L’argomento è: “Dappertutto”

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Nel suo intervento pubblicato ieri sul Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia torna a produrre argomenti per farci sapere che noi (occidentali) siamo i migliori e liquida con tono sprezzante il tentativo dell’antropologo Marco Aime di decostruire l’idea di una pretesa supremazia intellettuale dell’Occidente. La chiusa del suo ragionamento è emblematica: “se ancora oggi dappertutto si legge Rousseau e non la Costituzione dei diciassette articoli, ci sarà pure qualche ragione”.
Dappertutto, oltre che un falso argomento, è un argomento falso. Galli della Loggia continua ad aggrapparsi a categorie eurocentriche, fingendo che siano universali.
“Dappertutto si legge Rousseau”. Se in India o in Cina studiano Rousseau fanno benissimo, ma “dappertutto” è solo una formula retorica che presuppone un “mondo” che coincide, ancora una volta, con l’Occidente e con i suoi circuiti accademici e culturali dominanti. Semmai il guaio è nostro, che conosciamo poco gli autori di quelle culture perché ci sentiamo “dappertutto”.
Tuttavia, allargando lo sguardo, ciò che non fa più chi si sente dappertutto, scopriamo che le cose stanno molto diversamente. In India, ad esempio, il nome di Aśoka il Grande è ben più noto e venerato di quello di Rousseau. Dappertutto diviene almeno quasi dappertutto. In Cina, nel XVIII secolo, pensatori come Dai Zhen discutevano con un approccio originale e ugualmente valido di etica, razionalità e responsabilità sociale in termini altrettanto complessi di quelli dei loro coevi europei, pur senza alcun riferimento alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo.
In Africa, forme consuetudinarie di governo partecipativo e limitazione del potere erano praticate in società non alfabetizzate, ma non per questo prive di razionalità politica o di senso della giustizia. Avremmo molto da imparare da tutti, se non fossimo già dappertutto.
Il punto centrale, dunque, non è negare l’importanza di Rousseau o della tradizione dei diritti umani occidentale (più di forma che di sostanza, visto che come ammazziamo noi nessuno al mondo), ma riconoscere che ogni cultura ha prodotto pensiero, etica, istituzioni e che il nostro essere dappertutto, più che un vanto, è un limite, sappiamo meno degli altri di quanto gli altri sappiano di noi.
Affermare che si legge Rousseau dappertutto ci inorgoglisce ma ci deprime allo stesso tempo, perché noi siamo molto meno aperti all’eccellenza altrui, eravamo già dappertutto per discendere sulla terra, e questo vuol dire che l’Occidente è ancora troppo pieno di sé, nonostante intorno il mondo sia sempre meno unidimensionale e calibrato sul nostro dappertutto.
L’affermazione di una cultura è anche il risultato di una geografia del potere (le cannoniere sono essenziali caro il mio storico). Ieri eravamo quasi onnipotenti, ma lo saremo molto meno domani, cambiando i rapporti di forza, saremo costretti a essere molto più attenti alla produzione intellettuale altrui. Così forse scopriremo che non siamo mai stati così originali, o almeno non tanto quanto ci siamo illusi di esserlo. Abbiamo influenzato il pianeta, con le buone e con le cattive ma presto toccherà a noi subire lo stesso, in meglio e in peggio.
L’etnocentrismo con cui Galli della Loggia ormai scrive è solo il sintomo di una cultura impaurita, la nostra, che teme di perdere il primato che ha esercitato per secoli. Ma la vera grandezza di una tradizione si misura proprio quando è sotto attacco. Vedremo se saremo in grado di resistere, quanto e in che modo, ai modelli culturali altrui nella prossima fase di decadenza, che sembra lenta ma inarrestabile. Ci troveremo in posizione di svantaggio e più permeabili ai pensieri altrui. Finiremo di sentirci i primi della classe e portatori di cose che abbiamo inventato solo noi. Tanto più che ci stiamo già distruggendo con le nostre stesse mani.
Se consideriamo William Shakespeare razzista e antisemita, mettendo le sue opere al bando, come recentemente successo negli USA, meritiamo di fare la fine che faremo. Nel frattempo, se Galli della Loggia fa un passo indietro, tutta la cultura occidentale ne farà almeno uno di sbieco (le due cose non stanno in rapporto di causa ed effetto ovviamente ma di mera speranza), per scansare quella supponenza che vieppiù ci si ritorce contro e ci rende odiosi e odiati dappertutto. Un dappertutto sempre più vasto e più grande di noi.

Estratto dall’articolo di Galli della Loggia sul Corriere di ieri:
“Marco Aime, professore di antropologia culturale a Genova, credendo di rispondere alla mia domanda polemica in quale altra storia e cultura diversa da quella dell’Occidente fosse dato di trovare qualcosa di simile alla celebre Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Cito la sua risposta (da Domani, 15 aprile, con qualche inevitabile taglio):
«Il sovrano indiano Asoka (304-232 a.C.) introdusse leggi che rappresentavano una vera rivoluzione culturale: furono proibiti la caccia e anche il ferimento di animali (…), fece costruire ospedali per uomini e animali, università, ostelli gratuiti per pellegrini (…), le sue leggi proibivano ogni discriminazione per casta, fede o schieramento politico (…). Nel 604 d.C. (seicento anni prima della Magna Charta) il principe giapponese Shotoku introdusse la Costituzione dei diciassette articoli in cui si legge: “le decisioni importanti non devono essere prese da una sola persona. Devono, invece, esser discusse da più persone (…). Non dobbiamo provare nessun rancore quando qualcuno non è d’accordo con noi (…). L’imperatore moghul Akbar affermava la necessità di un dialogo tra le diverse religioni dell’India (…). In molti regni africani esistevano forme di controllo sul sovrano, che potevano portare anche all’eliminazione del monarca stesso». E così via credendo di contestare con simili argomenti quella che nel titolo del quotidiano viene additata come «la supremazia (falsa) dell’Occidente».
Che sarà pure falsa quanto si vuole, ma se ancora oggi dappertutto si legge Rousseau e non la Costituzione di diciassette articoli ci sarà pure qualche ragione, mi dico: e forse diversa dalle famose cannoniere che l’Occidente ha avuto a disposizione.
Nella situazione presente, insomma, la storia, è divenuta il campo di battaglia tra due opposte idee di passato: in funzione, come è sempre accaduto, di due diverse idee del presente e del futuro. E questo è lo scontro vero — lo scontro al quale hanno dato luogo anche i recenti programmi di storia contenuti nelle nuove Indicazioni per la scuola varate dal Ministero — non già lo scontro — come gli avversari della «supremazia (falsa) dell’Occidente» vorrebbero far credere — tra i nostalgici del «fardello dell’uomo bianco» da un lato, e dall’altro gli apostoli dell’«amicizia tra i popoli», ovvero tra qualche tradizionalista poco informato delle novità bibliografiche e loro invece, i solerti cultori dell’«aggiornamento scientifico della disciplina»”.