LE ACCUSE DEGLI “ANTIQUARI” E IL COMUNISMO FALLIBILE

gianfranco

Di GLG

Ogni tanto qualcuno si diletta nell’accusa, sembra molto alla moda, d’essere “rossobruno”. Mi sembra un’accusa abbastanza sciocca; quando poi la sento rivolgere a me, ritengo gli autori dei veri deficienti. Non me ne sorprendo, però, giacché simili conclusioni provengono da gente che è ancorata all’età in cui, almeno mi sembra, sopravviveva ancora qualche dinosauro. Dato che oggi ho voglia di perdere tempo, preciserò che non sono né rosso né bruno perché si tratta di colori del tutto sbiaditi; almeno se si usano per indicare vecchi processi storici (a parte che il bruno era, se ben ricordo, nero senza sfumature).
Per quanto mi riguarda, sono stato – e lo riaffermo con vivezza e senza nessuna vergogna – comunista. Non rimpiango per nulla d’esserlo stato e considero quel periodo con netta partecipazione affettiva e di giudizio storico positivo. Se non lo sono più, è perché ritengo che, come tante altre cose, appartiene ad un passato trascorso, ad un processo che considero grandioso ma decisamente conchiuso. Non ho affatto rinnegato quel passato, non lo considero un mio errore, non ho rivalutato altre credenze ideologiche pur esse per me ormai prive di effetti progressivi e che invece molti continuano a praticare. Ritengo atrofizzati quelli che ancor oggi si dilettano con il liberismo; perfino avendo gettato a mare quel po’ di modernizzazione che gli aveva apportato un Keynes. Non parliamo di coloro che si sciacquano ancora la bocca con la “democrazia” (identificata con la fregnaccia delle urne) quando la prevaricazione, l’inganno, la menzogna più spudorata dominano ormai da parecchi decenni. Non vi è dubbio che considero con minore disprezzo i “neri”; ma perché erano molto meno ipocriti e non dei falsi umanitari. Le loro idee non erano le mie, anzi l’opposizione è stata netta. In ogni caso, lo ribadisco, quei processi sono storicamente passati e finiti.
Non discuto però di ciò che non mi ha mai riguardato; salvo che da bambino, e solo indirettamente, perché mio padre era fascista. Tuttavia, io non lo sono mai stato e nel 1953, anno in cui ho cominciato ad interessarmi di politica (prima le mie “fantasie” volavano altrove), mi sono subito avvicinato al PCI. Poi, negli anni ’60, ho seguito altri tortuosi percorsi (“gruppuscolari”), che non sto a raccontare. Affermo solo che il mio avvicinamento al comunismo è avvenuto per ragioni di convincimento della possibilità che lo svolgimento della dinamica sociale nella società capitalistica fosse quello che andavo via via approfondendo dalle letture di Marx (in primo luogo) e dei successivi seguaci di quella impostazione. In un certo senso, il mio accostamento al comunismo è avvenuto per via teorica; soltanto in seguito a questa “formazione” di tipo scientifico ho aderito poi a molti degli scontri, diciamo così, “pratici” (più specificamente politici) scegliendo appunto “quella parte”.
Ho sempre rigettato, fin da giovanissimo, ogni forma di coinvolgimento soltanto emotivo, di adesione sentimentale. Mai creduto che il comunismo fosse il trionfo di una nuova umanità; per me è sempre stato soltanto la possibile (non dogmaticamente certa) nascita – “dal grembo stesso della società capitalistica”, anzi del “modo di produzione capitalistico”, come sostenuto chiaramente da Marx – di una nuova organizzazione sociale, in cui sarebbe venuto meno il “conflitto di classe” (dove le classi pensate erano quella proprietaria del mezzi di produzione e quella che produce e può vivere soltanto vendendo la propria capacità lavorativa), ma non certo quello tra gruppi sociali e individui, che mai saranno soltanto solidali e caritatevoli fra loro. Alle scemenze della Chiesa (in questo senso, non per altro di più serio), non ho mai creduto pur volendo bene al “padre francescano” che mi ha seguito per anni durante l’infanzia e la primissima adolescenza.
Ho seguito l’involuzione del movimento cui aderivo, ho assistito con disagio – ma lo appoggiavo perché ero in scontro con il “revisionismo” piciista, avendo io avuto anche modo di sapere abbastanza presto il nascosto e piuttosto infame “revirement” del PCI verso gli Usa e l’atlantismo a partire grosso modo dal ’69-’70 – al movimento sessantottardo e soprattutto alla sua rapida degenerazione negli anni ’70 e seguenti. Infine, negli anni ’90 – non assolutamente per il semplice fatto della fine del sistema cosiddetto “socialista” e dell’Urss – ho dato per concluso quel processo, ho approfondito il pensiero marxiano rilevandone i limiti e la vecchiezza; e restando ancor più distante da quelle che ritenevo già da qualche tempo delle vergognose degenerazioni del suo pensiero da parte di filosofastri e politicanti, che non a caso si è visto che fine hanno fatto, vendendosi apertamente ai poteri dominanti e avendo accesso a tutti i media e case editrici (e posti universitari) controllati da questi; e perfino continuando a tuonare, sempre più raramente, contro il capitalismo, ma in modo tale da non disturbare mai i veri dominanti di turno.

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E adesso veniamo un po’ al dunque, a considerazioni che mi preme esplicitare (l’ho fatto anche altre volte e ancora lo farò, visto che ci si ostina a non capire). Partiamo da una considerazione che può sembrare di lato. Molti “marxisti” o comunque anticapitalisti digrignano i denti quando si nomina Karl Popper, che – come del resto molti pensatori liberali e anche ignoranti di ciò su cui si ostinano a “berciare” – riteneva il marxismo (compreso quello specifico di Marx) una pura ideologia di tipo olistico (organicistico), non sottoposta ad alcuna possibilità di falsificazione, così come dovrebbe essere di una teoria scientifica secondo i criteri prescrittivi formulati al proposito dall’epistemologo in questione. Non intendo discutere in questa sede tali criteri, che d’altronde sollevano molte perplessità e credo non siano oggi più tanto alla moda; o, in ogni caso, sono stati sottoposti a critiche e revisioni.
Tuttavia, mentre ritengo un’opera puramente ideologica e scritta senza appunto conoscere l’argomento di cui si tratta “La società aperta e i suoi nemici”, intendo accettare, almeno per sommi capi, il criterio popperiano della falsificazione. Proprio in base a tale principio, il marxismo è da considerarsi decisamente scientifico, dato che lo sviluppo storico del capitalismo nell’ultimo secolo ha precisamente falsificato alcuni suoi fondamentali assunti. Non mi diffondo adesso su quali siano questi ultimi; l’ho fatto molte volte e spero di farlo in modo pienamente sistematico fra non molto (se la sorte non si accanisce contro tale progetto). Sostengo, tuttavia, che la falsificazione non necessariamente deve portare al rifiuto, in blocco, della teoria marxista, per aderire ad impostazioni teoriche – tipiche quelle neoliberali, oggi ancora in voga, fondate largamente sul cosiddetto “individualismo metodologico” – che appaiono spesso assai più “ideologiche” (in certi casi persino fantasiose) di quanto non sia stato il marxismo, quello proprio di Marx e quello dei suoi successori.
Ritengo però che dalla falsificazione di certe ipotesi e previsioni del marxismo in oggetto risulti radicalmente messo in questione il comunismo – in quanto sbocco e portato oggettivo dello sviluppo del “modo di produzione capitalistico” – e vada nel contempo criticata severamente la regressione della concezione comunistica ad una credenza molto ideologica, meramente moralistica, del tutto sentimentale; in una parola “buonista” secondo l’espressione oggi alla moda. Non ritengo invece che debba essere buttato alle ortiche il marxismo in quanto teoria di date progressioni storiche della società umana; e anche per alcune sue rilevanti critiche della formazione sociale capitalistica. Esso va senza dubbio radicalmente ristrutturato e innovato, mutando anche alcuni suoi fondamenti. Non credo debba tuttavia essere trattato come un mero reperto archeologico, così come non può essere considerata semplicemente “falsa” la teoria newtoniana pur dopo la formulazione di una teoria più globale come quella della relatività. Certamente, bisogna liberarsi dei “teologi fondamentalisti” che del marxismo hanno fatto una “dogmatica” di stampo quasi religioso, intoccabile; ma questo non può significare il famoso “buttare il bambino con l’acqua sporca”.
COMUNISMO FALLIBILE significa allora che esso era SCIENTIFICAMENTE fondato su una teoria passibile di falsificazione di alcune delle sue ipotesi di base, che la configuravano come teoria di un “modo di produzione capitalistico” appena allora sviluppatosi dalla formazione sociale precedente. Dopo centocinquant’anni, la fallibilità si è definitivamente attuata, è divenuta fallimento. Da questo è possibile ripartire per una formulazione teorica, pur sempre critica della moderna società capitalistica, che tenga debito conto degli sviluppi di tale formazione sociale dopo la prima rivoluzione industriale affermatasi compiutamente in Inghilterra tra gli ultimi decenni del ‘700 e la prima metà del XIX secolo. In tale direzione vi è ancora molto lavoro da fare; anzi, ho la perfetta consapevolezza che il sottoscritto può soltanto gettare qualche base di una ricostruzione teorica, che richiederà ancora tempi piuttosto lunghi secondo quanto è oggi possibile prevedere.
Tuttavia l’intenzione è precisamente quella di sistemare sempre meglio la critica (interna) del sistema teorico marxiano, coerentizzandolo al massimo, senza necessariamente inseguire il “che cosa ha veramente detto Marx”, poiché si tratterebbe allora di un proposito massimamente stolto e perfettamente inutile. Voglio precisare con sempre maggiore esattezza tutto ciò che mi appare implicito (oltre all’esplicito) in quel pensiero, mettendo poi in piena evidenza i “punti di fuga” dalle sue asserzioni più consunte. Purtroppo, non sarà opera facile per molti motivi, che non sto certo ad elencare. In ogni caso questo è il progetto di questi miei ultimi anni, lasciando gli sciocchi a sproloquiare sul “rossobrunismo”. E mi piacerebbe ricevere l’aiuto di un gruppetto di lavoro che afferrasse l’importanza di quanto si potrebbe e dovrebbe fare.