Intervista sulla Russia a Paolo Borgognone

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  1. Secondo quale schema si possono definire le caratteristiche delle più importanti forze politiche in Russia?

Sicuramente non facendo riferimento al rodato schema dicotomico eurocentrico destra/sinistra (conservatori vs progressisti). Questa antitesi concettuale di derivazione tardo illuministica (1789) e pertanto pienamente inserita nell’ambito dei riferimenti concettuali portato della “Modernità europea”, non ha mai funzionato e non funziona tuttora nel momento in cui viene applicata alla “struttura russa” (o inconscio collettivo delle masse popolari russe). Per capire che cosa voglio significare quando parlo di “struttura russa” è doveroso rifarsi a un minimo di conoscenze in merito all’etnogenesi della nazione bicontinentale (eurasiatica) russa a partire dalla cosiddetta “Età di Mezzo” (Medioevo, il tempo storico di incubazione e formazione delle moderne nazioni europee). Mi permetta di citare, quale breve estratto riassuntivo teso a dare un’idea di massima delle radici etno-culturali della struttura identitaria russa, le seguenti parole di Alain de Benoist: «L’identità russa nasce […] dalla sovrapposizione, a partire da un substrato slavo-finnico-turanico, di una cultura “kieviana”, nata a contatto con i vareghi e le tribù della steppa, e fortemente segnata dal cristianesimo bizantino e da una cultura “moscovita” largamente ereditata, in particolare quanto alle forme del potere, dall’impero tartaro-mongolo che dominò la Russia per tre secoli» (A. de Benoist, A. G. Dugin, Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica, Controcorrente, Napoli, 2014, p. 27). Le radici eurasiatiche della cultura russa, del «tipo slavo-ortodosso orientale», ossia del russo, sono state analizzate in due pubblicazioni del professor Aldo Ferrari, che vale la pena di leggere e di citare: Il grande Paese. Studi sulla storia e la cultura russe e La foresta e la steppa. Il mito dell’Eurasia nella cultura russa. Per poter realmente comprendere l’essenza della “struttura russa” occorre infine essere profondi conoscitori della storia bizantina, ossia delle vicende politiche e sociali caratterizzanti l’Impero romano d’Oriente dal 330 al 1453 d.C. nonché della storia dei “popoli della steppa” (unni, mongoli). In tal senso possono tornare utili le opere filosofiche di Konstantin Leont’ev e gli studi dell’etnologo e antropologo sovietico Lev Gumilev. Studiando il processo di formazione della “struttura russa” e indagando le vicende storiche connaturanti le origini bizantine e mongolo-turaniche del “mondo russo”, nonché la commistione di tale crogiuolo identitario bicontinentale con il portato ideologico e storico-politico della Rivoluzione d’Ottobre, si potrà stabilire con una certa qual immediatezza che l’essenza della “struttura russa” si articola su di un interconnesso sistema di riferimenti culturali, politici ed economici basato su di uno schema trifunzionale: la “struttura russa” è culturalmente tradizionalista, politicamente orientata al nazional-conservatorismo ed economicamente socialista. La Russia è, potenzialmente, un Impero geopolitico eurasiatico conservatore e rivoluzionario al contempo. Conservatore in ambito politico-culturale, rivoluzionario in ambito economico, perché è stato il primo Paese al mondo ad essere stato attraversato, nel novembre 1917, da una rivoluzione nazionale a carattere anticoloniale, antifeudale e tesa al rovesciamento del precedente regime zarista occidentalizzato. Definirei dunque quella dell’Ottobre 1917 una rivoluzione bolscevica e russa allo stesso tempo e consiglierei a tutti la lettura del più interessante libro dedicato a quegli avvenimenti, ossia La Terza Roma. Il nazionalbolscevismo in Unione Sovietica, di Mikhail Agursky, un testo pubblicato in Italia (da Il Mulino) nel 1989. Non è errato, sulla scorta di quanto affermato fino a questo momento, definire la Russia ancestrale, eurasiatica e “segreta”, un “Impero nazional-bolscevico”, tradizionalista, conservatore e socialista. Naturalmente l’odierna Federazione russa, lungi dal caratterizzarsi come l’incarnazione geopolitica, culturale, politica, economica e sociale del sopradescritto “Impero tradizional-socialista eurasiatico”, sconta l’eredità politica e storica di 24 anni di esperimenti liberal-capitalistici volti a disarticolare la summenzionata “struttura russa” tripartita e trifunzionale. L’esperimento liberal-capitalista attuato da Eltsin e dai “democratici” dopo il 1991 aveva lo scopo di sciogliere ogni retaggio politico e culturale della “Russia ancestrale, segreta e magica”, nel magma dell’omologazione delle masse sradicate e private di ogni elemento di resistenza tradizional-identitaria al liberalismo postmoderno come religione idolatrica neoconsumista e neoedonistica unica, all’antropologia della fine capitalistica della Storia e all’ideologia dei diritti di libertà individuali. Le forze politiche russe di opposizione al postmoderno e alla democrazia liberale (postdemocrazia americanocentrica) devono confrontarsi con la realtà sopra descritta. Definirei pertanto le forze politiche russe non secondo lo schema eurocentrico destra/sinistra (assolutamente inappropriato per analizzare il quadro politico russo) bensì attraverso l’ausilio di una più appropriata lente valutativa, tendente a porre in essere un’antitesi più adatta a comprendere il contesto di cui stiamo parlando: in sintesi, porrei da un lato (quello eurasiatista) i partiti e i movimenti in linea con la “struttura russa” (conservatori-rivoluzionari, comunisti “sostenitori dello Stato”, nazional-patriottici, popolar-conservatori), dall’altro (quello euroatlantista) i partiti e i movimenti affini al versante occidentale (liberali, di destra e di sinistra, socialdemocratici, anarchici, animatori postmoderni dei gruppi “arancioni” e così via…). In questo senso, la soggettività politica che in Russia, dopo il 1991, per il maggior numero di anni ha effettivamente rappresentato la “struttura russa” è stato il Partito comunista della Federazione russa (Kprf), presieduto da Gennadij Zjuganov. Non a caso, intercettando realmente la diffusa sensibilità popolare eurasiatista, il comune sentire “istintivamente patriottico” e anti-liberale, anti-occidentale, della maggioranza dei russi, il Kprf vinse le elezioni parlamentari tenutesi nel Paese nel 1995 e nel 1999. Presentandosi con una piattaforma economica di sinistra (socialista) e con una piattaforma politica di destra (nazional-patriottica), il Kprf riuscì a porsi in assoluta sintonia con la “struttura russa”. Nel corso della storia russa recente, tutti i partiti che si sono presentati alle votazioni con un programma economico di sinistra e con un programma politico di destra hanno ottenuto apprezzabili risultati (es: nel 2003 il partito Rodina, nazional-patriottico e con un programma economico di sinistra, ottenne il 9,3 per cento dei voti). Oggi il partito russo che più sembra porsi in sintonia con la “struttura nazionale” è Russia Unita, il “partito dello zar”, il partito di Putin, dove effettivamente, accanto a liberali di destra eredi del passato eltsiniano, militano numerosi patrioti e, sebbene a titolo privato, anche alcuni convinti eurasiatisti.

  1. Quali sono in particolare le funzioni attribuite allo stato e il ruolo svolto dai vari ceti intermedi di potere e professionali nella visione di queste forze?

Occorre considerare Russia Unita come il “partito del potere”, il partito che ambisce a unificare, attorno a un programma di pragmatico patriottismo politico e di liberismo economico mediato da consistenti iniezioni di statalismo a tutela degli asset strategici nazionali (in particolare nel settore energetico), i consensi della piccola borghesia urbana impiegatizia del settore pubblico, di ampi strati popolari provinciali di orientamento più marcatamente conservatore e della frazione fedele al dirigismo putiniano degli oligarchi eredità della fase plutocratica eltsiniana, dai media occidentali sfacciatamente definita di «transizione alla democrazia di libero mercato». L’ambizione politica del putinismo è quella di dar vita a un moderno edificio statale russo connotato dal primato dei poteri pubblici nei confronti delle varie signorie provinciali e periferiche, formatesi, al culmine di un processo di disgregazione criminale del precedente ordinamento sovietico, ai tempi dell’amministrazione Eltsin, nonché a un efficiente modello di sviluppo economico nazional-capitalistico interno. In politica estera, il putinismo intende tutelare gli interessi nazionali russi nell’ambito di un sistema di relazioni internazionali improntato al multipolarismo strategico. Molto interessante, a tal proposito, soffermarsi un attimo sulla categoria putiniana di “democrazia sovrana” come alternativa “nazional-conservatrice”, se mi si permette questo termine mutuato dal lessico politico eurocentrico, alla “democrazia liberale” occidentale. Considero la “democrazia sovrana” come il meritorio tentativo di fuoriuscita, da parte della classe dirigente gravitante attorno all’orbita di Vladimir Putin (“verticale del potere”), dallo schematico dogmatismo liberale postmoderno della open society. In questo senso, scorgo precise motivazioni di carattere anticoloniale alle origini del processo di risovranizzazione dello Stato in Russia. Al contempo, l’istituzione del modello di “democrazia sovrana” fu propedeutico e necessario al fine di porre un limite al processo di decomposizione statuale della Federazione russa, un processo innescato strumentalmente da Eltsin sin dal 1990, al fine di garantirsi l’appoggio politico della corrotta e mafiosa selva di “neosignori” locali in cambio del tacito consenso delle autorità federali al perpetuarsi delle lucrose attività speculative e criminali dei summenzionati ras periferici (va ricordato che la Russia è un Paese ricchissimo di risorse naturali primarie, dalla cui tratta i vari potentati, “pubblici” e privati locali, legati a doppio filo a Eltsin, negli anni Novanta ricavarono profitti ingenti). Se fossi un moderato e un borghese conservatore russo di classe media, o un pensionato che, dopo il 2000, ha visto ritornare a livelli accettabili la propria indennità mensile, mi riterrei soddisfatto del modello politico di “democrazia sovrana” e lo considererei un punto d’approdo verso una parziale emancipazione nazionale dal precedente regime filo-coloniale di Eltsin e dei Chicago Boys. Siccome non appartengo alla schiera dei conservatori auspico che il modello di “democrazia sovrana” non costituisca un punto d’approdo bensì una tappa intermedia sulla via della costituzione, in Russia, di una società organicamente articolata attorno ai riferimenti culturali e identitari della “struttura nazionale russa” e verso un’ordinata transizione economica a un sistema caratterizzato dall’egemonia di forme socialiste di regolamentazione del mercato interno. Naturalmente so che un’evoluzione in senso dichiaratamente eurasiatista del pragmatico nazional-globalismo putiniano rimane un puro auspicio ma il fatto che attualmente Putin e il “partito del potere” rappresentino appieno le istanze e gli interessi “nazionali” dei russi è inoppugnabile e può essere verificato attraverso l’analisi dell’ultimo sondaggio effettuato dall’istituto demoscopico indipendente Levada Center. Tale sondaggio certifica che, in caso di elezioni anticipate in Russia, Putin otterrebbe l’88 per cento dei consensi e Russia Unita il 63 per cento dei voti. Seguono, staccatissimi, tutti gli altri partiti. Il Kprf porterebbe a casa un più che dignitoso 17 per cento, i nazional-populisti del pittoresco istrione Zhirinovskij il 7 per cento e i liberali filoccidentali e atlantisti di Navalnij l’1 per cento. A conti fatti, si può dire che il processo di articolazione in senso organicamente patriottico della società russa, per quanto non immune da ricadute contraddittorie e possibilità di slittamenti improvvisi verso lidi più “moderati” (all’insegna del compromesso con i propri “partner” euro-atlantici [Usa, Ue]) è in divenire, nel momento in cui i partiti a vario titolo sostenitori della sovranità e dell’indipendenza nazionale della Russia dai desiderata occidentali riescono a ottenere il 90 per cento dei suffragi popolari, a fronte di percentuali infinitesimali appannaggio dei beniamini neoliberali ed etnonazionalisti del mainstream occidentale (Navalnij e soci).

  1. La caratteristica essenziale del dominio del cosiddetto capitalismo assoluto sarebbe quella di aver trasformato e ridotto la composizione sociale ad un ammasso atomizzato di consumatori reali, aspiranti tali, privi di identità culturali, manipolati nei loro desideri; una tale rappresentazione non rischia di fornire una spiegazione troppo lineare, economicistica nel suo aspetto per altro prevalentemente distributivo, delle relazioni tra centri di potere, della loro formazione e conformazione, delle motivazioni e dinamiche che spingono alle loro relazioni conflittuali/cooperative? La rappresentazione della gerarchia di poteri con a capo i centri finanziari e l’ideologia consumistica sono sufficienti a spiegare la gamma di prerogative e scelte politiche del mondo occidentale, la complessità delle formazioni sociali e la capacità attrattiva che riescono ancora ad esercitare?

Questa domanda mi riporta alla mante un episodio di 20 anni fa: guardavo in tv la nota soap opera Beautiful a pranzo con mia mamma e, in maniera ovviamente provocatoria, le chiesi: «Sono progressisti i Forrester?». Mia madre non ha mai fatto un minuto di politica in vita sua ma mi disse, in modo abbastanza tranchant: «No». Capisce?!… Assai giustamente non le è venuto il dubbio che lo stile di vita dei miliardari protagonisti della soap opera, così marcatamente “trasgressivo”, fosse in qualche modo, dal punto di vista del complesso dei valori culturali fondanti lo stereotipo del “borghese conservatore” e “proprietario”, funzionale al “rovesciamento dello stato di cose presenti”, alla critica radicale delle residue ipocrisie moralistiche della borghesia tradizionale. Erano, i protagonisti della citata soap opera, personaggi totalmente interni alla società dello spettacolo e dei costumi liberalizzati odierni, lo stereotipo televisivo della consumistica new global middle class, ossia di una neoborghesia (o iperborghesia) cosmopolita totalmente priva di coscienza infelice. Non era «progressista» (seppure così si definisse nel film…) neppure il megadirettore galattico di Fantozzi però quello era chiaramente un reazionario, un uomo di destra conservatrice, un borghese “tradizionale”. Nel suo ufficio c’erano le piante di ficus, le sedie in pelle umana, l’acquario dove nuotavano i dipendenti sorteggiati, icone cattoliche dappertutto. Era il prototipo dello sfruttatore di destra (il film è del 1975). Nel 1993, quando chiesi a mia mamma se i Forrester fossero “comunisti”, nelle loro ville c’era tutto, ma proprio tutto, tranne simboli politici del potere borghese, reazionario e sfruttatore, che incarnava il capitalismo “conservatore” (fordista/keynesiano) del ventennio precedente. I protagonisti di Beautiful ostentavano uno stile di vita dedito alla promiscuità “senza tabù”, apparivano informali in determinati atteggiamenti modaioli, facevano persino beneficenza e si comportavano da “bravi ragazzi democratici”. Non erano ieratici né distaccati in mimiche tipiche dell’autoritarismo di “ancien règime”. Veri democratici americani, liberal. Votavano pure per Clinton. Contemporaneamente, in quel 1993, in Russia il “democratico” Eltsin fece bombardare il Soviet Supremo che si rifiutava di obbedire ai suoi desiderata di “riforme liberali”. Le tv e i giornali occidentali dicevano che Eltsin aveva buone ragioni per far bombardare da ufficiali felloni e prezzolati la Casa dei Soviet di Mosca, perché quell’edificio, sede del Parlamento russo democraticamente eletto nella primavera del 1990, era colmo di «rosso-bruni» che avrebbero voluto introdurre in Russia il fascismo politico e il socialismo economico, mentre Eltsin, insieme al suo sodale Clinton e alla sua cricca di “consiglieri economici” neoliberali (Jeffrey Sachs, Anders Aslund), aveva l’obiettivo di traghettare la Russia nel «mondo civilizzato», ossia ridurre il “Grande Paese” (Cit. Aldo Ferrari) in una semi-colonia dell’Occidente. Credo che alla base di questo singolare ma non campato in aria ragionamento vi sia il nucleo teorico fondante in grado di rimandare all’essenza del capitalismo liberal-libertario odierno (di sfruttamento consumistico attraverso un sistema di sorveglianza volontaria autoimposto e largamente accettato dalle neoplebi biopolitiche globalizzate), un capitalismo, per citare Costanzo Preve, che non può ridursi a essere descritto come una locomotiva ferroviaria guidata da un macchinista chiamato borghesia e dove la stessa (residuale) piccola borghesia conservatrice non può essere ipso facto definita una classe sociale capitalistica. E’ dunque nell’ambito di un capitalismo “liberalizzato”, a direzione culturale gauchiste, che i conflittuali centri di potere intercapitalistici al vertice della piramide componente la struttura di classe del capitalismo contemporaneo riescono a formare e manipolare neoidentità consumistiche tribalizzate e individualizzate (dotate di un’etica antropologica interamente devota al successo economico privato e all’ottenimento del massimo grado di visibilità massmediatica individuale). Io porrei dunque il mio ragionamento in quest’ottica, radicalmente anti-economicistica: la capacità attrattiva “globale” dell’Occidente neoliberale, neoedonista e neoconsumista risiede non solo nella pressoché illimitata disponibilità di denaro appannaggio delle sue élite finanziarie bensì nel fatto che il capitalismo “di terza fase” sia perfettamente in grado di veicolare l’illusione dell’eterna giovinezza presso le moltitudini desideranti che intende conquistare alle logiche pubblicitarie dominanti di consumo e desiderio. Il capitalismo consumistico americano (postforsista e friedmaniano), travolgente e distruttore, ha finalità analoghe al passato capitalismo produttivistico europeo (fordista/keynesiano) ma modalità differenti di inclusione delle masse all’interno delle proprie logiche di alienazione, sfruttamento e sottomissione. Oggi la sottomissione è volontaria, pubblicitaria, televisiva, le classi sociali sono culturalmente unificate, i padroni e aspiranti tali sono “dinamici”, edonistici e “giovanilistici” startupper sul modello dei personaggi della nota soap opera americana di cui sopra e non “retrogradi” e “clericali” dirigenti in doppio petto sul modello dell’“amministratore delegato fantozziano” di metà anni Settanta. Credo che una seria disamina della categoria sociologica del cinico e disincantato “giovanilismo consumistico” odierno (frutto del processo di colonizzazione made in Usa dell’immaginario collettivo europeo successivo sostanzialmente al 1945 e, per l’Europa centrorientale, al 1989) sia una delle chiavi di lettura per comprendere il passaggio alla postmodernità nel novero della formazione delle nuove classi sociali (unificate per desideri e velleità consumistiche, differenziate per capacità di spesa e potere d’acquisto dei singoli e degli “sciami sociali” che le compongono) all’interno delle dinamiche di riorganizzazione della struttura di classe caratteristica dell’odierno capitalismo di consumo e di desiderio (illimitato e compulsivo). Credo altresì che gli oppositori di tale capitalismo “di terza fase”, sulla scorta della cultura politica di molte delle vittime dell’imposizione, per via militare, della «modernizzazione neoliberale» in Russia nel 1993, non possano e non debbano essere collocati e riconosciuti facendo riferimento in via univoca alla consolidata, per quanto in via di trasformazione e ridefinizione, dicotomia europea destra/sinistra. A margine e a conclusione di quest’analisi direi che la finanza è indubbiamente una forma di potere strategico ma non l’esclusiva chiave di volta per comprendere i processi di scomposizione e liquidazione delle classi sociali tradizionali intervenuti, gradualmente, a partire dagli anni cruciali del «boom protoconsumistico» degli anni Sessanta (1958-1963) e, più compiutamente, con il Sessantotto anarco-libertario e con l’Ottantanove anarco-liberista. Non credo sia stata “la finanza” genericamente intesa ad aver destrutturato, su basi oligarchico-plebee, la tradizionale composizione di classe tipica del capitalismo relativo europeo bensì i risultati delle politiche economiciste (di inserimento dei ceti subalterni nella società radicale dei consumi di massa) prodotte dal compromesso socialdemocratico caratteristico del “trentennio glorioso” (1945-1975) del capitalismo antitetico-dialettico europeo. In questo senso, è molto interessante osservare il processo di formazione e di consolidamento della classe media, potenzialmente già nel corso degli anni Ottanta e fattualmente, tra il 1989 e il 1991, controrivoluzionaria, in Unione Sovietica, un Paese sicuramente all’epoca non eterodiretto da centri di potere finanziarizzati con sede nelle capitali dell’Occidente neoliberale ma indubbiamente attratto, almeno per quel che concerneva una cospicua frazione di “nuovo ceto medio autoctono” (beneficiario delle politiche di welfare previste dal vigente sistema di comando economico pianificato e sostanzialmente centralizzato), dalle sirene liberali, liberiste e libertarie della postmodernità americanocentrica. In Unione Sovietica, dopo il 1991, furono ex giovani dirigenti e funzionari (di estrazione middle class) delle varie cellule universitarie del Komsomol a dar vita ai successivi processi di finanziarizzazione turbo-capitalistica dell’economia nazionale e a generare un sistema plutocratico di arricchimento indebito di una élite globalizzata conosciuta, e smaccatamente vezzeggiata a livello di mainstream media, in Occidente come “Nuova Classe Oligarchica Postsovietica”.

  1. Uno dei limiti che hanno determinato il collasso del sistema sovietico è stato l’incapacità di trasferimento delle conquiste tecnologiche del complesso militare-industriale nella produzione e nel consumo civile; una critica così radicale e forse unilaterale del mercato non rischia di relegare le pretese di recupero delle prerogative sovrane dei paesi alla difesa dei settori più conservatori e perdenti delle società, in particolare della Russia periferica e profonda e di sminuire quindi gli stessi sforzi di trasformazione di Putin?

Ma sono proprio questi settori “conservatori” e “perdenti”, i cosiddetti “sconfitti dei processi di mondializzazione cosmopolitica”, i soggetti sociali e, ci si auspica, politici che dovranno assumere il ruolo di avanguardia rivoluzionaria in chiave anticapitalista, anticoloniale e sovranista! In tal senso, auspico la costituzione di un rinnovato patto tra intellettuali eurasiatisti e “popolo realmente esistente”, in chiave antimondialista (dunque in antitesi radicale alla forma mentis cosmopolitica americanocentrica delle nuove classi medie giovanilistiche globalizzate e del “circo mediatico” unificato e incorporato di complemento alle velleità speculative e di disarticolazione consumistica della società caldeggiate dalle nuove élite finanziarizzate a vario titolo detentrici o controllori dei principali mezzi di comunicazione di massa) sulle ceneri del disciolto legame stabilito, nell’epoca del capitalismo relativo europeo novecentesco, tra intellettuali marxisti e classi proletarie e salariate, in funzione anticapitalistica. Io penso che uno dei limiti che hanno determinato il crollo del sistema sovietico sia stata l’incapacità delle élite politiche comuniste di esercitare concretamente un’egemonia nei confronti dei ceti medi autoctoni (la nomenclatura tecno-manageriale politicamente “emancipatasi” dal dominio cesaristico staliniano, fattore di controllo centralizzato e militarizzato, venuto meno dopo il 1956, della burocrazia di classe media in formazione), incoraggiando e favorendo addirittura, sotto Gorbaciov, la spinta controrivoluzionaria di tale rissoso e frastagliato al proprio interno, ma unificato in tema di ambizioni all’accesso alla società dei consumi e dello spettacolo occidentale, settore della società sovietica autopromossosi a indistinta moltitudine desiderante e reclamante potere politico costituente. L’opera di modernizzazione economica intrapresa da Putin, se vuole evitare i rischi occorsi agli eredi del krusciovismo (la cosiddetta “eterogenesi dei fini” caratteristica delle politiche di “liberalizzazione” gorbacioviana) e avere pertanto speranze di successo in un’ottica di preservazione dell’indipendenza geopolitica, economica, militare e culturale del Paese, non potrà che ispirarsi a valori politici conservatori, quando non più propriamente tradizionalisti (anche se, a mio avviso, Putin è un esponente politico liberal-patriottico, con occasionali scivolamenti in direzione di un più marcato nazional-conservatorismo di marca sovranista, privo di una precisa ideologia di riferimento che non sia la difesa degli interessi nazionali russi, e non un tradizionalista ipso facto). In tal senso, attribuisco un particolare merito al ruolo esercitato dalla Chiesa ortodossa nella promozione e nel consolidamento di un’identità nazionale russa fondata su una serie di riferimenti valoriali alternativi al materialismo consumistico dell’Occidente. In particolare, ho una propensione e un interesse del tutto speciali nei confronti dell’ala più moderata del movimento dei Vecchi Credenti, che continuano a esercitare il rito russo antecedente all’entrata in vigore, per iniziativa del patriarca Nikon, del rito greco nel 1653. Scorgo infatti nella tendenza culturale dei Vecchi Credenti «l’ortodossia più autentica e più conforme allo spirito al contempo “conservatore” e “rivoluzionario” russo» (A. de Benoist, A. G. Dugin, Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica, op. cit., p. 115). I Vecchi Credenti, rifiutando il processo di secolarizzazione e di trasformazione della “struttura tradizionale russa”, fondata sull’ancestrale missione eurasiatica (diretta eredità della missione imperiale bizantina) della Santa Madre Russia (la “Terza Roma”), in “società civile democratizzata”, «sono dunque restati fedeli alla Santa Patria, alla Terza Roma e al popolo teoforo russo» (Ivi, p. 121). Sono infatti perfettamente conscio che quella russa (moscovita e pietroburghese in particolare) sia una società largamente infiltrata, segnatamente dopo il 1991, da pseudo-valori liberali e consumistici caratteristici della postmodernbità liquida americanocentrica, ma sono altrettanto a conoscenza del fatto che il ministro degli Esteri svedese, Carl Bildt, ha dichiarato che i valori della spiritualità ortodossa rappresentano un’insidia per il liberalismo contemporaneo. Stimo dunque in tutte le tendenze religiose che esulano dal versante occidentale (formato dal cattolicesimo, dal protestantesimo, questa la tendenza religiosa a me più invisa e distante in quanto radicalmente pervasa da profondi sostrati materialistici e grettamente economicisti, dal talmudismo razionalistico ebraico, dal wahhabismo e dal salafismo), ossia nel cristianesimo ortodosso, nell’Islam tradizionale, nel sufismo e nello sciismo in particolar modo, determinanti soggettività culturali identificabili come elementi di «spontaneismo eurasiatista» (Ivi, p. 114). Va da sé che nella fase attuale i più accesi sostenitori politici di tali fedi religiose «spontaneamente eurasiatiste» sono principalmente i soggetti sociali marginali, periferici, provinciali, ossia i “perdenti” dei processi di globalizzazione, il “popolo realmente esistente” con cui gli intellettuali antiglobalisti e i politici a vario titolo orientati a forme più o meno mature e strategiche di patriottismo, à la Putin, debbono stringere un patto d’unità d’azione in chiave anticoloniale ed emancipazionista.

  1. Nel libro si sofferma più volte sul contrapposizione tra imperialismo ed impero; quali sono le differenze tra queste forme di dominio? tra l’imperialismo americano e l’impero euroasiatico in gestazione? quale spazio avranno altri grandi paesi, le altre aree geopolitiche (Cina, India, Sudamerica, Africa, ect)?

L’impero è una categoria filosofica, politica, storica e finanche soteriologica totalmente intrinseca alla summenzionata “struttura russa”. La Russia è l’erede spirituale e politico dell’Impero bizantino. Scrive infatti il principale teorico eurasiatista russo, Aleksandr Dugin: «Dopo la caduta di Bisanzio, interpretata dai russi nel XV secolo come una conseguenza del tradimento della fede ortodossa da parte di Costantinopoli al Concilio di Firenze, l’unico Paese al mondo restato politicamente libero spiritualmente ortodosso è stato la Santa Russia» (A. de Benoist, A. G. Dugin, Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica, op. cit., p. 116). Dopo la caduta dell’Impero romano d’Oriente (1453) e fino al 1991, la Russia ha esercitato, in maniera non scevra da contingenti quanto rilevanti derive “occidentaliste”, la propria missione imperiale tellurocratica quale “Terza Roma” erede della tradizione dei cesari e dei basilei. Scrive in merito Dugin: «Poiché Bisanzio, la seconda Roma, è crollata, la Russia ortodossa, divenuta politicamente indipendente, poteva affermarsi. E’ nata così l’idea di una “Terza Roma”, direttamente associata alla nozione di “traslazione” dell’Impero (translatio imperii). La Russia è stata d’ora innanzi guardata come l’erede della missione bizantina e, come Bisanzio era stata considerata il vero centro della cristianità prima dell’Unia florentina, così è divenuta anche la sola erede della tradizione cristiana ortodossa» (Ivi, p. 117). Il crollo dell’Unione Sovietica ha determinato la recisione della linea di continuità storica e spirituale che, partendo dalla fondazione di Costantinopoli, univa nell’ideale geopolitico e religioso imperiale (la regalità sacra ortodossa) la “Seconda” e la “Terza” Roma. La fine dell’Urss ha rimosso dalla scena geopolitica mondiale il katechon, «quel drammatico personaggio della seconda epistola di San Paolo ai Tessalonicesi dove si dice che, finché il katechon non sarà “tolto di mezzo”, l’Anticristo (il “Figlio della perdizione”) non potrà manifestarsi» (Ivi, p. 116-117). Eliminato il katechon, ossia l’imperatore bizantino ortodosso, l’“Anticristo” si manifestò nell’affermazione dell’antropologia postmoderna della fine capitalistica della Storia e del trionfo dell’«ultimo uomo nicciano», il consumatore cosmopolita, americanocentrico e integralmente flessibilizzato, femminilizzato e precarizzato, indubbiamente rappresentato dal culto idolatrico globalista e neoliberale degli anni Novanta (McWorld Culture) e dal principale sacerdote officiante il summenzionato culto del Vitello d’Oro, Bill Clinton. Dal 1991, con il crollo dell’impero geopolitico sovietico, spezzatasi la linea di continuità che univa l’eredità bizantina alla Russia storica, per la prima volta nella storia della civiltà l’idea tradizionale di impero è venuta meno, è stata espulsa dalla Storia. La nozione liberale postmoderna di “fine capitalistica della Storia” e di “trionfo dell’ultimo uomo nicciano” è la diretta conseguenza dell’enucleazione dell’ideale geopolitico, filosofico, politico, storico e soteriologico di “impero” dalla Storia della civiltà. La “fine della Storia” teorizzata da Fukuyama si afferma nel momento in cui viene meno l’esistenza geopolitica, politica, filosofica e soteriologica di “impero tellurocratico” e non solo e non tanto nel momento in cui termina la parabola europea del comunismo storico novecentesco. La fine dell’impero come formazione continentale tellurocratica di contraltare geopolitico antimperialistico ha lasciato mano libera, dopo il 1991, all’incedere travolgente dell’imperialismo talassocratico a stelle e strisce e della priorità politico-economico-culturale di suddetto imperialismo: la costruzione di una illimitata e globalizzata società tecno-mercantile. Una società antropologicamente unificata dall’adesione individualistica al culto delle mode consumistiche neolibertarie (Vitello d’Oro). Molto interessante è stabilire come il suddetto imperialismo talassocratico repubblicano made in Usa sia l’espressione postmoderna del colonialismo nazionalistico borghese otto-novecentesco e sia al contempo una forma di dominio specularmente opposta rispetto al progetto antiesclusivistico e differenzialista dell’«impero eurasiatico in gestazione». I nazionalismi etnici sono infatti oggettivamente degli alleati del neoimperialismo americanocentrico, come scrive Aleksandr Dugin: «Quanto ai nazionalismi moderni, credo che siano il più delle volte strumentalizzati dagli americani che vogliono soffocare ogni progetto imperiale che ostacoli il loro, ossia l’impero globale americanocentrico, democratico-liberale e tecno-mercantile […]. Suscitare e alimentare il nazionalismo è, per gli americani, un modo di prevenire un’alleanza dei popoli e delle civiltà contro il globalismo e l’atlantismo» (Ivi, p. 90-91). La costituzione di un blocco geopolitico eurasiatico come contraltare geopolitico tellurocratico al globalismo del talassocratico (anti)impero liberaldemocratico postmoderno è auspicato anche da insigni sociologi come Mahdi Darius Nazemroaya, che ha dedicato un intero capitolo del suo ultimo libro tradotto in italiano proprio all’esigenza della formazione di «controalleanze eurasiatiche» in funzione anticoloniale e anti-egemonica (M. D. Nazemroaya, La globalizzazione della Nato. Guerre imperialiste e colonizzazioni armate, Arianna Editrice, Bologna, 2014, p. 258-280). Sono un sostenitore della geopolitica dei grandi spazi (o blocchi geopolitici continentali). Sulla scorta di quest’affermazione, come Nazemroaya ritengo necessaria la formazione di alleanze eurasiatiche in funzione antiatlantista. Di queste alleanze dovrebbero far parte la Russia, la Bielorussia, le repubbliche dell’Asia Centrale ex sovietica, l’Iran. A questo blocco eurasiatico propriamente detto dovrebbe aggiungersi un secondo schieramento di forze geopolitiche a connotazione multipolare, ossia l’Europa, la Cina, il Pakistan e l’India. La realizzazione di una simile coalizione assesterebbe un colpo durissimo alla già pericolante ma al contempo segnatamente insidiosa e revanscista egemonia statunitense e sarebbe propedeutica al ritorno allo scorrere, impetuoso e inarrestabile, del «fiume della Storia» (Cfr. C. Terracciano, Nel fiume della Storia, prefazione di Aleksandr Dugin, Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma, 2012). Il tentativo putiniano di costruzione dell’Unione eurasiatica quale alleanza doganale tra Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan e in prospettiva Tagikistan è solo il primo passo sulla via della fattuale concretizzazione di una controalleanza eurasiatica in funzione sovranista e antimperialista. Un tentativo ambizioso e meritorio ma che non può rimanere confinato all’aspetto meramente economico. Serve, nel tempo, un’Unione eurasiatica anche politica.