LA STRATEGIA ECONOMICA CINESE E LA SUA INFLUENZA SULL’OCCIDENTE di G. Caprara

Cina

LA STRATEGIA ECONOMICA CINESE E LA SUA INFLUENZA SULL’OCCIDENTE

Intervista al Professore Arduino Paniccia Docente di Studi Strategici, Direttore della Scuola di Competizione

Economica Internazionale di Venezia – ASCE ed analista della Rivista Militare

La Pirelli, una delle aziende più importanti del Sistema Italia, è passata sotto la gestione della China National Chemical Corporation. Il 51% della catena di controllo è dunque sotto l’egida della Cina, la quale tenderà più al valore industriale della Pirelli che a quello finanziario: questo vuol dire che l’Azienda italiana potrebbe non essere più quotata a Piazza Affari, se non con la partizione aziendale relativa ai soli pneumatici stradali. Dal punto di vista delle dinamiche economiche italiane, quanto pesa la cessione della Pirelli?

Questa domanda ne pone subito un’altra: ma esiste un “Sistema Italia”? Oppure l’economia italiana è sempre stata una sommatoria a geometria variabile di interessi corporativi e localistici, nemici di qualsiasi strategia unitaria pur di mantenere i propri vantaggi tattici? Abbiamo cercato di superare questa debolezza nazionale legando i nostri destini ai paesi “virtuosi” del Centro-Nord Europa, ma questo vincolo esterno ci ha fatto cadere dalla padella alla brace.

L’esigenza di sopperire in qualche modo alla soffocante e sempre più drammatica mancanza di liquidità provocata da una maldestra unione monetaria è il motivo principale delle partnership come quella che stiamo trattando. E anche l’attuale svalutazione dell’euro, avvenuta dopo anni di culto totemico della moneta forte, pur essendo la benvenuta, ha effetti solo nel commercio extra-UE, non incidendo per ovvi motivi nel commercio intra-UE (il cambio tra Italia e Germania resterà grazie all’euro sempre fisso). Per questo i paesi oggi in affanno cercano di riposizionare alleanze e mercati verso i “paesi emergenti” extraeuropei (a dire la verità emersi ormai da un bel pezzo), o meglio extra-euro.

In una Unione Europea nella quale ogni paese, a cominciare da quello leader, pensa solo ed esclusivamente ai propri interessi nazionali, costringendo anche gli altri membri a fare altrettanto, da un punto di vista italiano la cessione della Pirelli ai cinesi non è molto più pericolosa di una cessione della Pirelli ai tedeschi o ai francesi. E poi, la russa Rosneft era già entrata nel luglio del 2014 in Camfin, la finanziaria della Pirelli. Anzi, l’operazione fa affluire liquidità invece di drenarla. Può darsi che assuma una sua pericolosità se la si considera da un punto di vista “atlantico”, certo, ma in ogni caso le conseguenze per il cosiddetto “Sistema Italia” ormai sono negative solo in una visione retorica, non realistica.

Porre imprese e dipendenti italiani alle decisioni di aziende non appartenenti alla Comunità Europea, è depauperare il Sistema Italia del capitale intellettuale. Nel mondo globalizzato, la componente politico strategica è in diminuzione a favore del campo economico e finanziario. Tale condizione è un fattore di crescita per l’Italia, oppure sarà motivo di una ulteriore flessione dell’economia nazionale?

Anche porre imprese e dipendenti alle decisioni di aziende appartenenti all’Unione Europea è un rischio, poiché un interesse economico (e finanziario) dell’Unione di fatto non esiste, e, come già dicevamo, quando il discorso si fa concreto, ogni grande paese dell’Unione (Italia a parte) risponde al proprio interesse nazionale. Nel formare una coscienza economica comune, la moneta unica ha fallito, anzi, ha esacerbato le differenze e le rivalità tra i vari Stati.

Peraltro non è vero che la componente politico-strategica stia svanendo. I grandi stati utilizzano strategicamente la loro economia e la loro finanza per penetrare nei nuovi mercati ed acquisire nuove posizioni di forza. Parlando di capitale intellettuale, e quindi di riflesso anche di proprietà intellettuale, si può vedere adesso, dopo due decenni, come la Cina abbia sfruttato strategicamente la richiesta di manodopera a buon mercato da parte delle aziende europee, favorendo una delocalizzazione industriale indifferenziata e procurandosi così, in modo molto intelligente, una consistente parte di quella tecnologia di cui era drammaticamente carente.

Gli europei non si sono accorti che la tecnologia è un assetto strategico di un paese, come insegnano assai bene gli Stati Uniti, i quali sono estremamente restii ad esportarla, soprattutto la tecnologia legata al nucleare/energia, all’aerospaziale/difesa, al biochimico e all’elettronica. Il Congresso americano ha proibito l’esportazione dell’F-22, il più avanzato caccia esistente, sbattendo la porta in faccia, per la prima volta, a partner come Israele, Giappone o Arabia Saudita che vent’anni prima avevano ottenuto subito i loro F-15.

Esiste una delocalizzazione intelligente e una diciamo meno intelligente. La prima è quella che delocalizza produzioni e filiere non essenziali e non più remunerative, sostituendole in patria con nuove produzioni innovative a più alto contenuto tecnologico ed informativo – e quindi strategico. La seconda è quella che delocalizza qualsiasi cosa, cercando il costo del lavoro più basso a scapito di altre considerazioni, quali la qualità del prodotto e le conseguenze a medio-lungo termine dell’esportazione delle capacità produttive. Cosa quest’ultima che si è trasformata in un boomerang: è inutile lamentarsi che i cinesi oggi fanno concorrenza alle montature per occhiali italiane, se sono state proprio le aziende di occhiali italiane ad insegnare ai cinesi a farle.

L’intelligence economica è un patrimonio per le nazioni tecnologicamente evolute e costituisce un elemento centrale per le dinamiche di ogni paese, un sistema che consente ai Governi di sostenere le Aziende e di aggiungere valutazioni di carattere politico e strategico finalizzate alla tutela del patrimonio. E’ accettabile lasciar erodere la nostra sovranità economica per allearsi alla seconda potenza finanziaria mondiale?

L’Italia da decenni non ha più una strategia industriale, né una sua di intelligence industriale. La fuga di cervelli, ma soprattutto di idee all’estero è un fatto storico tradizionale, basti pensare a Guglielmo Marconi, Enrico Fermi o Federico Faggin, il vicentino, laureato in fisica a Padova, che ha inventato il microchip e che per realizzarlo è dovuto andare negli USA. E non abbiamo solo depauperato le nostre risorse intellettuali, ma anche il nostro patrimonio tecnologico e industriale: il primo personal computer è stato realizzato dalla Olivetti ancora negli anni Sessanta. Che fine abbia fatto la Olivetti lo sappiamo tutti. Quindi non è solo un problema odierno. La sovranità economica l’abbiamo persa da un bel pezzo, e non a causa della Cina.

Parlando di “strategia” tradizionalmente intesa, oggi la forza militare, anche nucleare, è ancora una componente fondamentale di uno stato che voglia essere una grande potenza internazionale. È però una forza il cui utilizzo è possibile, ma molto “virtuale” in una competizione diretta. Nessuno può negare che nel Pacifico occidentale sia in corso un confronto militare, ma non si è mai arrivati ad uno scontro a fuoco nemmeno di piccola entità. Invece la classica “guerra per procura” ereditata dalla guerra fredda non è affatto passata di moda: in Medio Oriente i continui scontri armati tra sunniti e sciiti non sono altro che una manifestazione della contrapposizione tra Iran ed Arabia Saudita per l’egemonia nella regione, ed anche in Ucraina il confronto militare tra Occidente ed Oriente passa comunque attraverso le fazioni che si contendono il paese e la nuova frontiera tra Europa e Eurasia che poi si spinge, passando per il Mar Nero, fino al Mediterraneo.

La Cina ha in corso una ristrutturazione della propria industrializzazione, che dovrebbe emigrare dalla manodopera a basso costo alla catena del valore più qualificata, quindi ad acquisire quel valore aggiunto che sinora aveva deliberatamente accantonato. Questa transizione può convincere anche gli Stati Uniti ad accettare investimenti cinesi sul proprio territorio, o continueranno a mascherare la loro sicurezza globale come patriottismo economico?

La Cina è oggi una potenza industriale matura, anche nel campo delle produzioni ad alta tecnologia come l’elettronica (basti pensare alla Huawei) o l’aerospaziale, e il Paese ha concluso la fase del basso costo del lavoro per importare tecnologia grazie alla delocalizzazione altrui.

Sicurezza globale è certamente anche “patriottismo economico”, poiché questo significa salvaguardia di asset industriali e tecnologici strategici. In questo tipo di salvaguardia gli americani, come già detto, non hanno nulla da imparare da nessuno, anzi. Tempo addietro il sito della NASA bloccò i suoi PDF perché era in corso una valutazione se alcuni di questi potevano fornire all’estero informazioni tecniche lesive della sicurezza nazionale. Eppure, si trattava di documenti alcuni dei quali erano vecchi di cinquant’anni. L’innovazione tecnologica è oggi la base di qualsiasi primato economico.

Qualche anno fa il CIRA, il Centro Italiano di Ricerche Aerospaziali, fu estromesso a livello ministeriale dalla lista delle realtà degne di sovvenzione statale. Fu un decreto dell’allora presidente Napolitano a reinserirlo. Una cosa simile sarebbe stata inconcepibile non solo negli Stati Uniti, ma per esempio anche in Francia o in Gran Bretagna.

La burocrazia nella governance europea, costringe gli investitori extra comunitari ad intrecciare rapporti con i singoli stati. La Cina potrebbe approfittare di tale condizione per minare l’alleanza europea e creare il primo polo al mondo per volume di scambi commerciali? Ma soprattutto l’interesse per l’Europa non potrebbe celare lo scopo ultimo di arginare la partnership economica euro-atlantica, ossia il TTIP?

La “Nuova Via della Seta” e il TTIP partono da esigenze diverse. E’ chiara comunque la grande differenza di impostazione strategica delle due iniziative – il TTIP come classico accordo economico appartenente alla grande tradizione postbellica delle varie ONU, FMI, WB, GATT/WTO, eccetera, e la “Nuova Via della Seta” all’interno di un sistema ancora più tradizionale di accordi bilaterali tra stati sovrani.

La “Nuova Via della Seta” è infatti sostanzialmente il tentativo, da parte della Repubblica Popolare Cinese, di istituzionalizzare, attraverso una serie di accordi bilaterali tra stati, una “nuova via commerciale” che porti le merci cinesi in Europa evitando i trasporti marittimi, lenti ed anche pericolosi a causa degli stretti e della pirateria. La sua implementazione comporta la realizzazione, attraverso capitali, imprese e spesso anche maestranze cinesi, di grandi opere infrastrutturali, ferroviarie, stradali e portuali. Essa sta assumendo un forte impatto nell’area dei Balcani, visto che questa è considerata dai cinesi strategica nello sviluppo del loro progetto.

Il TTIP per l’Atlantico e il corrispettivo TPP per il Pacifico, di cui in Italia si parla poco, assomigliano invece molto ad un tentativo statunitense di “serrare le file” dei paesi occidentali di fronte al progressivo coagularsi del blocco asiatico basato sull’asse Russia-Cina. I paesi possibili firmatari dei due trattati rappresenterebbero più del 60% del PIL mondiale ed anche da un punto di vista crudamente demografico, nonostante i noti problemi di calo di natalità ed invecchiamento della popolazione, rappresenterebbero pur sempre, più o meno, un miliardo e 300 milioni di cittadini. Una realtà della quale chiunque sarebbe costretto a tener conto.

Le ambizioni meno dollaro-centriche cinesi, sono già una realtà con l’eoocentrismo, inteso come il trilateralismo con Russia ed Iran, dove gli accordi di swap con il renmimbi hanno creato un nuovo centro di potere. Il progetto della ferrovia che congiungerà la Cina con la Germania, l’apertura del passaggio a nord-est, sono una nuova fase dei rapporti economici fra Cina ed Europa. Possono avere come scopo secondario quello di diversificare gli investimenti di Pechino per ridurre le riserve della divisa statunitense in loro possesso?

È chiarissima l’intenzione dei tre paesi citati di creare una zona di interscambio asiatica non dipendente dal dollaro. Date le dimensioni di questa zona, che coinvolgerebbe non solo Russia, Cina ed Iran ma anche le repubbliche dell’Asia Centrale e in genere, almeno indirettamente, tutti i paesi legati in qualche modo alla SCO, l’obiettivo è comunque molto difficile da raggiungere almeno nel medio periodo, proprio perché gli USA sono una vera superpotenza che gioca su tutti gli scacchieri a partire, se occorre, da quello militare.

Il deficit federale USA è sostenibile in quanto la Federal Reserve può stampare dollari e questi sono comunque sempre accettati nel commercio internazionale. Gli Stati Uniti si sono reindustrializzati, ricominciano a produrre ed esportare. Con i due trattati “oceanici” gli Stati Uniti otterrebbero una specie di super-NAFTA nel quale presumibilmente il dollaro manterrà il suo predominio. L’aggancio tra dollaro ed euro è una componente fondamentale di questo nuovo assetto monetario. E c’è perfino chi, come il premio Nobel Robert Mundell, vagheggia una moneta unica transatlantica. La cosa strana è che in Italia fino a poco tempo fa parlare di svalutazione era quasi un delitto, si paventavano conseguenze a dir poco apocalittiche. Quando poi è stato deciso l’aggancio euro-dollaro, perché di questo si è trattato, nessuno nei media si è stracciato le vesti per una svalutazione della moneta europea superiore a quella tanto temuta di un’eventuale nuova lira. Non si tratterebbe di tornare alla “liretta delle svalutazioni competitive”, ma di avere nelle proprie mani il governo della propria moneta, come tutte le vere grandi potenze, in un’epoca in cui esistono anche le guerre monetarie. La crisi del rublo è in fondo una “controffensiva” del dollaro.

Giovanni Caprara