La “lotta alla corruzione” è l’arma statunitense per affermare i propri interessi economici nel mondo. di S. Moracchi

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Nel momento in cui gli Stati moderni si affermavano, veniva sviluppandosi anche l’idea della loro conservazione. La ragion di Stato o interesse nazionale rientrava nella visione politica strategica e attraverso l’uso della tattica metteva con le spalle al muro la questione morale fino a cacciarla del tutto dal proprio orizzonte.

Gli Stati che hanno conservato la ragion di Stato sono quelli che hanno conservato il primato della politica. Non è quindi un caso che gli Stati come il nostro, dove a prevalere è la questione morale, attraverso un uso alquanto disinvolto della lotta alla corruzione, tanto meschino quanto miseramente rivolto contro l’interesse nazionale, la politica sia stata del tutto spogliata delle sue prerogative principali.

Il discorso “politico” sulla lotta alla corruzione dura oramai da più di vent’anni e nonostante il disastro che ha provocato sull’economia nazionale ancora si fa fatica a concepire questa “pratica” in chiave di strategia politica in uso alla nazione dominante o “liberatrice”.

Il Foreign Corrupt Pratices Act del 1977 è un atto legislativo partorito dal Congresso statunitense intrapreso per mette fuorilegge pratiche di strategia aziendale non gradite all’interesse nazionale.

L’attacco che è stato sferrato all’Eni rientra appunto in questa strategia e la filosofia spicciola che si è sentita su tale questione non rientra affatto nel motto di Federico II: “la filosofia ci insegna a fare il nostro dovere, a servire fedelmente la nostra patria anche con il sangue, a sacrificarle la nostra quiete anzi la nostra intera esistenza”.

Già nel 2010 l’Eni era finita nelle maglie della “giustizia americana” e dovette sborsare 125 milioni di dollari alla Sec in via extragiudiziale e 240 al Dipartimento di Giustizia. Oggi è di nuovo nel mirino degli Usa. Stesso discorso per Finmeccanica.

Come pure molte questioni che attengono alla strategia cinese dove, come è risaputo, le società sono costrette a risolvere trattative commerciali con agenti stranieri dove il termine “corruzione” non solo è controverso ma spesso diviene un pretesto per applicare il FCPA.

E’ il caso, ad esempio, dell’IBM costretta a pagare 10 milioni di dollari per risolvere una causa originata dalle disposizioni del FCPA, a seguito di pagamenti “illeciti” nei confronti di manager cinesi. Solo nel 2010 sono state 74 le azioni legali attuative delle norme FCPA. Larry Breuer, assistente dell’Attorney General, ha annunciato “una nuova epoca per l’applicazione del FCPA”.

Bene, con questa pratica gli Usa non solo controllano e distruggono a proprio piacimento le aziende strategiche di altri paesi ma ci fanno pure ottimi affari. Nel solo 2010 la Sec ha incamerato la ragguardevole cifra di 529 milioni di dollari, 20 dei quali derivanti da sanzioni civili e 509 da pagamento di interessi in sede stragiudiziale e dalla restituzione di utili indebitamente acquisiti. Anche il Dipartimento di Giustizia nel solo 2010 ha riscosso ben oltre il miliardo di dollari in sanzioni penali. Nel 2004 la cifra era di 11 milioni di dollari.

La Convenzione OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) in merito alla legge sulla corruzione ha visto la ratifica del nostro paese il 29 settembre del 2000.

Al capitolo “Finalità” la Convenzione OCSE recita:

“La penalizzazione della corruzione dei funzionari stranieri nell’ambito di operazioni del commercio internazionale è un orientamento che si è ormai imposto a livello internazionale, quale espressione di una “governance” fattiva di determinati aspetti della globalizzazione dell’economia mondiale. Questo impegno è pienamente condiviso dall’Italia insieme a tutti gli altri paesi industrializzati (e non solo questi), oltre che essere attivamente sostenuto dalle istituzioni multilaterali quali la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Si vuole così reagire a pratiche diffuse in certi ambiti che distolgono risorse importanti destinate ad aiutare i Paesi in Via di Sviluppo nella loro crescita economica e sociale, e che sono distorsive della concorrenza internazionale tra le imprese esportatrici sui mercati mondiali”.

Nei tribunali statunitensi sono state processate e condannate persone fisiche e giuridiche per aver intrattenuto rapporti con Paesi ritenuti non in linea con il FCPA. Le condanne sono arrivate anche contro quei soggetti le cui azioni non si sono svolte sul territorio statunitense.

L’intento di agire attraverso una legislazione con effetti extraterritoriali, senza tener conto della violazione della sovranità nazionale, mostra un disprezzo mal celato.

Se si guarda alle attività svolte attraverso il FCPA si noterà che la maggior parte sono state effettuate al di fuori del territorio Usa. Basti pensare al caso della Lockheed. Nel 1995 l’azienda si dichiara colpevole e accetta di pagare una multa di 24,8 milioni di dollari. Una cifra che corrispondeva al doppio del guadagno! Se si pensa che il caso Lockheed coincide temporalmente con il rapimento e l’uccisione di Moro si può facilmente immaginare come il FCPA sia un’arma politica determinante a livello internazionale.

Nel 1996 la Securities and Exchange Commission iniziò ad indagare sulla Montedison. La Montedison era iscritta al Sec in quanto vendeva ADR (American Depository Receipts). Nonostante non vi fosse alcun collegamento, diretto o indiretto, con gli Stati Uniti le autorità continuarono ad indagare tranquillamente. Alla fine, la Montedison venne condannata non per corruzione ma per aver manomesso i registri contabili. L’operazione servì comunque ad influenzare negativamente gli equilibri economici del nostro paese.

Nel 1996 in Italia abbiamo il governo Prodi e Antonio Di Pietro come Ministro dei Lavori Pubblici.

Non è quindi un mistero che gli Usa puntano moltissimo sull’arma della “lotta alla corruzione” sia in una prospettiva unilaterale attraverso il FCPA sia multilaterale grazie all’imposizione della Convenzione OCSE.

Durante la presidenza Clinton (1992-2000) l’azione unilaterale è stata affiancata da una robusta strategia multilaterale sia nell’ambito dell’Organizzazione degli Stati Americani (OAS) come pure dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) al fine di ottenere un cambiamento fondamentale nel panorama geopolitico internazionale.

C’è da dire che gli Usa hanno spesso desistito dall’applicare il FCPA quando non gli faceva comodo motivandolo con il segreto di Stato. E’ il caso di James Griffen, il petroliere banchiere americano, accusato di aver pagato tangenti per 80 milioni di dollari al Presidente del Kazakhstan Nursultan Nazarbayev e assolto con la motivazione di aver agito “nell’interesse strategico degli Stati Uniti”.

In un Paese sottomesso come il nostro non è neppure immaginabile.