L’ITALIA AL BIVIO (DOVE CI ATTENDE LO STRANIERO)

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Diceva Carl Schmitt che i concetti stranieri sono peggio delle parole straniere. In verità, gli uni e le altre, a diversi livelli di penetrazione di determinati contesti umani, sono forme di colonizzazione, politica, economica, culturale, ecc. ecc., che segnalano la perdita di autonomia e d’identità di una collettività a vantaggio di modelli estranei esercitanti, precisamente, una pressione egemonica sul modello autoctono.

Certo, esistono fattori di compenetrazione reciproca tra gruppi e popoli che, da decenni, sono stati assimilati in un comune orizzonte di civiltà ma sono, soprattutto, gli Stati vassalli a facilitare l’ imbastardimento della lingua e del cervello al fine di ottenere un’approvazione extraterritoriale per un’ascesa verticale nei gangli del potere. A questo proposito non sentirete mai un Presidente americano chiamare una riforma sociale riguardante il suo Paese con definizioni esotiche. Lui è il padrone e non deve ottenere il consenso di nessuno.

Ce lo vedete Obama che parla in italiano di “riforma del lavoro” anziché, come correttamente è nel suo idioma, di job act?  Pensate ora a Matteo Renzi, accreditato quale mattatore delle prossime elezioni , ultima speranza illusoria di un Paese allo stremo, il quale si presenta davanti alle telecamere per perorare la sua visione del cambiamento in una lingua ancora sconosciuta a milioni di suoi connazionali.

Non teme di non essere capito perché non è agli italiani che sta parlando, forse ad un gruppo ristretto e ben selezionato di essi (militanti, comunità degli affari, circoli del rotary, ecc. ecc.). E non è, esclusivamente, il pronunciamento di una espressione anglosassone con accento toscano che gli preme di sventolare.

Egli ha in mente, per l’appunto, un concetto allogeno da radicare, un job act di matrice angloamericana, anche più intenso di quanto potrebbe essere concepito negli ambiti originari, per farsi rilevare dal satellite dei predominanti d’oltreoceano, si tratti di capataz politici o di cerchie finanziare internazionali.

Costui sta dicendo alle sentinelle in ascolto, dall’altra parte dell’Atlantico, o anche Oltremanica, che egli è dei loro, l’uomo che aspettavano, l’unico disponibile a far meglio e di più per i loro interessi (dunque, peggio e di meno per tutti gli italiani) dei predecessori.

Peraltro, questo famigerato job act nemmeno è stato delineato nei suoi punti programmatici, è appena un frame che contiene idee vecchie e misure irresolute, dalla riduzione del cuneo fiscale alla flessibilità dei mestieri. Ma tanto non serve essere precisi quando si è investiti da una superiore forza mondiale.

Renzi lo chiama job act, perché lui è Fonzie lo yankee e si sente autorizzato a prenderci per il cool, nel senso che può permettersi di carpire la nostra buona fede servendosi di un gergo “figo”. Il fracking col quale il sindaco di Firenze intendeva sbriciolare la vecchia classe dirigente si riduce a ciò, un bluff che non tarderà a rivelarsi tale. Si tratta meramente di una lotta tra correnti di partito che ha assunto dimensioni nazionali. Questo perché non esistendo più i partiti, bensì un unico ammasso indistinto di ghenghe insinuatesi nelle istituzioni, ciò che prima sarebbe restato confinato nelle sedi specifiche delle singole organizzazioni,  diventa immediatamente affare di Stato.

Nel frattempo l’Italia continua a sprofondare. Aumentano le tasse, il costo dei servizi, la disoccupazione, i fallimenti, le pretese dell’Europa ma costoro proseguono a concentrarsi su questioni di secondo e terzo grado che non muteranno di un millimetro la difficile situazione. A chi può interessare la riforma costituzionale o quella della legge elettorale se comincia a scarseggiare il pane e, ancor di più, la speranza di una risalita nazionale?

Anche i cosiddetti strenui oppositori delle attuali élite al potere si focalizzano su argomenti di grande impatto mediatico ma di poca sostanza innovativa. Lo spazio che costoro trovano sui mezzi di comunicazione dovrebbe condurli ad una riflessione perché si tratta di una furba concessione. Scaricare le responsabilità sulla finanza predona, sulla mancanza di sovranità monetaria e sui diktat dell’Europa equivale a farsi accecare dall’ideologia. Quelli citati sono effetti di ben altre circostanze e cause. L’Italia è, innanzitutto, vittima della sua labile sovranità politica, limitata e condizionata dagli Usa, i quali ci hanno eletto a laboratorio di esperimenti geopolitici e a roccaforte avanzata per il controllo di tre continenti: Europa, Africa ed Asia. Finché nessuna forza politica o leader carismatico avrà il coraggio e l’intelligenza di mettere in cima alla lista delle sue preoccupazioni queste valutazioni epocali sarà tutto tempo perso ed energie sprecate. Meditate o affondate, gente.