La globalizzazione è davvero finita

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La globalizzazione è ormai un concetto senza contenuto, un involucro ideologico svuotato di effetti teorici e pratici. Il processo di dissolvimento è cominciato con l’affacciarsi sullo scacchiere internazionale di vecchie e nuove potenze le quali hanno rimesso in discussione una situazione degli eventi che sembrava irreversibile, dopo la fine della guerra fredda e l’inizio dell’era unipolare a stelle e strisce.
La superpotenza americana ha dovuto fare i conti con la storia, rivedendo le sue previsioni di dominio connesse al sistema di aspirazioni, sottomissioni, regole, leggi ed organismi eretti a supporto di detta egemonia. Questo non significa che l’America abbia perso la sua forza in assoluto, resta pur sempre prevalente tra le nazioni a livello mondiale, ma la sua preponderanza risulta relativamente indebolita dal rafforzamento dei suoi concorrenti diretti che hanno ridotto i differenziali di potere con Washington. Questa situazione ha fatto vacillare la narrazione che era stata edificata a partire dai primi anni ’90, la quale proiettandosi su ogni lembo di terra e su ogni popolazione planetaria (la globalizzazione era in verità una inglobazione) avrebbe avvolto tutto il planisfero in un consenso a guida statunitense ma propagandato quale evoluzione necessaria dello stato di cose esistenti.
Il nostro gruppo ha descritto questo orientamento anni addietro, orientamento che ora si affaccia come fatto incontrovertibile anche sulla stampa istituzionale, senza però che se ne tirino le conseguenze. Su Il Corriere di oggi scrive Galli della Loggia: “Nel declino dell’egemonia americana che allora raggiunse il suo culmine, nuove potenze mondiali e regionali si sono fatte prepotentemente avanti dappertutto —Cina, Russia, Turchia, Iran, India —e altre minori premono in cerca di spazio. Tutte mirano a crearsi zone d’influenza, cercano di espandersi, suscitano conflitti, alterano equilibri, sempre seguendo il proprio esclusivo interesse e infischiandosene di ogni norma, accordo o status quo precedenti…Anche il secondo fondamento della globalizzazione, il libero scambio — che ebbe il suo simbolo nell’ammissione della Cina comunista nell’Organizzazione del Commercio Mondiale nel 2001— ha perduto buona parte del suo consenso…proprio durante la pandemia si è visto quanto aleatorio sia quell’assioma a fondamento del libero scambio secondo il quale la proprietà e la localizzazione geografica delle produzioni sarebbe del tutto irrilevante perché a contare sarebbe solo il loro costo…Il terzo elemento che induce a pensare che stia finendo il tempo della globalizzazione riguarda il ruolo dello Stato, che la globalizzazione stessa prevedeva e auspicava avviato al declino…Se le cose fin qui dette sono vere esse significano un fatto molto importante: la riproposizione con forza del tema della sovranità e del suo ovvio intreccio con la politica. Il tema cioè della capacità propria dello Stato di esercitare il potere al servizio di un progetto collettivo”.
Ho un po’ ripulito la citazione del giornalista del corsera da quei riferimenti alla democrazia e alla sovranità popolare che finiscono per inficiare il suo discorso intuitivo ma ancora preda di un conformismo epocale duro a passare.
Quando si parla di sovranità non possiamo più riferirci a quella del popolo, come crede costui, ma solo ed esclusivamente a quella dello Stato. La sovranità appartiene allo Stato, ammesso che questi riesca a farsene carico. La sovranità del popolo, rinviante ad una idea di democrazia ormai marcia, è solo il residuo di una lunga fase di subordinazione ad un attore esterno, portatore di modello democratico pro domo sua, che ha fatto il suo tempo. Anzi, più tardi verrà messa in discussione l’appartenenza a questo “campo democratico” e più elevati saranno gli effetti deleteri del mancato sganciamento.
Tuttavia, non basta nemmeno dire che la sovranità appartiene allo Stato, senza specificare a quale Stato ci si riferisca. Anche Galli della Loggia mi pare confonda lo Stato con gli apparati amministrativi, con l’organizzazione dei poteri collettivi che intervengono nella sfera sociale. In realtà, quest’ultimi già maneggiano un “prodotto finito” derivante da un “processo di produzione strategico” e di indirizzi politici che stanno a monte, ben celati agli occhi dell’opinione pubblica. Lo Stato è precisamente il luogo in cui si elaborano le strategie dell’egemonia e della coercizione che si riversano tanto nei rapporti esterni che in quelli interni.
Come scriviamo, con La Grassa, nel libro recentemente uscito per l’editore Solfanelli, Per una forza nuova: “Lo Stato non è affatto il creduto organo essenzialmente unitario e compatto alla guisa dei reali individui dotati di effettiva volontà, sia pure conformata dall’intreccio di rapporti sociali in cui essi sono inseriti e agiscono. L’unità dello Stato consiste sempre nella latente minaccia, che solo in date occasioni si manifesta in tutta la sua evidenza, di uso dei suoi apparati di forza e violenza; quelli ideologici servendo soltanto durante lo scorrimento normale e oliato della vita sociale nei periodi in cui i “cittadini” vivono nell’illusione dell’identità tra rispetto delle regole formali – che, così si dichiara, garantiscono la parità di diritti per tutti – e una reale eguaglianza. Meglio poi se, con le “libere elezioni”, sono pure convinti di partecipare alla formazione delle decisioni prese da quest’organo “metafisico”, che sta sempre in ogni dove, avendo però sede in materiali luoghi ed edifici, in cui specifici corpi lavorativi (le burocrazie) svolgono le varie pratiche esecutive delle decisioni in oggetto. Che il disbrigo di tali pratiche sia efficiente o meno, di gradimento o di irritazione dei “cittadini”, questo è problema secondario per la falsa concezione dello Stato (sempre in vigore per ingannare):; tanto, si sa, “nessuno è perfetto”. A parte il tipo di unitarietà dello Stato appena considerato, quest’ultimo è in effetti sostanzialmente disunito, disorganico. Ecco perché sono fatui e sciocchi coloro che blaterano di Stato come se fosse soltanto un organo di gestione degli affari generali della società. La società – e non solo quella capitalistica, ma comunque di questa stiamo adesso trattando – non ha semplici affari generali da curare. Pochi (e minori) gli affari trattati per conto della “società tutta”; la maggior parte d’essi lo è solo nominalmente tale mentre è realmente connotata dalla prevalente impronta impressa dall’azione di un qualche gruppo di agenti sociali (dominanti)…

Questa reinterpretazione del concetto di Stato, che evidenzia meglio la sua struttura e le sue principali funzioni, ci porta a comprendere la necessità che si formi finalmente, anche in Italia, una vera classe dirigente (un gruppo di agenti strategici sovrani e non succubi di paesi stranieri) in grado di interpretare e direzionare le transizioni in corso a livello geopolitico. Su queste basi deve essere affermata l’ urgenza di ricostruzione ( economica, sociale, culturale ed anche militare) del Paese per concentrare le energie indispensabili ad affrontare le difficili sfide di un futuro ormai imminente. Non ci salveranno né la democrazia né le velleità di cooperazione di cui ancora sentiamo blaterare i nostri leader, sempre più ignorati da falsi alleati e finti amici, queste ubbie fuori tempo sono semmai spine nel fianco che rallentano i movimenti verso i cambiamenti di cui abbisogniamo.