L’onestà in politica è l’ultimo rifugio degli imbecilli.

GRILLO

L’onestà in politica è l’ultimo rifugio degli imbecilli. Al funerale di Casaleggio, guru del M5S, i militanti pentastelluti gridavano onestà-tà-tà-tà. Uno slogan ed un epitaffio. La stupidità si è sempre vestita di moralismo sul palcoscenico sociale. L’onestà è per i frati o per gli imbroglioni. Per questo costoro hanno come programma un sermone e come capo un abbindolatore. Predicano e purgano, non fanno politica. Prima o poi razzoleranno male e ruzzoleranno nella pattumiera della storia. Si bruceranno con l’onestà, anticamera di tutte le deviazioni. E’ il vizio la migliore delle virtù perchè dai diamanti non nasce niente ma dal letame nascono i fiori, per citare De Andrè. Nessuno è capace di fronteggiare l’onestà. Chi gareggia in onestà viene sempre superato da uno più onesto che ti allestisce la forca.
L’illusione di redimerci tutti con la chiarezza e la condivisione delle decisioni è un’altra corbelleria che deriva dall’incomprensione della principale questione. La politica non è partecipazione e nemmeno trasparenza. La politica è segretezza. Come scrive Gianfranco La Grassa: “le mosse della politica mirano al successo nell’ambito di uno scontro tra le varie élites, la segretezza è d’obbligo; e ogni venir meno della stessa o è una di queste mosse o è lo sgretolamento della “copertura” (lo sbucciarsi della “corteccia”) dovuto ad un acuirsi del combattimento tra due o più “attori”. La politica ha a che fare con il potere e quest’ultimo non può essere incasellato nelle categorie morali. Come pensava Schmitt “La realtà del potere passa sopra la realtà dell’uomo. Io non dico che il potere dell’uomo su un altro è buono. Non dico neanche che è cattivo. Dico però che è neutro. E mi vergognerei come essere pensante di dire che è positivo, se sono io ad averlo e negativo se a possederlo è il mio nemico. Mi limito ad affermare soltanto che il potere è per tutti, anche per il potente, una realtà a sé stante e lo trascina nella propria dialettica. Il potere è più forte di ogni volontà di potere, più forte di ogni bontà umana e fortunatamente anche di ogni malvagità umana”. Qundi l’onestà non c’entra un’acca.
I grandi maestri del passato hanno provato ad insegnarcelo ma noi contemporanei abbiamo dimenticato la loro lezione.
“L’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli e prende forma nelle non cantate prose delle loro invettive e declamazioni e utopie, è quello di una sorta di areopago, composto di onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del proprio paese. Entrerebbero in quel consesso chimici, fisici, poeti, matematici, medici, padri di famiglia, [Professori] e via dicendo, che avrebbero tutti per fondamentali requisiti la bontà delle intenzioni e il personale disinteresse, e, insieme con ciò, la conoscenza e l’abilità in qualche ramo dell’attività umana, che non sia peraltro la politica propriamente detta: questa invece dovrebbe, nel suo senso buono, essere la risultante di un incrocio tra l’onestà e la competenza, come si dice, tecnica. Quale sorta di politica farebbe codesta accolta di onesti uomini tecnici, per fortuna non ci è dato sperimentare [a noi, generazione più imbelle ed imbecille che sfortunata, invece, sì], perché non mai la storia ha attuato quell’ideale e nessuna voglia mostra di attuarlo. Tutt’al più, qualche volta, episodicamente, [forse all’epoca di chi scrive, mentre da vent’anni a questa parte l’eccezione si è fatta regola] ha per breve tempo fatto salire al potere in quissimile di quelle elette compagnie, o ha messo a capo degli Stati uomini e da tutti amati e venerati per la loro probità e candidezza e ingegno scientifico e dottrina; ma subito poi li ha rovesciati[aspettiamo impazientemente quel momento], aggiungendo alle loro alte qualifiche quella, non so se del pari alta, d’inettitudine”. (Benedetto Croce).
“I moralisti impegnano solitamente la loro vivacità negli abomini trascendenti. Ogni crimine, per loro, riguarda la Corte d’assise o la polizia carceraria: ma le sottigliezze sociali sfuggono loro, l’abilità che trionfa rispettando le voci del Codice è al di sotto o al di sopra della loro comprensione, che non ha lenti d’ingrandimento né lungimiranza. Hanno bisogno di orrori belli grossi e ben visibili. Sempre occupati attorno ai carnivori, trascurano i rettili…” (H. de Balzac)
“Abbandonate dunque le vostre lamentele, o mortali insensati! Invano cercate di accoppiare la grandezza di una nazione con la probità. Non vi sono che dei folli, che possono illudersi di gioire dei piaceri e delle comodità della terra, di esser famosi in guerra, di vivere bene a loro agio, e nello stesso tempo di essere virtuosi. Abbandonate queste vane chimere! Occorre che esistano la frode, il lusso e la vanità, se noi vogliamo fruirne i frutti. La fame è senza dubbio un terribile inconveniente. Ma come si potrebbe senza di essa fare la digestione, da cui dipendono la nostra nutrizione e la nostra crescita? Non dobbiamo forse il vino, questo liquore eccellente, a una pianta il cui legno è magro, brutto e tortuoso? Finché i suoi pampini sono lasciati abbandonati sulla pianta, si soffocano l’uno con l’altro, e diventano dei tralci inutili. Ma se invece i suoi rami sono tagliati, tosto essi, divenuti fecondi, fanno parte dei frutti piú eccellenti. È cosí che si scopre vantaggioso il vizio, quando la giustizia lo epura, eliminandone l’eccesso e la feccia. Anzi, il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtú da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa. Per far rivivere la felice età dell’oro, bisogna assolutamente, oltre all’onestà riprendere la ghianda che serviva di nutrimento ai nostri progenitori”. (Mandeville)
“….Gli storici lodano il tempo passato; ma quando si tratta di testimoniare sul tempo in cui vivono la scena cambia e sono piuttosto portati ad oscurarne spesso le tinte. In ogni caso, se crediamo alle testimonianze dei contemporanei, è impossibile ammettere che siano i buoni costumi dei popoli, e ancora meno dei loro capitani, che abbiano assicurato le vittorie. Ecco, per esempio, la ritirata dei diecimila; ciò che li salva, è la loro perfetta disciplina, la loro obbedienza agli strateghi; quanto ai loro costumi, lasciano molto a desiderare. Vedete ciò che accade quando gli strateghi decidono d’allontanare tutte le bocche inutili; i soldati sono costretti ad obbedire, «eccetto alcuni che sottraggono o un giovinetto o una bella donna ai quali sono attaccati». Quanto a Senofonte, i suoi costumi possono essere stati i più casti, ma il suo linguaggio non è tale nel Convito; e se si fosse astenuto da questo genere di letteratura, il mondo non vi avrebbe perduto nulla. Val meglio non parlare dei costumi di Filippo il Macedone e delle persone che l’attorniavano. Allorché la battaglia di Cheronea abbatté la potenza ateniese e asservì la Grecia, non si può veramente dire che fu la castità che riportò la vittoria. Filippo, oltre le concubine senza numero, prendeva donne dovunque ne trovava. Né le cause della sua morte possono onestamente raccontarsi. Passiamo rapidamente sui costumi dei valenti capitani, come Demetrio Poliorcete (il conquistatore di città), perché il meno che si possa dire è che furono infami. Alcibiade era pure lontano, molto lontano, dall’avere buoni costumi; tuttavia, se egli avesse comandato in Sicilia, al posto di quell’onesto ed imbecille Nicia, forse Atene avrebbe evitato un disastro irreparabile. I bacchettoni ateniesi che intentarono un’azione penale ad Alcibiade, sotto pretesto della mutilazione delle Erme, furono probabilmente la causa della rovina della loro patria. Più tardi ad Egospotami, se i generali greci avessero seguito il consiglio di Alcibiade, avrebbero salvato la flotta ateniese e la loro città. I generali avevano forse costumi migliori di Alcibiade — ciò non era veramente difficile — ma, quanto all’arte della guerra, gli erano molto inferiori e si fecero battere vergognosamente. Se passiamo ai romani, ci è difficile scorgere virtuisti nei cittadini che, ai giuochi Floreali, facevano comparire sulla scena cortigiane interamente nude. Un giorno che Catone di Utica — il virtuoso Catone — assisteva ai giuochi Floreali, il popolo non osava, in sua presenza, domandare che le mime si spogliassero dei loro vestiti. Un amico avendo fatto osservare ciò a Catone, questi lasciò il teatro onde permettere al popolo di godere lo spettacolo abituale. Se Catone fosse stato un virtuista, sarebbe rimasto al teatro per impedire quello scandalo; ma Catone era solamente un uomo di costumi austeri adstricti continentia mores. I complici di Catilina avevano cattivissimi costumi; si sarebbe soddisfatti poter dire che erano vili; disgraziatamente la verità è il contrario. Sallustio ci narra come caddero nella battaglia di Fiesole. «Ma fu quando la battaglia finì che si poté veramente vedere quale audacia, quale forza d’animo vi fosse nell’esercito di Catilina. Perché ciascuno, dopo la sua morte, copriva con il corpo il luogo che aveva occupato durante la pugna. Un piccolo numero solamente, che era stato disperso dalla coorte pretoriana, era caduto un poco diversamente, ma tutti erano stati feriti davanti.» Non è sicuro che tutti i virtuisti avrebbero fatto altrettanto…Napoleone I non era casto; i suoi marescialli, i suoi generali e i suoi soldati, ancora meno. Essi riportarono tuttavia molte vittorie e, in quanto alla disfatta che ebbero in Russia, sarebbe difficile di vedervi un trionfo dei buoni costumi sui cattivi. Maurizio di Sassonia, che salvò la Francia dalla invasione straniera, era un grande capitano, ma aveva costumi molto cattivi. Sarebbe stato meglio per la Francia che egli fosse stato virtuista e che si fosse fatto battere a Fontenoy? Nelson, il vincitore di Trafalgar, era lontano dall’esser molto casto. I suoi amori con Lady Hamiltonsono conosciuti. Invece del Nelson, sarebbe stato meglio per l’Inghilterra, avere un ammiraglio virtuista, ma che avesse perduto le battaglie navali d’Aboukir e di Trafalgar?” (V. Pareto)