La parabola libanese e il tentato riassetto del Vicino e Medio Oriente

– Giacomo Gabellini

 

 

Dagli sviluppi relativi alle rivoluzioni che hanno scompaginato i precari equilibri all’interno del complesso mondo arabo sono emerse numerose ingerenze esterne che rivelano il chiaro intento delle potenze atlantiche di rimodellare il contesto geopolitico areale.

Uno dei più ostinati tentativi portati avanti nei decenni riguarda la destabilizzazione del Libano, paese che non è mai riuscito a consolidare un equilibrio stabile.

L’attentato a Rafik Hariri del 2005 rappresenta indubbiamente una delle tappe fondamentali rientranti nel progetto eversivo in questione.

Rafik Hariri è stato un facoltoso e abile uomo d’affari che aveva fatto della propria popolarità e dell’innato fiuto politico il cemento necessario per tenere insieme una maggioranza particolarmente variegata e capace di rappresentare le tre componenti sciita, sunnita e maronita, maggioritarie nel tessuto sociale libanese.

Il successo politico dell’uomo era dovuto principalmente al suo lavoro diplomatico che aveva portato alla fine della sanguinosa guerra civile e consacrato Damasco quale garante di una sorta di pax siriana sul Libano, che pure risultava indigesta a talune personalità di spicco come il generale cristiano Michel Aoun.

Il periodo immediatamente successivo alla pace trascorse all’insegna della ricostruzione e vide le varie componenti sociali libanesi porre momentaneamente tra parentesi gli antichi rancori per profondere congiuntamente gli sforzi necessari a risollevare il paese dalla catastrofe appena conclusasi.

In questo particolare contesto si inserirono gli ultimi rampolli della stirpe Gemayel – Pierre jr. e Sami – eredi del capostipite Pierre, fondatore del Partito Falangista cristiano.

Costoro ripresero la tradizionale avversione congenita nei confronti della Siria messa momentaneamente in angolo dal partito guidato in quella fase da Karim Pakradouni, la cui vicinanza al governo siriano aveva drasticamente ridimensionato la capacità destabilizzante dei falangisti.

I rapporti di forza che regolavano la situazione politica libanese furono definitivamente ridisegnati nei primi mesi del 2005, dopo che Rafik Hariri si era dimesso dall’incarico di Primo Ministro in segno di protesta contro l’emendamento approvato costituzionalmente atto a prorogare di tre anni la presidenza de Emile Lahoud, sponsorizzato attivamente da Bashar Assad.

Ciò fece in modo che la pianificazione e l’esecuzione dell’attentato del 14 febbraio che costò la vita ad Hariri venissero istantaneamente attribuite alla Siria; cosa che – amplificata poderosamente dalla grancassa mediatica – favorì il sorgere di un movimento di rivolta popolare contro la presenza di circa 14.000 militari siriani nel Paese.

La sommossa, prontamente ribattezzata come “Rivoluzione dei Cedri”, sortì il duplice risultato di costringere Bashar Assad a cedere alle forti pressioni internazionali, dichiarando la fine del protettorato siriano sul Libano oltre all’imminente ritiro delle proprie forze armate dal territorio libanese, e di favorire l’ascesa al potere dell’economista Fouad Siniora, che si mostrò immediatamente riconoscente nei confronti di Pierre Gemayel per la funzione antisiriana svolta dal Partito Falangista sotto la sua egida affidandogli l’incarico di Ministro dell’Industria.

La “Rivoluzione dei Cedri” seguì il medesimo schema delle tante rivoluzioni colorate sorte nei paesi vicini alla Russia da vicende, non sempre realmente accadute o rispondenti alle modalità con cui sono state descritte, in grado di catalizzare i malcontenti popolari della più svariata natura e creare disordini sociali suscettibili di indebolire o abbattere i governi in carica.

Tuttavia, il governo Siniora mostrò ben presto – come quello di Viktor Yushenko in Ucraina – i propri limiti e perse rapidamente tutti i vantaggi che aveva precedentemente ottenuto, giungendo perfino a sciogliere la Corte Costituzionale che l’avrebbe probabilmente dichiarato decaduto alla luce del palese dissolvimento del bacino elettorale che ne aveva decretato il trionfo solo pochi mesi prima.

Il popolare generale cristiano Michel Aoud si schierò allora con il potente movimento sciita di Hezbollah, formando una coalizione nazionalista forte di un vastissimo appoggio popolare e assai invisa a Stati Uniti ed Israele.

Hezbollah, per bocca del leader Hassan Nasrallah, spese al riguardo le seguenti, eloquenti parole: “Non abbiamo fiducia di questo governo che risponde alle decisioni e ai desideri dell’amministrazione americana. Manifestiamo per ottenere la caduta del governo illegittimo e anti-costituzionale, il governo di Feltman”.

Jeffrey Feltman ricopriva all’epoca l’incarico di assistente al Segretario di Stato per il Medio Oriente.

In quella specifica fase in cui la struttura portante del governo Siniora presentava crepe sempre più profonde si verificò l’enigmatico omicidio di Pierre jr. Gemayel, che era un uomo politico dal basso profilo ma dall’altisonante cognome, in grado di suscitare le più irrazionali pulsioni in seno alla nutrita e turbolenta componente cristiana del Libano.

La sua conclamata ostilità nei confronti della Siria orientò ancora una volta i sospetti sul governo di Damasco, cosa potenzialmente destabilizzante e suscettibile di spezzare l’integrità sociale libanese e rigettando il paese nel caos.

Una vicenda simile era accaduta nel 1982 al più noto della stirpe Gemayel, quel Bashir che dilaniato in un colossale attentato pochi giorni prima di esser nominato Presidente con il forte sostegno di Israele e specificamente dell’allora Ministro della Difesa Ariel Sharon.

L’atto terroristico fu anche all’epoca attribuito alla Siria che si era da poco schierata in difesa dei profughi palestinesi e provocò la spaventosa ritorsione dei falangisti i quali, forti del supporto logistico dell’esercito israeliano, perpetrarono il ben noto massacro nei campi di Chabra e Chatila delle altrettanto ben note dimensioni.

L’obiettivo di Israele è sempre stato quello di destabilizzare il Libano e la resistenza sciita, dalla quale è nato Hezbollah, è stata l’unica forza in grado di contenere la soverchiante macchina militare meglio nota come Tsahal.

Nell’estate di quel rovente 1982 Israele sferrò l’operazione “Pace in Galilea”, nell’ambito della quale caddero circa 20.000 civili libanesi (e palestinesi) e un terzo del territorio nazionale cadde in mano all’esercito di Tel Aviv.

Mentre Hezbollah raccoglieva adepti in seno alla società libanese Tsahal non riusciva a piegare la resistenza sciita e incassava inaspettate perdite lungo le alture di Khaldeh.

Nel 1985, l’ostinazione di Hezbollah costrinse Israele a ritirarsi da numerosi villaggi e dalle principali città di Tiro e Sidone.

Nel luglio del 1993 il capo di Stato Maggiore Ehud Barak intimò al servile governo centrale di Beirut il diktat di disarmare i “terroristi” di Hezbollah o di accettare le inevitabili conseguenze dell’eventuale inadempienza.

Nel frattempo Hezbollah aveva però acquisito un peso tale da rendere impossibile ogni iniziativa del governo in tal senso ed Israele decise quindi di passare alle maniere forti sferrando l’operazione “Accountability”, durante la quale vennero effettuati più di 1.000 raid aerei corrispondenti ad altrettanti bombardamenti sulle città libanesi.

Il Mossad aveva però sottostimato la capacità di reazione di Hezbollah e agì seguendo una colossale, malriposta fiducia nei propri servizi.

Hezbollah e le varie fazioni della resistenza libanese ribadirono infatti colpo su colpo provocando uno stallo che culminò con una tregua che entrò in vigore il 31 luglio del 1993.

Di fronte all’inaspettata reazione libanese, il Primo Ministro Itzak Rabin fu costretto ad ammettere la sconfitta.

Nell’aprile di tre anni dopo ebbe luogo l’operazione “Grapes of Wrath”, comprendente una serie di bombardamenti a tappeto sulle città di Balbek e Tiro, provocando la morte di numerosi civili e la distruzione di case e infrastrutture.

Tuttavia Hezbollah aveva studiato le tattiche israeliane e tratto i debiti insegnamenti dai passati conflitti, anticipando le mosse di Tsahal e infliggendo forti perdite mediante operazioni di guerriglia che le numerose milizie a disposizione erano state addestrate specificamente ad eseguire.

Seguì un’ulteriore tregua patrocinata dal Ministro degli Esteri statunitense Warren Christopher.

L’opinione pubblica israeliana interpretò il tutto come una sconfitta, cosa che compromise la rielezione di Shimon Peres in seguito alle elezioni del maggio 1996.

Nell’estate del 2006 si verificò l’ennesima aggressione israeliana, un’operazione che stando al rapporto redatto da Amnesty International ha provocato la morte di 1.183 civili libanesi, di 4.054 feriti e circa 970.000 profughi.

Gli oltre 7.000 attacchi aerei e i circa 2.500 bombardamenti navali israeliani hanno comportato la distruzione di 120 ponti, 900 strutture commerciali e più di 30.000 edifici tra alloggi, uffici e negozi.

I centri abitati hanno subito immani devastazioni quantificabili nell’80% delle case a Tayyabah, 60% a Zibqin e 50% a Markaba, Bayyadah e Qantarah.

Danni estremamente gravi sono stati riportati da ospedali, centrali elettriche, condotti idroelettrici e qualsiasi altro tipo di infrastruttura.

Hezbollah intendeva barattare alcuni militari israeliani catturati nel corso di un’incursione costata la vita a otto soldati di Tsahal con alcuni civili libanesi detenuti in Israele, ma il governo di Tel Aviv guidato dal Primo Ministro Ehud Olmert decise istantaneamente di lanciare una gigantesca offensiva in tutto il paese finalizzata ad assestare un duro colpo al “Partito di Dio” privandolo dell’appoggio popolare e rinfocolare i mai sopiti dissidi interni al Libano.

Si trattò di un’operazione animata dalla medesima logica che portò all’invasione israeliana del Libano nel 1982, diretta a favorire il dissolvimento dell’OLP.

Sortì però un effetto politico del tutto inaspettato, che corrispose con in consolidamento dell’asse cristiano (maronita) – sciita promosso dai rispettivi leader Michel Aoun e Hassan Nasrallah e la conseguente formazione di un fronte patriottico unito fortemente ostile ad Israele.

Gli attentati che hanno stroncato le vite di eminenti personalità libanesi si giustappongono perfettamente nel più ampio contesto generale da cui emerge l’inesausto tentativo israeliano di creare fratture in seno alla variegata e complessa società libanese, gettando una seria ipoteca sull’autonomia decisionale dei governi di Beirut così da sottrarli all’influenza siriana.

Gli Stati Uniti hanno sostenuto il governo di Tel Aviv nell’ultimo conflitto libanese contestualmente al ruolo ritagliato su misura per Israele dagli strateghi neoconservatori, che intendevano favorire l’affermazione dell’egemonia regionale israeliana come avamposto degli interessi statunitensi nell’area.

L’aggressione all’Iraq fu parte integrante di questo disegno, la prima mossa del progetto riguardante l’instaurazione di un “Grande Medio Oriente”, la cui funzione è stata eloquentemente indicata da William Kristol e Robert Kaplan : “La missione comincia a Bagdad ma non finisce qui (…), tutto ciò riguarda molto più che l’Iraq. Riguarda addirittura più del futuro del Medio Oriente e della guerra al terrorismo. Riguarda quale ruolo gli Stati Uniti intendono svolgere nel Ventunesimo Secolo”.

Lo scenario luminoso previsto dai neoconservatori si è rivelato, alla prova dei fatti, difficilmente realizzabile perché costellato da numerosi fattori storici, economici, militari e geopolitici che hanno ridimensionato la capacità coercitiva degli Stati Uniti.

Per questo motivo il progetto relativo allo scardinamento dell’assetto geopolitico che ha mantenuto l’equilibrio del mondo arabo per svariati decenni è proceduto seguendo metodologie diverse da quelle concepite dai neoconservatori, più propensi a far ricorso alle tattiche d’urto che non alla diplomazia dei raggiri e delle ingerenze.

Tuttavia, la pur abbondante benzina versata sul braciere libanese negli ultimi decenni – scatenando una serie impressionante di guerre civili e massacri – ha finito per rafforzare il ruolo di Hezbollah e cementare l’unità nazionale attorno alla condivisa ostilità nei riguardi di Stati Uniti e Israele.

In Siria gli Stati Uniti e i loro sottoposti – Israele in primis – hanno adottato alcune tattiche inerenti la medesima metodologia impiegata in Libano, sobillando alcune frange popolari alla rivolta così da gettare le basi per l’attuale destabilizzazione del paese, duramente repressa dal regime di Basher Assad.

Israele, d’altro canto, è entrato in definitiva rotta di collisione con la Turchia di Recep Tayyp Erdogan, che ha disposto il ritiro del proprio ambasciatore dopo una lunga fase di continue turbolenze innescata dall’operazione unilaterale meglio nota come Piombo Fuso del dicembre 2008 contro Gaza e aggravata dalla strage della Freedom Flotilla del maggio 2010, che provocò la dura presa di posizione turca culminata con la pubblica esecrazione di Shimon Peres, che cercava di legittimare i bombardamenti su Gaza, ad opera di Erdogan.

Tel Aviv versa attualmente in un isolamento regionale che subirebbe inevitabilmente un ulteriormente inasprimento qualora il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e i membri del suo entourage decidessero di compiere qualche azione spregiudicata contro l’Iran o contro la Siria.

Dal momento che il ruolo di Presidente degli Stati Uniti è occupato da Barack Obama è difficile che iniziative simili trovino l’appoggio di Washington.

La politica estera propugnata dall’amministrazione Obama è fortemente condizionata (se non manovrata) da Zbigniew Brzezinski, stratega che ha sempre deplorato l’appoggio statunitense alle più sconsiderate azioni di forza israeliane e che guarda da un’angolazione differente l’affaire siriano.

Brzezinski ha svolto un ruolo cruciale durante la Guerra Fredda e anche dopo il collasso dell’Unione Sovietica ha indicato nella possibile rinascita della Russia la principale minaccia agli interessi statunitensi.

La Siria non è soltanto un fedele alleato della Russia, ma ospita anche una imponente, imprescindibile base militare a Tartus che garantisce l’agognato sbocco sul Mediterraneo alla flotta russa.

Mosca è conscia tanto dell’importanza cruciale della base di Tartus quanto del ruolo centrale che svolge attualmente la Siria e si è opposta, contestualmente, a qualsiasi ingerenza esterna proposta finora dagli stessi protagonisti dell’aggressione unilaterale alla Libia.

Tuttavia, John McCain – ex candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti – ha recentemente affermato che “Dopo la Libia, un cambio di regime potrebbe verificarsi anche in Siria e persino in Russia e Cina”, aggiungendo che “Le ribellioni non si limiteranno al Medio Oriente ed investiranno anche la Russia” e che “Putin dovrebbe apprendere la giusta lezione dal destino di Hosni Mubarak”.

Oltre a gettare una luce assai sinistra sulla presunta spontaneità delle rivoluzioni attualmente in corso, l’arroganza con cui McCain ha esternato le proprie previsioni ha aperto lo scenario a un possibile ritorno al potere dell’ala neoconservatrice e al ripristino di una strategia più marcatamente muscolare, che ha assurto la forza bruta a nuovo “nomos della terra” da imporre con i ben noti metodi impiegati nel recente passato.

Dal canto suo, il Baath siriano guidato da Basher Assad è apparso finora un regime estremamente coriaceo, capace di effettuare abilmente le proprie mosse sullo scacchiere internazionale.

Sta dimostrando, insomma, di aver appreso dalle vicende libanesi come fronteggiare le minacce esterne e dalle agguerrite milizie di Hezbollah come acquisire la lezione di Sun Tzu – conoscere il nemico – meglio dei propri avversari, che al momento non sembrano seguire una strategia condivisa – per sconfiggere Gheddafi hanno impiegato molti più mesi di quanti non avessero previsto – per il Vicino e Medio Oriente.