meccanismo che la muove) sono i ruoli a contare davvero mentre gli individui in carne ed ossa diventano mere appendici delle funzioni svolte, restando in ogni caso “socialmente creature” dei rapporti dai quali sono dominati. Insomma, gli individui più che agire secondo la loro volontà sono agiti da una volontà sociale superiore che è predeterminata rispetto alle loro esistenze singole.

La frase di Marx così si esplicita integralmente: “Non dipingo affatto in luce rosea le figure del capitalista e del proprietario fondiario. Ma qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi. Il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi.”

Quindi, in ambito teorico, non ha senso parlare di esseri concreti, di cuore, sentimenti, pulsioni individuali, e non val la pena discettare di gioie, desideri, privazioni e straniamenti, né del cosiddetto ente naturale generico, categoria fantasmagorica dalla quale discendono quelle stramberie filosofiche sull’alienazione o sulla perdita d’identità antropologica della specie alla quale apparteniamo, perennemente mortificata dalla mercificazione capitalistica (peraltro, dopo qualche secolo di capitalismo e di consumismo, non dovrebbe restare un granché di questa presunta naturalità originaria perennemente in perdita di sé). Difatti, dov’è finita oggi, dall’allontanamento della posizione carponi sino alla conquista di quella eretta, questa fantomatica e primigenia natura umana? Siamo un’umanità molto differente da quella che abitava le caverne…Certamente questa natura non si è del tutto dissolta, ne resta traccia negli istinti che caratterizzano, di tanto in tanto, i nostri scatti “animaleschi”, ma si tratta dell’eccezione e non della regola. Come sosteneva Marx la fame è fame, ma questa esprime bisogni sociali diversi se, per esempio, la carne viene mangiata cotta con forchetta e coltello oppure cruda con le mani. Chi confonde continuamente questi piani – come fanno quei pensatori a la pàge inebriati di ontologia e di essenza umana (ma soprattutto ebbri del proprio narcisismo intellettualistico) – genera depistamenti ed impedisce di comprendere in maniera scientifica il problema che andremo ora a sceverare più dettagliatamente, almeno per quanto consentono le poche pagine qui assegnatemi.

Stiamo per entrare in Matrix e ci tocca scegliere…pillola rossa o pillola blu?

La grande scoperta di Marx – quella che l’economista Gianfranco La Grassa ha definito il suo più grande disvelamento scientifico – è attinente al carattere di eguaglianza formale che il sistema capitalistico sprigiona sul mercato (il regno dell’anarchia della merce e degli animal spirits imprenditoriali) dove si incontrano liberi soggetti che si scambiano beni secondo un valore equivalente. Ma questa presunta uguaglianza è appunto un mascheramento ideologico, una realtà apparente (proprio come nel film citato) che cela la profonda diseguaglianza tra classi e individui nella sfera produttiva. Sul mercato capitalistico non si vede alcuno sfruttamento e l’unica differenza tra gruppi e soggetti ivi operanti è dettata dal loro status di venditori oppure di compratori di merci, essendo questi perfettamente liberi di scambiarsi i loro averi secondo gusti e necessità. Ma è proprio in questo contesto che agisce alla perfezione il mascheramento ideologico del sistema capitalistico. Il Capitale di Marx si apre per tali ragioni con l’analisi della merce ed egli parla nel capitolo in questione del carattere di feticcio di questa e del suo arcano: “A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso, non c’è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano. E’ chiaro come la luce del sole che l’uomo con la sua attività cambia in maniera utile a se stesso le forme dei materiali naturali. Per esempio quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare”.

In sostanza, Marx vuole dire che la merce esiste da sempre ma solo con l’affermarsi del modo di produzione capitalistico essa muta profondamente le sue caratteristiche. E’ il sistema capitalistico qui trattato, e non quello feudale o quello del comunismo primitivo, a presentarsi come “un’immane raccolta di merci” e “la merce singola come la forma elementare” della sua ricchezza. Nelle precedenti società umane la merce era appena interstiziale e non fondamentale per la vita degli uomini (così come il denaro in quanto suo equivalente generale) i quali, generalmente, producevano da sé l’indispensabile e si scambiavano solo quelle poche cose che non potevano fare in proprio1. Con il dissolvimento dei legami sociali feudali (del modo di produzione feudale) e l’affermarsi di questo nuovo modo di esitare prodotti avviene una vera e propria rivoluzione. Il valore d’uso dei beni (ossia l’utilità di una cosa) si duplica in maniera costante e non più occasionale nel valore di scambio, il quale, a sua volta si rappresenta nel denaro quale sua forma sublimata e abbagliante (anch’esso preesistente alla forma sociale in argomento ma senza la centralità che assumerà in quest’ultima), tanto materiale (la moneta sonante) che virtuale (la moneta elettronica e i suoi derivati). Per Marx però il modo di produzione capitalistico si generalizza soltanto quando la stessa erogazione di energia umana diventa merce, ovviamente una merce del tutto particolare che permette al capitalista, una volta che egli l’abbia acquistata sul mercato (dove “spontaneamente” i possessori di forza lavoro si sono recati per scambiare l’unica cosa di cui sono proprietari) di valorizzare il suo capitale e di trarre appunto un plusprodotto derivante da un pluslavoro la cui forma economica è il plusvalore. E’ vero dunque che sul mercato vige questa libertà di scelta dei soggetti economici ma è soltanto la faccia visibile della medaglia. Infatti, chi si reca sul mercato per vendere la sua forza-lavoro in cambio di un salario (la maggior parte degli uomini), quindi mettendo a disposizione dei compratori una cosa connaturata alla propria corporeità, lo fa perché costretto da specifiche condizioni sociali, essendo stato precedentemente deprivato dei mezzi di produzione. Questa situazione è distintiva dell’era capitalistica, un prodotto storico della sua affermazione epocale, tanto che in passato le cose erano andate piuttosto differentemente. In realtà, nei sistemi di produzione precedenti non esisteva questa netta separazione tra strumenti di produzione e loro utilizzatori, cosa che diviene invece regola nel sistema capitalistico.

A questo risultato si giunge dopo decenni di violenze sulle classi più deboli, come contadini, artigiani, miserabili: “La popolazione rurale espropriata con la forza, cacciata dalla sua terra, e resa vagabonda veniva spinta con leggi tra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di marchio a fuoco, di torture a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato”. (Marx, Il Capitale). I contadini furono sfrattati dalle terre sulle quali avevano lavorato per secoli, ingenti masse di uomini vennero violentemente staccate, con la forza, dai loro mezzi di sostentamento e indotte a vendere l’unica cosa che ancora possedevano, l’energia lavorativa. E lo stesso accadde, infine, agli artigiani delle città prima riuniti in corporazioni che ne tutelavano i segreti del mestiere. Ecco come fu possibile spingere questi gruppi sociali a rinunciare alla propria autonomia per entrare a far parte del mondo della manifattura prima e di quello della macchino-fattura poi, luoghi dove si trovano concentrati i mezzi di produzione. Qui avverrà quello che Marx chiama il passaggio dalla sussunzione formale alla sussunzione reale del lavoro. Ovvero, inizialmente, gli ex artigiani saranno semplicemente costretti a lavorare sotto lo stesso tetto ma mantenendo il patrimonio di professionalità (sussunzione formale) accumulato nei secoli, successivamente le loro competenze diventeranno un attributo stesso delle macchine e a loro resteranno solo i gesti spezzati e ripetitivi senza la visione complessiva del processo di lavoro e della proprietà del prodotto.

Si capisce dall’analisi di questi elementi, tanto storici che politici, che la cosiddetta parità degli individui sul mercato è strettamente connessa all’occultamento della differenza specifica tra le merci mezzi di produzione e la merce forza lavoro insita nell’esistenza corporea degli uomini. Questa è lo smascheramento decisivo operato da Marx che lacera, con il suo studio scientifico dei rapporti sociali, la copertura economicistica con la quale gli ideologi dei dominanti avevano nascosto lo sfruttamento capitalistico alle classi subalterne ma anche a sé stessi.

La produzione capitalistica, dunque, non è soltanto produzione di merce, ma è soprattutto produzione di plusvalore. Questo significa che l’operaio non produce direttamente per sé stesso ma per il Capitale che si appropria del suo lavoro non retribuendogli interamente lo sforzo erogato. Ciò avviene tanto con il prolungamento della giornata lavorativa (plusvalore assoluto)2, che, a parità di orario lavorativo, con l’accorciamento del segmento di tempo utile a reintegrare l’equivalente del salario nonché l’allungamento della porzione temporale per cui l’operaio lavora ai fini della valorizzazione del capitale, grazie a metodi organizzativi più razionali e all’introduzione sempre più spinta dei ritrovati tecnologici nella produzione (plusvalore relativo3). Pertanto, Marx può affermare che “Per la produzione del plusvalore assoluto si tratta soltanto della lunghezza della giornata lavorativa; la produzione del plusvalore relativo rivoluziona [invece] da cima a fondo i processi tecnici del lavoro e i raggruppamenti sociali”. (Marx, Il Capitale)

Possiamo così sostenere che è con il trasformarsi della forza-lavoro in merce che il sistema capitalistico può generalizzarsi e divenire modo di produzione dominante. Certo, i lavoratori offriranno sempre di propria spontanea volontà sul mercato la loro merce che resta, in ogni caso, nella loro libera disponibilità (non sono schiavizzati come nelle fasi storiche passate) ma lo faranno perché i rapporti sociali in cui sono inseriti li obbligano ad agire in siffatto modo: “tuttavia la vendita [di questa loro merce particolare] introduce esplicitamente – e se così non fosse, la forza lavoro non avrebbe alcun valore di merce – lo svolgimento dell’attività lavorativa che, in essa, era solo implicita, potenziale. E tale svolgimento assicura a colui, che nel generale interscambio mercantile ha mantenuto il possesso e controllo dei mezzi di produzione, il pluslavoro/plusvalore (soprattutto nella figura di profitto, principale “reddito da capitale”, da cui dipendono gli altri) derivante dall’attuazione della forza lavoro nel processo produttivo; mentre chi dispone di quest’ultima (lavoro in potenza) resta soltanto proprietario d’essa, la cui sussistenza è assicurata e riprodotta assieme alla riproduzione della vita del suo possessore, che a tal fine spende il ricavato della vendita di quella sua merce particolare” (G. La Grassa, Il carattere di feticcio della merce).

Dopo questa breve disamina non bisogna però pensare che il capitalismo sia solo un grande imbroglio, in quanto detto modo di produzione ha dimostrato di saper sviluppare, meglio di qualunque altro, le forze produttive della società, facendo crescere i livelli di benessere generali, sebbene in maniera non egualitaria. Il Capitale non è una cosa ma un rapporto sociale che producendo riproduce, al contempo, le condizioni della sua esistenza, la realtà sociale ad esso corrispondente. Ma la peculiarità intrinseca del capitalismo non è nemmeno esclusivamente quella di generare una stratificazione verticale della società in classi dirigenti e subalterne secondo rapporti di dominazione, non è mero conflitto nella sfera economica tra gruppi contrapposti per ricchezza ed interessi. Esso ha anche un proprio modo di segmentare le diverse formazioni sociali nello spazio, in virtù di quella conflittualità tra gruppi dominanti (ecco da dove proviene la sua spinta dinamica che attraversa le singole sfere sociali: economica, politica, ideologica) che assurgono al ruolo guida degli Stati, associando a sé l’intera nazione (le categorie sociali ed economiche di cui questa si compone) come un tutto organico capace di esprimere potenza geopolitica. Anzi, oggi, questa sembra essere la sua caratteristica più marcata, tanto da essersi trasfigurato (forse si è definitivamente metamorfosato cosicché il concetto da noi utilizzato per spiegarlo non corrisponde più al suo contenuto?) nuovamente rispetto al sistema studiato da Marx nell’ottocento.

L’attributo decisivo del capitalismo, rispetto ai sistemi organizzativi che lo hanno preceduto, è quello di spingere il flusso conflittuale (che dalla notte dei tempi attraversava e attraversa le società umane) direttamente nella sfera economica. Qui lo scontro per la supremazia ed il potere, soprattutto tra drappelli dominanti (gli agenti strategici), prende contorni proteiformi e mascheramenti più raffinati. La lotta per il comando può con ciò celarsi dietro la competizione economica e le presunte leggi del mercato. Inoltre, con questa “mossa” viene individuata una via per sviluppare, potenzialmente all’infinito, le forze produttive ed ottenere risorse sempre più cospicue per concretizzare le strategie orientate alla conquista e gestione del potere.

Marx aveva pensato e studiato quale elemento determinante del capitalismo la proprietà dei mezzi di produzione e l’accentramento progressivo della stessa nelle mani di sempre meno persone, le quali alla fine avrebbero costituito una ristretta classe parassitaria, distante dalla produzione effettiva della ricchezza (controllata all’interno della fabbrica dal lavoratore collettivo cooperativo, cioè manager + operai) ed interessata solo al prelevamento del plusvalore attraverso la vidimazione delle cedole azionarie. In tal senso, il capitale sarebbe divenuto limite a sé stesso, per un crescente iato tra potenza sociale del lavoro (con uno sviluppo inarrestabile delle forze produttive) e appropriazione privata dei prodotti sul mercato, a favore di una sempre più piccola cerchia di proprietari (dunque tra modo della produzione e modo dello scambio).

In seguito a questa divaricazione irricomponibile si sarebbe presto raggiunto il punto in cui i rapporti di produzione borghesi (fondati sulla proprietà privata dei mezzi di produzione) non avrebbero potuto ingabbiare oltre le forze produttive, ormai giunte ad un livello di massima socializzazione. L’ultimo “scatto” per l’abbattimento delle classi dominanti, da parte delle fila proletarie, sarebbe stato favorito dal restringimento della loro base sociale. E’ stato un errore interpretativo e la storia successiva lo ha segnato come tale. Nel capitalismo viene perennemente in primo piano la sfera economica e lo stesso Marx che pure aveva smascherato la falsa uguaglianza tra i soggetti sociali sul mercato, sulla base dei differenziali di proprietà, si è fatto ingannare dall’altrettanta fittizia supremazia della razionalità produttiva sulle strategie politiche. Egli non si è reso conto, e forse nemmeno poteva dati i tempi in cui viveva, che il fattore soverchiante del capitalismo è il conflitto strategico con il quale, gli agenti dominanti, puntano a prevalere in ogni ambito sociale: economico, ideologico e politico.

* Tratto dalla rivista “Liberascienza”

1Chi soddisfa con la propria produzione il proprio bisogno, crea sì valore d’uso, ma non merce. Per produrre merce, deve produrre non solo valore d’uso, ma valore d’uso per altri, valore d’uso sociale. (E non solo per altri semplicemente. Il contadino medievale produceva il grano d’obbligo per il signore feudale, il grano della decima per il prete. Ma né il grano d’obbligo né il grano della decima diventavano merce per il fatto d’essere prodotti per altri. Per divenire merce il prodotto deve essere trasmesso all’altro, a cui serve come valore d’uso, mediante lo scambio). E, in fine, nessuna cosa può essere valore, senza essere oggetto d’uso. Se è inutile, anche il lavoro contenuto in essa è inutile, non conta come lavoro e non costituisce quindi valore.(Marx, Il Capitale)

2 Prolungamento della giornata lavorativa oltre il punto fino al quale l’operaio avrebbe prodotto soltanto un equivalente del valore della sua forza-lavoro, e appropriazione di questo pluslavoro da parte del capitale: ecco la produzione del plusvalore assoluto (Marx, il Capitale)

3 Chiamo plusvalore relativo il plusvalore che deriva dall’accorciamento del tempo di lavoro necessario e dal corrispondente cambiamento nel rapporto di grandezza delle due parti costitutive della giornata lavorativa. (Marx, il Capitale)