L’EUROPEISMO INTERDETTO: IL PD E L’EUROPA

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Il Partito Democratico (PD), più di ogni altra formazione politica dell’attuale scenario italiano, ha fatto dell’Unione Europea il vessillo e il punto di riferimento su cui tarare la propria azione.

Non che gli altri partiti ignorino la prospettiva; al contrario, nel profluvio di manifesti ed appelli che la prossima scadenza elettorale sta apportando, il preambolo europeista rappresenta per tutti il passaggio obbligato da cui partire: in un caso, quello dell’area di Casini, a sostegno pedissequo delle attuali politiche europeiste del Governo; negli altri, è il caso della Lega, della Fondazione di area PDL  “ Magna Carta”, di critica più o meno radicale all’attuale processo europeo, sino ad assumere toni sorprendentemente “similsovranisti”, come nel caso di Tremonti. Della capziosità di tali posizioni ho già accennato in altri articoli, ne parlerò approfonditamente in futuro con il supporto dei documenti sempre più numerosi che appariranno nei prossimi mesi.

Il PD, invece, è il partito che con maggior coerenza si pone nell’ottica degli “ulteriori sviluppi” progressivi del processo di unione sull’onda dell’agiografia europeista che ha imperversato in questo cinquantennio presentando gli sviluppi da metà secolo scorso come un processo lineare e teleologico. Di questa chiarezza va dato atto. È la formazione che con maggior convinzione cerca di forzare e ricondurre gli argomenti europeisti nella contrapposizione classica tra politiche conservatrici liberiste-nazionaliste e politiche progressiste-socialdemocratiche keynesiane sovranazionali; una rappresentazione però del tutto limitativa e fuorviante.

L’impellenza delle scelte sta facendo uscire il dibattito interno al partito dalle certezze mitologiche e con esso sta producendo le prime contraddizioni, tutte ancora al momento ricomponibili e i primi approcci alternativi sul ruolo tutt’altro che evanescente degli stati nazionali; tesi, queste ultime, ancora relegate, per il momento, tra i contributi estemporanei di alcuni accademici simpatizzanti.

È quindi possibile individuare un filo conduttore comune nelle attuali posizioni di un partito che, a partire dalla fine degli anni ’70, ha accolto nelle sue fila le componenti più europeiste e filooccidentali, a cominciare da Spinelli, per finire con i suoi attuali eredi  i quali hanno fuso quella impostazione con quella funzionalista di Monnet di emanazione espressamente statunitense.

IL RETAGGIO DI FINE SECOLO IN ITALIA

Gli sviluppi del processo unitario europeo a partire dagli anni ’90 avviene, nella visione dell’attuale Segretario Bersani, secondo “un ciclo politico conservatore” che punta da un lato a “lo sfrenato lasciar fare, la logica standardizzata”, dall’altro convive con“la politica di destra del fare argine alla spinta della globalizzazione in chiave localistica e corporativa, populistica, difensiva. La destra ha fatto tutte le parti in commedia, accumulando consensi. E i partiti progressisti sono rimasti lì in mezzo a difendere le conquiste sociali dall’effetto dumping della globalizzazione, ma senza avere una teoria, senza una possibile alternativa, cercando solo di aggiustare quello che arrivava, rendendolo più potabile socialmente. Abbiamo vissuto un decennio di questo genere.

Riconoscere alla sinistra un ruolo meramente subalterno significa, però, sminuire con qualche distrazione di troppo il ruolo determinante di allora. L’apoteosi di quella politica liberista fu raggiunta proprio con l’Amministrazione democratica di Clinton, già allora punto di riferimento della sinistra europea, con la relativa liberalizzazione finanziaria, la delocalizzazione industriale, con la commistione del sistema bancario, con il tentativo di annichilimento e predazione della Russia, l’interventismo umanitario in Jugoslavia e l’assoggettamento definitivo del processo unitario europeo alle strategie della NATO, quindi degli Stati Uniti. Quest’ultimo, tra l’altro, passò per la sconfitta pesante delle illusioni franco-tedesche, coltivate con la fine del bipolarismo, di maggior ruolo nella alleanza atlantica con la richiesta di comandi di peso nella NATO, con il tentativo fallito di creazione di un corpo militare europeo congiunto autonomo, con la creazione riuscita solo parzialmente di  una industria aereonautica civile e militare e con la stretta riconduzione della politica di influenza della Germania in Europa Centro-Orientale all’interno delle compatibilità decise dagli americani in funzione antirussa. Una dèbacle che lasciò la Russia di Gorbacev, nella sua ingenuità e connivenza, del tutto esposta alle mire predatorie americane e una illusione, quella europeista, che paralizzò per diversi anni le diplomazie russa, cinese, iraniana e di tanti altri paesi emergenti in attesa fiduciosa del sorgere di un polo alternativo a quello americano cui riferirsi. Il ruolo dei governi italiani di allora, sino ai primi anni del nuovo millennio, sia di centrodestra che di centrosinistra, fu di totale connivenza con i propositi americani e di rottura di ogni spinta autonomista.

Bersani (http://www.tamtamdemocratico.it/doc/223216/il-pd-e-il-futuro-del-progetto-europeo.htm) intende concedere ulteriori attenuanti, se non veri e propri riconoscimenti, alla componente di centrosinistra di allora di cui fece parte a pieno titolo; rivendica alla propria parte, infatti, il merito essenziale di aver portato l’Italia nell’euro con la sottolineatura che allora nel centrosinistra italiano e per audace proiezione nella sinistra europea, ci fosse comunque la consapevolezza di doverlo accompagnare con politiche strutturali che equilibrassero le economie di mercato. A conforto della sua versione ci sarebbero stati l’attenzione per gli interventi di coesione sociale nelle zone periferiche, i piani di intervento strutturale nelle infrastrutture, il piano Galileo nella ricerca scientifica. Il vero disastro sarebbe avvenuto, recita ancora Bersani, con la gestione successiva al varo dell’euro in mano alla destra berlusconiana in un quadro di gestione delle funzioni comunitarie condotte, nella visione conservatrice europea sino ad oggi dominante, secondo criteri intergovernativi; con l’esautoramento, quindi, di fatto di Commissione Europea e Parlamento. Se in effetti la gestione berlusconiana, dietro l’alibi della ipocrita avversione all’euro, può aver aggravato in Italia gli aspetti predatori e speculativi della circolazione dell’euro nei suoi primi anni, è innegabile che a guidare in quegli anni la Germania, cioè il principale e più influente paese della Unione Europea, fossero proprio i socialdemocratici. Non ostante le evidenti forzature storiche, a dar man forte alla linea giustificazionista di Bersani corre Emma Bonino, allora parte integrante delle fila del PD, la quale sentenzia che “Un’unione monetaria come quella europea, con 17 sovrani e vari candidati a farne parte, funziona solo col bel tempo, in assenza di problemi economici gravi. Ma quando questi arrivano non sono mai simmetrici: ci sono sempre stati membri che vengono più colpiti di altri. A quel punto, o si abbandona chi rimane indietro al proprio destino – ed è la fine dell’unione – o lo si aiuta” (http://www.tamtamdemocratico.it/doc/223218/il-realismo-dellutopia-federalista.htm).

C’è un limite, però, nella forzatura di interpretazione dei singoli eventi e nella giustificazione delle scelte superato il quale, l’intera costruzione interpretativa vacilla pericolosamente.

Se è vero che la crisi ha avuto un punto di rottura importante quattro anni fa costringendo ad un continuo adattamento tattico le formazioni più solide e ad un annaspamento convulso quelle più deboli e disorientate, è anche vero che quello sconvolgimento, tuttora in corso, è maturato per l’accumulo ventennale progressivo di energie positive e negative delle varie forze in campo più in conflitto che in sinergia tra di esse.

L’Italia, in questo frangente così dinamico, si trova nella sua particolare condizione di subalternità, di debolezza e di disarticolazione per le scelte effettuate negli anni ’90 e nel primo lustro del ‘2000; le privatizzazioni e le dismissioni, le condizioni di ingresso nell’euro, il sacrificio dell’interesse nazionale imposto dalla fedeltà atlantica, il progressivo deteriorarsi di un ceto politico e di una classe dirigente sono stati i motori che hanno permesso l’accumulo di energia negativa; la maggiore sapienza amministrativa del centrosinistra senza alcuna riorganizzazione significativa ha consentito un semplice prolungamento, meno traumatico, dell’agonia sino al momento di precipitazione degli eventi e della attuale riproposizione autolesionista di quegli stessi provvedimenti in maniera ancora più distruttiva.

Abbiamo scritto ed argomentato parecchio in proposito.

 

LE DINAMICHE EUROPEISTE DI FINE SECOLO ED OLTRE

 

Le scelte effettuate in ambito europeo dall’Unione, per meglio dire secondo l’accordo dei vari paesi membri, non hanno fatto altro che accentuare la conflittualità e gli squilibri tra i paesi, raggruppandoli in poli diversi e le condizioni sempre più divaricate tra di essi; piuttosto che una iniziale funzione neutra, come pare ventilare la Bonino, hanno innescato sin dall’inizio dinamiche che in circa dieci anni hanno prodotto l’attuale situazione.

Pian piano mi sto avvicinando al cuore della questione e delle contraddizioni di quel partito, anche se l’approccio è particolarmente complesso e difficoltoso e meriterebbe una ricerca e una riflessione ben più articolata.

 

UNA COSTANTE DELL’EUROPEISMO ITALIANO E NON SOLO

 

Una costante della politica europeista italiana è stata quella di favorire un processo unitario su base sovranazionale e anazionale che portasse alla creazione degli Stati Uniti d’Europa con la partecipazione egualitaria e a pari titolo dei vari stati europei; l’idea più o meno esplicita era quella di creare uno stato europeo senza nazione attraverso lo svuotamento progressivo degli stati nazione europei. La teoria della crisi degli stati nazione e la critica indistinta ai nazionalismi forieri di guerre e conflitti disastrosi fornirono il supporto ideologico a tale programma politico, rappresentando come crisi di una istituzione universale la mera decadenza degli stati usciti sconfitti dalla seconda guerra mondiale e di quelli comunque egemonizzati nei decenni successivi; un principio assunto progressivamente in toto dallo stesso PCI, con la sua svolta europeista degli anni ’70 e confermato sino all’attuale PD, pur con l’attuale insinuazione di qualche dubbio.

La mancanza di reali autonomi centri strategici politici europei almeno nei paesi cruciali e di relative organizzazioni politiche ha prodotto e portato ad identificare nella Commissione Europea (CE), un apparato tecnocratico senza ramificazioni territoriali e pesantemente determinato e influenzato dai centri americani sin dal suo concepimento, l’istituzione in grado di garantire e rappresentare l’unità politica del continente e il ruolo egualitario degli stati.

Che questa interpretazione della funzione reale della CE non sia una semplice mia forzatura lo dimostrano, tra innumerevoli esempi, cinque episodi significativi: la liquidazione di fatto dell’EURATOM, negli anni ’60, nel momento in cui fu evidente l’impossibilità di integrare la Francia nel programma euroamericano di sviluppo nucleare con il conseguente smantellamento dell’industria nucleare italiana; l’adesione clamorosa agli accordi sulla liberalizzazione del mercato agricolo mondiale dei commissari europei, con l’esplicita disapprovazione  dei paesi dell’Europa continentale e invalidazione delle loro firme; l’ostracismo ostinato della Commissione su South Stream; il sostegno esplicito e partigiano all’interventismo avventurista americano a dispetto delle cautele manifestatesi qua e là tra i vari stati europei; la pervicacia con cui ha cercato di scoraggiare, in nome di un libero mercato per altro lungi dal realizzarsi, la nascita, nei settori strategici, di complessi industriali di dimensioni paragonabili a quelli americani ed ora anche cinesi.

Un esempio tipico di come un principio astratto di eguaglianza e un nobile obbiettivo politico possano diventare in realtà uno strumento di battaglia contro il ricorrente asse franco-tedesco che nei decenni si è rivelato alternativamente un veicolo di maggiore autonomia dagli Stati Uniti o uno loro strumento di controllo del continente spesso  concorrenziale rispetto alla gestione della Commissione; un modo di concepire la gestione delle rivalità nazionali e le alleanze riconoscendo agli Stati Uniti, a futura memoria, il ruolo di arbitro e giocatore interessato.

 

LA VISIONE EUROPEISTA VINCENTE NEL PD

 

Tornando al PD, sebbene alcuni studiosi come Leonida Tedoldi dichiarino finalmente che “l’idea stessa della crisi, del superamento dell’esperienza statuale e «del suo narrarsi oltre la fine» – che ha tenuto banco per gran parte delle ultime decadi del Novecento – è ormai logora e dimostra di non essere più in grado di colmare il ritardo delle analisi storiche e politologiche sullo sviluppo e sul distendersi complesso della cosiddetta era globale” (http://www.tamtamdemocratico.it/doc/240463/lo-stato-nella-globalizzazione.htm) ed altri si spingano a rovesciare la chiave interpretativa della costruzione europea non più come dissolvimento degli stati nazionali ma come loro affermazione in contesti normativi diversi, sono ancora politici di spicco come D’Alema http://www.tamtamdemocratico.it/doc/223231/il-ruolo-delleuropa-oltre-la-crisi.htm, parlamentari come Mauro Ceruti tra i tanti a rivelare di che pasta è fatto ancora l’attuale europeismo. (http://www.tamtamdemocratico.it/doc/223243/una-e-molteplice-leuropa-provincia-globale.htm)  Con la sua nota prosopopea, D’Alema auspica che “è necessario dotare l’Europa di un propulsore autonomo” ; che “non si tratterà più di muoversi in una logica di politica di potenza, questo è certo” ; che “Il nostro compito, oggi, deve essere quello di condannare con fermezza le violazioni dei diritti fondamentali e isolare i regimi che tuttora le perseguono. E dobbiamo essere noi a guidare questo processo, anche perché gli Stati Uniti oggi non sembrano in grado di poter dare una risposta coerente al dossier mediorientale. Pensiamo al contrasto tra i lungimiranti discorsi di Obama verso il mondo arabo e la calorosa accoglienza riservata dal Congresso – a maggioranza Repubblicana – nei confronti del premier Netanyahu”; che “Solo l’Unione può intervenire con una proposta politica forte in questa regione, assumendo quel ruolo di guida che già ebbe nel 1989, quando propose ai Paesi dell’Est che si liberavano dal comunismo l’ingresso nella Comunità europea”.

Tralascio il millantato credito vantato sugli eventi del  ’89 e gli impeti di vanagloria che spesso travolgono la compostezza dell’esponente, assolutamente recidivi rispetto agli analoghi meriti arrogatisi nella caduta del Governo Berlusconi; è in altre sedi istituzionali ben più importanti che il “leader maximo” esplicita il senso reale delle sue affermazioni. In un contesto di regionalizzazione delle aree di influenza, l’Unione Europea, nella  fedeltà all’Alleanza Atlantica, deve concentrare il suo ruolo nello scacchiere suo prossimo orientale e mediterraneo, deve integrare il proprio potenziale militare nell’alleanza (una vecchia ambizione americana perseguita dagli anni ’50 e più volte ridimensionata), incrementare le spese militari, concentrare la propria attività nei teatri sui compiti di polizia, di controllo territoriale e di addestramento delle forze militari locali. Né più, né meno del programma di riorganizzazione della NATO con la conferma di un ruolo perfettamente subordinato dei paesi europei; aggiungiamo inoltre il sostegno di tutto il partito alla lettera dei dodici promossa a marzo da Monti con la quale si auspicano la creazione di un mercato eurostatunitense,  rapporti privilegiati con i paesi filooccidentali dell’est asiatico e la quadratura del cerchio è perfetta, almeno nelle intenzioni.  Ad assestare un colpo serio alla prosopopea dalemiana ci pensa Ceruti, in compagnia di un nutrito stuolo di intellettuali, giornalisti e politici progressisti, quando afferma che in realtà gli Stati Uniti d’Europa possono nascere dalla attuale periferizzazione della regione europea rispetto ai centri nevralgici di competizione nel mondo, quasi ad illudersi che periferia sia sinonimo di disinteresse delle potenze mondiali, in primo luogo gli USA, verso i destini europei. Un completo disarmo ideologico, il peggiore tra tutte le forme di resa, propedeutico a far diventare l’Europa un campo di battaglia di mire egemoniche altrui.

Come sia possibile realizzare in un lasso ragionevole di tempo, in un contesto geopolitico di tal fatta e con una realtà pletorica e frammentata come l’attuale Unione Europea a 27, una istituzione federale è tutto da dimostrare; che nell’ego rimosso degli stessi retori siano in merito radicate profonde perplessità lo dimostra il fatto che, al momento di passare alle proposte, gli argomenti si riducono in realtà alla creazione di un mero “governo economico dell’Europa”, in perfetta continuità con lo spirito funzionalista criticato in astratto e con l’economicismo di fondo delle impostazioni europeiste attuali.

Il termine “ridurre”, in realtà, potrebbe indurre a sminuire la considerazione dell’importanza del “governo economico”.

Il “governo economico” , la gestione e lo sviluppo, quindi, delle risorse necessarie a garantire la riproduzione delle formazioni sociali e il successo delle scelte politiche dei gruppi dirigenti di un paese, è un teatro essenziale in cui i centri decisionali perseguono scelte precise; espressamente politiche perché regolano e determinano i rapporti sociali implicati, secondo logiche autonome rispetto agli altri ambiti. Quando quell’ambito, agli occhi di analisti e decisori, da autonomo diventa indipendente se non avulso dagli altri domini, se non addirittura determinante fondamentale unico sulla base di leggi deterministiche, la politica economica si trasforma in economicismo e tecnicismo; solo, però, agli occhi e nella visione dei decisori politici o, come in gran parte dei casi, nella “vendita” della proposta alla platea. Nella realtà sono comunque scelte politiche con implicazioni politiche.

 

LE PROPOSTE DEL PD

 

Prima di esprimere un giudizio sulla natura delle proposte, le illustro secondo le parole del responsabile economico del PD, Fassina ( http://www.tamtamdemocratico.it/doc/223235/lunione-europea-i-progressisti-e-litalia.htm ).

Per uscire dalle prospettive di regressione democratica, i socialisti europei ed il Pd propongono in sintesi:

1. L’evoluzione del Fondo salva-Stati in una Agenzia europea per il debito, dotata delle risorse sufficienti ad acquistare i titoli dei paesi aderenti ed emettere titoli di debito europei (eurobonds) garantiti in modo collettivo.
2.Un piano di ristrutturazione dei crediti sovrani e di ricapitalizzazione delle banche, gestito a livello dell’intera area europea.
3.Un piano europeo di investimenti per l’occupazione, l’ambiente e l’innovazione, alimentato dalle risorse raccolte attraverso l’emissione di eurobonds o project bonds, l’introduzione di specifici strumenti fiscali a livello europeo, tra i quali la Financial Transaction Tax e la tassazione a finalità ambientali, un piano complementare all’avanzamento del mercato unico, secondo quanto previsto dal Rapporto Monti.
4.Un’inversione di marcia nella distribuzione del reddito da lavoro e della ricchezza, da realizzare sul mercato del lavoro e nel welfare-fiscali, per restituire potere d’acquisto e sicurezza alle famiglie.
5. A tali aspetti condivisi, nel dibattito tra i socialisti europei il Pd ha proposto di aggiungere uno “standard retributivo” europeo per coinvolgere anche i paesi in surplus di bilancia commerciale (Germania, Olanda, Austria) nel processo di aggiustamento (si veda il “Programma Nazionale di Riforma” presentato dal Pd nell’Aprile 2011). Lo standard retributivo implica un allineamento della dinamica delle retribuzioni reali con quella della produttività, intesa in termini aggregati, generali o settoriali (e dunque oltre la tenuta del potere d’acquisto). Insomma, i progressisti europei, oltre ad Obama negli Usa, hanno rialzato la testa.”

Infatti, “un’area a moneta unica, segnata da ampi differenziali di competitività sistemica, può sopravvivere soltanto in due scenari o in una qualche combinazione dei due: diventa una “transfer union”, come l’Italia con il nostro Mezzogiorno; oppure si rimuovono i differenziali di competitività attraverso una politica economica “interventista“.

Si tratta di una impostazione che mette a nudo tutte le manchevolezze, la subordinazione ideologica ed il velleitarismo di cui è intrisa l’azione politica di quel partito.

  • Puntare intanto sulla domanda aggregata senza provvedere, contestualmente, alla creazione di una struttura industriale e di imprese di dimensioni e capacità adeguate significa ricadere nell’ideologia delle intrinseche dinamiche virtuose del mercato da cui i progressisti dicono di voler rifuggire. L’esperienza di pressoché tutti i processi di industrializzazione riusciti, compresi quelli europei ed americani dei due secoli passati, confermano l’assunto.
  • L’avvio di politiche di questo genere comportano una delimitazione del mercato rispetto all’esterno e, quindi, la volontà e la capacità dei centri strategici di regolare, trattare in condizioni di autonomia i contenuti e le modalità di scambio con gli altri poli regionali; presuppone, quindi, l’esistenza di questi centri, la loro consapevolezza strategica, la disponibilità di strumenti politici, in particolare uno stato forte ed autorevole, di una politica che va, quindi, ben al di là della capacità di utilizzo delle sole risorse economiche. L’esatto contrario di quello che l’Unione Europea è diventata dalla sua nascita ad oggi e che continua ad essere riproposto da tutti ancora oggi. La stessa enfasi con cui ci si accanisce e si demonizza il sistema finanziario, isolandolo dal contesto politico e al quale, alla fin fine, ci si vuole contrapporre con la ridicola e innocua introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie rivela la pochezza delle reali intenzioni.
  • L’entità delle risorse che si vorrebbe mobilitare presuppone un trasferimento di ricchezza e di apparati dagli stati nazionali ad uno stato federale europeo inesistente e di là da venire dell’ordine, a detta degli studiosi più avveduti, di un 25/30% della disponibilità dei vari paesi ben lungi dal voler e poter essere attuato. L’emissione in questo contesto degli eurobond  rappresenta, in realtà, l’implicito riconoscimento della velleità del progetto di costruzione in tempi storici accettabili di una Unione Federale basata per di più, come sancito dagli attuali trattati, sulla subordinazione politica agli Stati Uniti. Quei titoli rischiano addirittura, in un contesto così aperto, di diventare addirittura ulteriori strumenti  di dipendenza dal mondo finanziario e dalle strategie geopolitiche americane. Nel merito della citazione dei settori di intervento si  ignorano del tutto gli ambiti industriali ben più strategici di quelli citati e il problema dello sviluppo di imprese di dimensione adeguata. Se si aggiunge a questo la timida richiesta di una assunzione diretta da parte dell’Unione Europea della gestione, praticamente senza risorse ed apparati, di una parte dei servizi sociali ed assistenziali, il carattere velleitario dell’impostazione diventa evidente. Lo stesso approccio del PD al problema della gestione dei fondi strutturali  e di coesione europei rivela l’incomprensione delle dinamiche in corso. Non è solo un problema di entità di risorse investite o di qualità astratta della qualità degli interventi; un riflesso condizionato, quello quantitativo, ormai delle politiche socialdemocratiche dal secondo dopoguerra. Il modo ricorrente, per inciso, con cui i progressisti-democratici-socialdemocratici tentano di salvaguardare la propria base sociale compromettendosi più o meno consapevolmente con le componenti più avventuriste delle forze dominanti. Cose già viste ai tempi di Weimar in Germania, negli Stati Uniti negli anni ’90 con la politica di indebitamento dei ceti medi. È determinante, invece, il fatto che quei finanziamenti sono stati un veicolo importante delle politiche di creazione di zone di influenza regionale soprattutto della Germania e, con l’aggiunta di ulteriori strumenti propri, degli Stati Uniti; nonché di disarticolazione dell’organizzazione di alcuni stati nazionali e di rideterminazione dei legami conflittuali e/o cooperativi tra i vari centri all’interno e tra i paesi. In parte sono stati processi pianificati, in parte hanno assunto dinamiche proprie facilmente assecondabili.

La stessa politica regionale e della cittadinanza proposta dall’Unione Europea, a detta del suo vero padre fondatore, Jean Monnet, è esplicitamente rivolta alla distruzione e svuotamento degli stati nazionali europei. La attuale concreta attuazione del concetto di diritto di cittadinanza europeo sta, ad esempio, in effetti intaccando pesantemente le basi dello stato sociale ed assistenziale di cui amano fregiarsi i fautori del mercato sociale.

 

 

CONCLUSIONE

 

Il PD, a dire il vero, si è comunque posto in qualche maniera il problema politico più ampio di un contesto istituzionale europeo; lo risolve, però, con la proposta dell’elezione a suffragio del Commissario Europeo e della sua responsabilità verso il Parlamento Europeo e il Consiglio Europeo, composto dai capi di governo. Si assimila, ancora una volta, la rappresentazione politica scenografica e legislativa, un aspetto certamente importante ma del tutto parziale, all’intera modalità di azione politica che necessariamente deve svolgersi, altrimenti,  attraverso gruppi dirigenti, centri di potere nei vari settori dell’agire sociale. Questi centri sono ancora debolissimi e inconsistenti, scarsamente pervasi nelle varie comunità nazionali senza che qualcuno di questi sia ancora in grado di svolgere una funzione egemonica.

Come ho già discettato in altri articoli, la stessa burocrazia europea è qualcosa di ben diverso dal rappresentare una visione e gli interessi di centri di dimensione europea, proprio per il suo peccato d’origine costitutivo continuamente coltivato nei decenni successivi.

Non è un caso che anche gli europeisti  apparentemente più universalisti alla fine cadono prima o poi, inconsapevolmente, ma puntualmente, in una rappresentazione “nazionale” della loro attività più pragmatica e presentano l’Europa come la condizione migliore in cui possono operare gli interessi nazionali o di particolari categorie dei rispettivi paesi; riaffermando malamente ciò che negano nei proclami.

In realtà, l’Unione Europea è un campo particolare, con regole particolari, in cui si esercitano la competizione, la collaborazione ed il conflitto dei vari stati europei con la presenza invasiva e determinante di terzo “dominus” da cui è necessario, preliminarmente, liberarsi per impostare una reale politica autonoma e multilaterale.

Costruire un campo europeo sovranista comporta ripartire dal punto di vista nazionale concordato e contrattato dei tre/quattro principali stati europei completamente rifondato. Gli attuali programmi di cooperazione rafforzata previsti dal Trattato di Lisbona comportano invece il riconoscimento dei vincoli euro-atlantici, anazionali e liberisti che ne tarano ogni scelta autonomista.

Per questa ragione, ogni contributo per quanto timido e marginale che ponga al centro ancora il ruolo dello stato nazionale, come quello di Tedoldi, va salutato con favore.

Non tanto perché fa intravedere la possibile nascita in quel partito di un possibile nucleo sovranista di peso rilevante. Sia l’attuale vecchio gruppo dirigente dominante, per altro largamente rinnovato nei suoi quadri intermedi nonostante la nomea ricorrente, sia quello alternativo che si sta formando nel confronto delle primarie sono largamente compromessi nei loro legami e nelle loro convinzioni con i settori più avventuristi dell’amministrazione americana e poco rappresentativi dei ceti in qualche maniera più dinamici della società italiana ( Debora Serracchiani http://www.tamtamdemocratico.it/print/240437/il-nord-e-noi.htm ). Quanto perché avrà comunque il merito di costringere questi stessi gruppi dirigenti a rendere più trasparente la loro adesione ai centri strategici dominanti e la natura della competizione che sta maturando nello scacchiere mondiale, meno offuscata dalle fumisterie sui poteri forti mondialisti e del globalismo senza stati; per non parlare del “pacifismo” fondato sulla conferma di un ordine imperiale.