La Garrota

 

 

Venti anni fa furono necessari i fuochi d’artificio per ottenere la defenestrazione di un intero ceto politico in gran parte screditato, l’indebolimento irrimediabile di una classe dirigente nazionale e l’integrazione subordinata e asservita supinamente al sistema di dominio atlantico. La mitologia europeista e globalista, il moralismo giudiziario furono l’efficace collante ideologico propinato da strateghi afflitti da eccessiva sicumera circa l’esito vittorioso della battaglia. In questi ultimi anni la tattica è cambiata: una moral suasion, un continuo logoramento e un progressivo accerchiamento sino a convincere e costringere il reietto stesso, in un primo momento riottoso, ultimamente pateticamente rassegnato, a portare in prima persona la croce nella speranza che, al capolinea, sia una sua controfigura a salirci. Un pathirion  dove il portatore assume le sembianze del ladrone e del Giuda, piuttosto che del Cristo, laddove i veri sofferenti e crocefissi saranno i ceti che, nemmeno presenti alla processione, in qualche maniera tengono sù questo paese e vorrebbero preservargli una qualche parvenza di sovranità.

Non so se, al loro patimento, si aggiungerà la beffa che l’indice che li indicherà al ludibrio sarà quello del reietto, loro ex condottiero.

Vedremo!

Alla attuale sagacia tattica dei nostri, presumibilmente eterodiretta, fa difetto, però, la scarsa presa, ormai, del collante ideologico di allora e l’esistenza non dico di un gruppo dirigente, ma nemmeno di una qualche personalità di qualche spessore in grado di raccogliere, con un minimo di presentabilità, le schegge impazzite e annichilite da vent’anni di antiberlusconismo.

È la carta residua che consente la sopravvivenza momentanea del cavaliere reietto; la sua corte si sta di nuovo affollando di personaggi i quali non hanno nemmeno più bisogno di mimetizzarsi e paiono destinati a raccogliere in qualche maniera le redini.

Al reietto, probabilmente, sarà graziosamente concesso di scegliersi i propri carnefici a condizione che lo stesso sacrifichi i propri paladini e le schiere di complemento; forse potrà evitare il supplizio acrobatico, uno spettacolo concesso solitamente volentieri alla plebe, di sputarsi con disprezzo, non fosse altro che per la scarsa agilità, consentita dall’età ormai avanzata e che gli impedisce di tracciare la balistica e incrociare con successo la traiettoria della propria gelatina in aere.

I fedeli ad oltranza patiranno un po’ di disorientamento; ma nell’incertezza, con il voto ad una stessa persona, non corrono il rischio di sbagliare e potranno sostenere una delle sue due parti: quella fittizia o quella reale; potranno, così, ancora bearsi per un momento.

Più civile, certamente, lo spettacolo di un clown che di un gladiatore; siamo, perdiana, nel ventunesimo secolo, per di più dalla parte politicamente corretta e pacifista.

Non a caso D’Alema, lo stratega delle mille sconfitte, accortosi  di aver afferrato ancora una volta l’ombra dell’avversario, annusando i pericoli di isolamento,  rievocava e auspicava, or sono tre settimane, quello spirito di venti anni fa necessario ad affrontare una crisi dalle sembianze simili ad allora, ma lamentava la frammentazione e lo scarso radicamento delle rappresentanze sociali attuali e vagheggiava il sostegno aperto di movimenti in realtà parodistici e bisognosi, oltre misura, di essere fomentati.

Il clou delle manovre e del dibattito è di queste ore e verte, ovviamente, sull’attacco speculativo, sul debito, sulla finanziaria, sulle privatizzazioni e liberalizzazioni necessarie, secondo gli apologeti, a risollevare le sorti del paese. Non siamo, però, ancora agli atti conclusivi.

Saranno, comunque, gli argomenti centrali dell’articolo.

Occorrerà prima sottolineare, però, alcune novità emerse sin dall’inverno scorso nel dibattito politico, utili ad evidenziare lo sforzo della moltitudine antinazionale, talmente comprensiva, ormai, da includere il reietto stesso, di abbozzare un progetto politico capace di erodere il consenso residuo riservato al cavaliere e di recuperare il sostegno dei ceti intermedi, compresi quelli riformatori e produttivi.

Già da questo inverno la discussione sui ceti medi produttivi, sulle liberalizzazioni e sulle privatizzazioni necessarie a rilanciare il paese aveva tentato di superare i proclami ideologici ed entrare nel merito.

Aveva iniziato il PD nella sua assemblea programmatica ma con esiti alquanto incerti; aveva proseguito la Confindustria di Marcegaglia rivendicando orgogliosamente, con qualche approssimazione di troppo, la pari dignità di ogni singolo associato, a prescindere dalle dimensioni della propria azienda, il ruolo della piccola/media industria nel paese, la funzione di sostegno svolta da Confindustria per essa, il rifiuto del sostegno pubblico alle attività imprenditoriali, l’accettazione piena delle sfide del mercato e delle linee guida della Comunità Europea nelle politiche di bilancio pur sollecitando una riconsiderazione degli obbiettivi  che non sacrificasse la crescita, una apertura esplicita delle attività pubbliche, comprese le attività di servizio locali, all’iniziativa privata.

Man mano che si profilava, si potrebbe dire preconizzava, la dimensione dell’attacco politico e speculativo, maturava l’incredibile iniziativa delle “parti sociali” (Confindustria, Associazione bancaria, sindacati confederali e, infine, qualche altra decina di organizzazioni) di un primo documento in cui si stigmatizza: “Il mercato non sembra riconoscere la solidità dei fondamentali dell’Italia. Siamo consapevoli che la fase che stiamo attraversando dipende solo in parte dalle condizioni di fondo dell’economia italiana ed è connessa a un problema europeo di fragilità dei Paesi periferici. …”e quindi: “occorre ricreare immediatamente nel nostro Paese condizioni per ripristinare la normalità sui mercati finanziari con un immediato recupero di credibilità nei confronti degli investitori” , ribadita con un altro documento simile, il quattro agosto, una settimana dopo.

L’attacco, quindi, è in gran parte pretestuoso, ma facciamone propri gli obbiettivi; questo il senso dell’appello. L’accettazione trionfale della disfatta. Non proprio una “frattinata”, ma quasi; all’aspetto giulivo è subentrato quello melodrammatico.

Parallelamente la stampa ha tentato un approccio più analitico ai problemi, forse comprendendo la difficoltà di coesione rispetto a vent’anni fa e la necessità, quindi, di condurre una battaglia politica più aperta e motivata.

Tra le tante testate all’opera, le più emblematiche: “il sole 24 ore” pubblica un vero e proprio manifesto programmatico in nove punti, “il corriere” apre con una serie di editoriali con cui si spinge sulle privatizzazioni-liberalizzazioni, con qualche cautela, qua e là, sui rischi di eccessive aperture all’estero e si critica il carattere composito della coalizione di centrodestra, “il sussidiario.net” argomenta con buona sagacia sulle ragioni positive di questa politica liberale; autentico sentimento di comprensione e pena umana suscita Sallusti, direttore de “il giornale”, costretto a vere e proprie acrobazie nel far rientrare nel programma del polo le imposizioni altrui sino a dissolvere le truppe incaricate della resistenza nell’orda degli invasori. Saranno, queste ultime, ben mimetizzate nella massa, ma hanno dimenticato di abbassare i vessilli; cosicché è facile individuare il loro cambio di direzione.

Il “consiglio di Bengasi”, del resto, deve essere ben infiltrato anche nel governo di Silvihalmmar (di Porto Cervo) Berlusconidejhad, visto che almeno un paio di provvedimenti iniziali della finanziaria poi modificati, il primo, quello del quadruplicamento ed oltre dell’imposta di bollo sul conto titoli, il secondo, quello della drastica riduzione delle detrazioni sulle spese sanitarie e ristrutturazione edilizia lanciava due messaggi precisi, rispettivamente, alle categorie dei risparmiatori e dei liberi professionisti: abbandonate l’acquisto di titoli pubblici agli uni; di fronte a cotanto salasso potrete almeno evadere le tasse ancora di più, agli altri.

Due indicazioni perfettamente complementari agli attacchi esterni.

Non sono un teorico delle cospirazioni onniscienti e onnipotenti, né della riduzione di ogni ambito della conflittualità economica, ideologica e politica al complotto di un’unica mente strategica.

Si va per tentativi, test e colpi di mano.

Si usa la diplomazia spartitoria, l’infiltrazione o la forza militare per imporre o pilotare processi politici e svolte radicali, stroncare sul nascere alleanze alternative. La guerra in Libia, le primavere arabe secondo convenienza, le scaramucce di avvertimento in Corea e in Pakistan sono parte integrante di questa strategia.

Si indeboliscono o si annettono con strumenti politici ed economici i centri strategici suscettibili di essere il veicolo e lo strumento di scelte più autonome. Da un paio di anni, infatti, la forza e il prestigio di ENI e Finmeccanica appaiono chiaramente ridimensionati, lasciandole esposte agli attacchi speculativi, a possibili acquisizioni estere, americane nella fattispecie o alla loro liquidazione, una volta acquisite tecnologie e portafogli.

I predatori e gli sciacalli sono ormai numerosi, con una loro gerarchia e qualche licenza operativa.

Così come avviene in natura, gli sciacalli spesso rischiano quando si avvicinano troppo alla preda in presenza del predatore più grosso; spesso riescono a strappare qualche boccone più fresco, ma rischiano di essere azzannati rabbiosamente.

Il recente attacco speculativo alla Francia è forse l’avvertimento del grande predatore a non forzare troppo la mano, giusto per far presente che una guerra si fa, possibilmente, soprattutto per raccogliere periodicamente un bottino, non per radere al suolo un paese e raccoglierne i resti e le ceneri.

Mancano ancora i commensalisti, i più graditi dai grandi predatori; gli animali che si nutrono dei fastidiosi residui di cibo depositati tra le fauci, sul corpo e nelle vicinanze dei dominanti. Pare il ruolo auspicato e programmato dalla grande potenza al nostro paese ed accettato di buon grado da buona parte della classe dirigente nostrana.

L’Italia è solo una pedina e un luogo dello scacchiere; una volta sistemata, toccherà a qualche preda più grossa, magari amica, nella attuale contingenza, del grande predatore.

È quanto preconizzano da tempo, con lucidità, Sapir e Chauprade in Francia sul conto dell’Europa, dell’euro e del loro paese guidato da Sarkozy.

Riguardo alla situazione, in particolare del nostro paese, quello che colpisce è la estrema varietà e complessità delle variabili e degli strumenti disponibili o condizionabili, direttamente proporzionale al livello di frammentazione dei blocchi sociali e degli apparati statali.

In questo quadro va inserita l’analisi della legge finanziaria, ma anche di altri provvedimenti collaterali come il decreto sulla crescita.

Il provvedimento è il frutto certamente di un attacco esterno maturato in questi ultimi mesi e assecondato chiaramente da consistenti forze interne; sconta, però, il fatto di una spesa pubblica che è un elemento di freno e subordinazione del paese per il carattere di collante parassitario piuttosto che per la sua entità.

Ha scelto come vessillo la lotta ai costi della politica; un modo per dirottare l’avversione popolare su un aspetto tanto odioso quanto secondario del carattere parassitario della spesa pubblica e per ridurre alla ragione e all’ordine le componenti corporative più marginali al sistema di potere.

Sicuramente, nei prossimi mesi, subirà ulteriori pesanti ritocchi legati al conflitto in corso e alla morsa che si sta stringendo intorno al paese, ma entro direttive ampiamente tracciate.

La prima parte, quella di efficacia immediata, riguarda l’incremento significativo della tassazione sotto varie forme. I ticket sanitari e il prelievo oltre i novanta mila euro di reddito costituiscono la prima tranche; la drastica riduzione delle detrazioni fiscali, con la scandalosa eccezione degli incentivi esorbitanti alle installazioni fotovoltaiche ed eoliche, la seconda. Se la prima costituisce un classico esempio di prelievo forzoso con l’aggravante di incrementare, nel caso dei ticket, i costi amministrativi del servizio sanitario, la seconda, oltre ad incrementare il livello di tassazione, con la riduzione delle detrazioni delle spese sanitarie e ristrutturazione edilizia, costituirà un aperto incentivo all’evasione in settori dove il recupero fiscale è maggiormente compatibile con le capacità di reddito e l’economia delle categorie professionali interessate. Un segnale preciso, quindi, a determinati settori del ceto medio costituito, nello stesso tempo, da precarietà e privilegio abusivo.

Un discorso a parte meriteranno le future destinazioni del cinque e otto per mille, tanto importanti dal punto di vista della costituzione dei blocchi sociali quanto impossibili da valutare in anticipo, perché frutto di una contrattazione con singoli gruppi di associazioni ed istituti dalle finalità le più disparate. Mancano le forze, nel blog, per una analisi dettagliata di questo universo importante per la stabilità della formazione sociale.

La seconda parte riguarda il taglio delle spese.

Su questo l’amministrazione statale ha due strade agevoli da percorrere: quella del taglio agli indennizzi e ai servizi alla persona e alle spese per investimento ed ammortamento di strutture ed infrastrutture. Sulla prima esistono delle sacche in cui il cumulo di indennizzi e servizi creano delle figure privilegiate, ampiamente sostenute da associazioni lobbistiche e dal buonismo perbenista. L’uso demagogico di queste situazioni, se non contrastato da organizzazioni serie, potrà servire a colpire gli interventi essenziali. Sulla seconda, la finanziaria prevede una drastica riduzione degli accantonamenti e incremento dei prelievi, una pratica già diffusa nelle aziende pubbliche a scapito degli investimenti e della gestione corrente.

Molto più problematico dal punto di vista politico ed organizzativo è l’intervento sulle strutture fisse assistenziali come i centri di internamento, ad esempio gli istituti per i minori. Sono centri molto spesso luogo di pratiche scandalose tese più a garantire la riproduzione degli apparati burocratici e il finanziamento dei centri promotori che condizioni di effettiva assistenza, ma molto ben sostenuti dalle lobby. Di questo, nella finanziaria, infatti, non c’è traccia anche se i risparmi sarebbero significativi.

La finanziaria si dilunga voluttuosamente, spesso a ragione, sul taglio delle spese, sulla razionalizzazione dei flussi, sull’introduzione di parametri di costo rigidi (spending review) e sulla riorganizzazione del personale.

In realtà si tratta di discussioni che si trascinano da trenta anni e risorte improvvisamente sulla base dell’attuale emergenza. La finanziaria ha pubblicato delle tabelle con riduzioni dei costi per singoli ministeri, affidando agli stessi la responsabilità della riorganizzazione, in mancanza della quale procederà al taglio lineare del finanziamento.

Chi conosce un minimo di gestione aziendale ed amministrativa pubblica sa che, se non si decidono e modificano livelli e quantità di controlli, mansioni e gerarchie, legate ai processi di informatizzazione, non si semplifica e razionalizza e, quindi, non si risparmia; tanto più che l’ossatura del sindacato del pubblico impiego è costituita, non dalla massa degli impiegati, ma proprio da quei quadri intermedi che dovrebbero essere il principale oggetto di ridimensionamento e riorganizzazione. È una componente che è riuscita a ritardare di quindici anni la riorganizzazione di aziende pubbliche a gestione privatistica, come le Poste; figurarsi il potere deterrente che può avere in una organizzazione statale classica.

Un piano articolato di riorganizzazione costringerebbe le parti interessate, compresi i sindacati, a trattare su dati concreti e a escogitare modalità operative in grado di attenuare e sdrammatizzare le conseguenze sul personale, come avvenuto in Germania.

Le stesse procedure di semplificazione sono propedeutiche alla eventuale liberalizzazione di tutti quei ceti professionali autonomi che prosperano sulla farraginosità e la complessità delle normative e delle procedure e sulla molteplicità dei punti di accesso all’amministrazione (fisco, giustizia civile, pratiche di concessioni, registrazione di atti). Gli stessi tagli agli enti locali sono deleteri soprattutto perché non si interviene sulle spese fisse di amministrazione e si finisce con il tagliare i servizi alla persona.

Tutto lascia presagire che alla fine il proposito si concluderà in uno scontro sotterraneo su gruppi di interesse marginali.

L’abusato cavallo di battaglia della lotta all’evasione fiscale, che ha trovato nella Marcegaglia un ulteriore e inaspettato alfiere entusiasta, non potrà certo colpire quei settori che fanno dell’evasione un puro strumento di sussistenza della propria attività e, dietro questo scudo, ometterà il recupero sull’evasione di tipo speculativo e parassitario; si risolverà in un ulteriore drenaggio di risorse costituito da uno stillicidio di accertamenti fiscali su irregolarità per lo più formali e sulla riscossione di sanzioni usuraie e penali spropositate  sui singoli malcapitati.

Potrà sembrare retorica; basterebbe vedere le modalità di recupero delle tasse sulle rivalutazioni catastali effettuate con colpevole ritardo dalle amministrazioni e sanzionate, paradossalmente, gravosamente ai contribuenti; tipico esempio di “sportello amico”.

Uno stillicidio destinato ad irretire buona parte della popolazione.

Di sportello unico per il cittadino e per le imprese si parla da trenta anni; solo a maggio il Governo ha inserito qualcosa nel “decreto sviluppo” a titolo sperimentale in alcune zone; senza alcuno esito operativo al momento.

Una riorganizzazione efficace richiede un ceto politico forte e un sindacato serio di tipo confederale; due requisiti di là da venire.

In realtà il bersaglio grosso dell’attacco è costituito non dalla spesa pubblica, oggetto di speculazioni gravose per il paese quanto contingenti, ma dal patrimonio industriale residuo e da quello dei servizi, entrambi pubblici o convenzionati; non cesserà sino a quando non si riuscirà ad ottenerne la liquidazione e il controllo strategico oppure di lucrare qualche rendita a seconda del livello di importanza dell’attività.

All’interno di questa dinamica si formano le collusioni, anche se segnati da conflitti, tra i gruppi strategici dominanti, soprattutto stranieri e i gruppi di interesse locali o subordinati.

Gli articoli di Ugo Arrigo sul “sussidiario” e di diversi editorialisti sul “corriere” assumono un preciso significato in questa ottica.

Arrigo parte da una affermazione simil-lagrassiana: “Poiché per privatizzazione si intende il passaggio dalla proprietà pubblica a quella privata di imprese, immobili o altri attivi patrimoniali, bisogna sfatare in primo luogo l’assunto, molto caro sia alla sinistra radicale che alla destra colbertista, che pubblico sia sempre bello e buono e privato il suo esatto opposto. Pubblico e privato identificano solo la proprietà di strumenti di produzione, mentre nulla rivelano sull’uso effettivo che di essi viene fatto.”, ma per concludere che le privatizzazioni sono comunque preferibili e necessarie a patto che vi siano “adeguati sistemi di regolazione del mercato”.

A parte il fatto che gli “adeguati sistemi di regolazione” dipendono, come tutti i sistemi di regolazione sociale, dal conflitto di interessi, anche, nella fattispecie, dal tipo di servizio o prodotto offerto e dal fatto che l’erogazione comporti o meno l’utilizzo di una rete esclusiva.

In quest’ultimo caso, come potrebbero essere le reti del gas, elettriche, rete telefonica fissa, rete idrica, parlare di concorrenza risulta in gran parte pretestuoso, ininfluente dal punto di vista dei benefici e mira al puro trasferimento di ricchezza da un soggetto all’altro.

Tutto dipende dal tipo di rapporto tra committenti ed esecutori e dagli imput conseguenti; di esempi, nel bene e nel male, ce ne sono a iosa.

In Italia, tra l’altro, i livelli di privatizzazione e liberalizzazione sono elevati e i servizi sono erogati, spesso, sulla base della sola convenienza. Il servizio postale, ad esempio, è completamente liberalizzato e le aziende private lo forniscono, ma solo dove trovano convenienza, cioè nelle zone ad alta densità demografica e produttiva e per particolari servizi. Non forniscono, quindi, un servizio universale.

L’accademico si spinge ad affermare che l’origine dei capitali, nazionale o estera, è ininfluente sul ruolo svolto; sottolinea, inoltre, a sproposito che, storicamente, le aziende pubbliche non sono mai esempio di efficienza e convenienza economica.

I fattori su cui glissa,  però, sono dirimenti.

I paesi europei di una certa rilevanza che hanno privatizzato, hanno, a loro volta, in qualche maniera mantenuto il controllo delle aziende e delle attività, a prescindere dal carattere privato o pubblico dei capitali; sono riusciti a privatizzare solo dopo aver avviato la riorganizzazione delle aziende, cosa ancora lungi dal verificarsi in Italia in maniera coerente.

Parlare di mercati, riguardo ad alcuni servizi e prodotti strategici, significa parlare di mercati europei e, quindi, di reciprocità delle condizioni di accesso.

Notoriamente le condizioni di accesso sono diverse, la Comunità Europea emana delle direttive deboli e diversamente applicate nei vari paesi e gli accessi dipendono in gran parte dal peso politico e dalle attività lobbistiche negli stati e nella Comunità Europea.

Sono essenziali i programmi di investimento strategici e di lungo periodo.

Manca una analisi seria del bacino di mercato di riferimento dei servizi; una cosa, ad esempio, è il bacino di mercato dei servizi postali olandese, con alti volumi di traffico rispetto alla popolazione in un paese facile da percorrere, altra cosa sono le caratteristiche italiane (Sarà un argomento da approfondire in tutti gli aspetti, non solo quelli di mercato, per di più solo postale).

Manca una analisi seria delle reali possibilità di reperimento di capitali nazionali privati nella gestione di attività strategiche o di una qualche rilevanza. Gli esempi di Telecom, del Treno ITALO e di tantissimi altri rivelano il ruolo pressoché di copertura e di prestanome dell’imprenditoria italica.

Il nostro, infatti, indica le privatizzazioni degli anni ’90 come un esempio luminoso, anche se, bontà sua, parziale da seguire.

In gran parte degli ambiti, le immediate convenienze di mercato sono solo uno dei fattori che determinano le scelte strategiche di queste attività; lo diventano solo per quei paesi ricattabili e senza alcuna ambizione di sovranità e peso politico.

Il problema è che si scambia il mercato con una gestione efficiente e mirata agli obbiettivi delle risorse interne delle attività. Su questo sia le aziende private, specie quelle grandi, sia quelle pubbliche hanno parecchi punti in comune, soprattutto nel male.

In queste condizioni, in un paese dal peso politico aleatorio, senza una strategia e accecato dalla mitologia europeista e liberista, si rischia di creare la terra di nessuno.

Che sia questo il destino più o meno consapevole scelto dalla maggior parte della classe dirigente nazionale lo rileva il fatto che gran parte del dibattito si è spostato sul futuro delle aziende locali e minori di servizio, le uniche in cui i centri privati di potere possono assumere un ruolo autonomo e fornire,  forse, capitali e risorse.

Si da ormai quasi completamente per assodata la cessione delle grandi aziende e dei grandi servizi strategici.

La stessa attenzione enfatica riservata ai ceti medi produttivi e alla piccola e media industria, contrapposta al ruolo della grande, rivela in realtà il carattere del tutto subalterno e condizionato dalle scelte strategiche di centri strategici americani e mitteleuropei che si vuole riservare ad essi e al paese.

Una attenzione pelosa ma interessata anch’essa da attriti e conflitti.

La proposta avanzata da Enrico Letta e altri del PD e dell’area di centro di costituire due /tre grosse aziende fornitrici di servizi nel centro-nord Italia, del tutto irrazionale dal punto di vista della gestione, diventa comprensibile nell’ottica di una cessione a grandi investitori; non a caso è stata accolta gelidamente da Confindustria e da gran parte degli altri “liberalizzatori”.

In realtà il problema della spesa e delle risorse pubbliche, soprattutto in un paese in cui il capitale privato ha connotati in gran parte fragili, frammentati e parassitari, assume un valore strategico sia per la destinazione delle risorse che per la composizione dei blocchi sociali necessari a realizzare una strategia nazionale e sovranista e la scomposizione dei blocchi avversi. Ridurlo a un mero problema contabile, significa esporre ulteriormente il paese al ricatto e alla svendita.

 

Collateralmente alla finanziaria, il Governo Berlusconi ha riesumato la valenza del “decreto sviluppo” di maggio scorso.

Già confrontandolo con gli analoghi provvedimenti, molto più dirigisti e orientati, di Francia e Germania, anch’essi ispirati alle direttive della Comunità Europea, se ne rileva la pochezza. Oltre al credito di imposta per  le imprese orientate al reinvestimento c’è poco altro se non la attenzione riservata a due settori importanti ma non proprio strategici: il turismo e l’edilizia, con il secondo che produce già più di un terzo dell’attività industriale e che, notoriamente, poggia i realizzi sulle rendite più che sull’attività produttiva. Dovrebbe essere uno dei settori da cui trasferire risorse, spesso in realtà immobilizzate, verso i settori strategici; invece lo si alimenta ulteriormente.

Tutto il dibattito sulla efficienza della spesa pubblica, a prescindere dagli obbiettivi e dalla strategie, serve in realtà ad aggregare figure diverse, magari anche parzialmente alternative al ceto semicolto di lagrassiana memoria, ad attività secondarie, ma a rendita garantita e a riproporre un diverso blocco sociale subalterno. I conflitti, per tanto, sono destinati, comunque ad acuirsi.

Il malcontento generato da queste scelte esiste; corre, però, seriamente il rischio di essere raccolto da espressioni politiche addirittura peggiori delle attuali e le recenti elezioni amministrative hanno lanciato segnali inquietanti.

È un processo ancora fragile, in formazione e allo stato nascente; può essere, quindi, ancora contrastato e qualche remora a proseguire nella svendita esiste anche in alcune delle alte sfere.

L’unanimismo del tavolo delle trentasei associazioni si scioglierà ben presto con la prosecuzione degli attacchi politici e speculativi e con la necessità di adottare una qualche scelta discriminatoria pesante.

Lo stesso fatto che il dibattito abbia dismesso il carattere delle crociate e abbia assunto aspetti più pragmatici potrà fornirci nuovi spunti di dibattito e battaglia politica.

Non a caso i giornalisti, con la inesorabile eccezione degli eurosinistri, ormai si chiedono sempre più spesso e lo chiedono agli intervistati se le tempeste speculative sono il frutto esclusivo delle leggi di mercato o sono influenzate anche dalle strategie politiche in conflitto.
Il collare della garrota si sta stringendo, il suo punzone comincia a premere, le mani che la muovono sono sempre meno invisibili.

 

http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-libera/2011/7/28/INCHIESTA-3-Treni-e-poste-la-lezione-di-Olanda-e-Inghilterra/5/197231/

 

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-07-16/nove-impegni-crescita-081016.shtml?uuid=AaNvVcoD&fromSearch