Nietzsche e la scienza.

Nel flusso del Tempo
Riporto alcuni aforismi di Nietzsche che sembrano anticipare le acquisizioni della meccanica quantistica. Le analogie sono molte, a dimostrazione che i grandi intelletti giungono a cogliere, con i tratti della loro creatività, tematiche che solo molto più tardi diventano oggetto di scoperta e prova scientifica. Tuttavia, si badi bene, che una intuizione non è una dimostrazione o una verifica scientifica, può anticiparla, quasi a mo’ di profezia, ma rischia sempre di andare persa perché non produce effetti “concreti”. Vale per Nietzsche e per molti altri filosofi che prima di lui hanno avuto illuminazioni simili. Esclusivamente col senno di poi possiamo dire che il filosofo tedesco aveva visto cose che tutti gli altri umani non avevano visto.
“Fini? Volontà? Ci siamo abituati a credere a due regni, alregno dei fini e della volontà e al regno dei casi; nel secondo le cose vanno a casaccio, vanno, stanno e cadono senza che qualcuno possa dire: per quale ragione? a che scopo? Abbiamo paura di questo regno possente della grande stupidità cosmica, giacché per lo più veniamo a conoscerlo quando piomba nell’altro mondo, quello dei fini e delle intenzioni, come una tegola dal tetto, accoppandoci qualche bella finalità. Questa credenza nei due regni è un antichissimo romanticismo e favola: noi nani astuti, con la nostra volontà e i nostri fini, veniamo molestati da quei giganti stupidi, stupidissimi, “che sono i casi, veniamo buttati a gambe all’aria dalla loro corsa e spesso calpestati a morte – ma, nonostante tutto ciò, non vorremmo restare senza il brivido della poesia di questa vicinanza, perché quei mostri vengono spesso quando la vita inviluppata nella ragnatela dei fini si è fatta per noi troppo noiosa o angosciosa, e ci procurano un sublime diversivo per il fatto che la loro mano lacera di colpo tutta la ragnatela – non che l’abbiano voluto, questi bestioni irrazionali! E neanche che se ne siano accorti! Ma le loro manone ossute passano attraverso la nostra ragnatela come se fosse aria. I Greci chiamarono «moira» questo regno dell’incommensurabile e della sublime, eterna limitatezza, e lo disposero intorno ai loro dèi come l’orizzonte al di là del quale questi non potevano più né operare né vedere: con quella segreta ribellione contro gli dèi che si ritrova presso più popoli, di modo che li si adora sì, però si tiene in mano un’ultima carta da giocare contro di loro, come per esempio quando, da Indiano o da Persiano, li si immagina dipendenti dai sacrifici dei mortali, sicché nel peggiore dei casi i mortali possono affamare gli dèi e lasciarli morire di fame; o quando, come fa il duro e malinconico Scandinavo, ci si procura la voluttà della vendetta silenziosa rappresentandosi il futuro crepuscolo degli dèi, a risarcimento delle continue paure che incutono i propri dèi malvagi. Diversamente il cristianesimo con il suo sentimento fondamentale, che non era né indiano né persiano, né greco né scandinavo, e che comandò di adorare nella polvere lo spirito della potenza e di baciare ancora la polvere. Questo fece capire che quell’onnipotente «regno della stupidità» non era poi così stupido come appariva, che gli stupidi eravamo piuttosto noi, che non ci accorgevamo che dietro ad esso – stava il buon Dio, lui che amava sì le vie oscure, tortuose e miracolose, ma che alla fine «portava magnificamente tutto a compimento». Questa nuova favola del buon Dio, che fino allora era stato mal conosciuto come razza dei giganti o moira, e che tesseva egli stesso trame di scopi ancora più sottili di quelle del nostro intelletto – sicché esse non potessero che apparire al medesimo incomprensibili e anzi dissennate – questa favola rappresentava un rovesciamento così audace e un paradosso così azzardato, che il mondo antico, fattosi troppo raffinato, non riuscì a resistervi, per quanto la cosa suonasse stravagante e piena di contraddizioni; giacché, detto in confidenza, c’era una contraddizione in questo: se il nostro intelletto non può capire l’intelletto e i fini di Dio, come ha fatto a capire questa conformazione del suo intelletto? e questa conformazione dell’intelletto di Dio? Nell’epoca moderna si è sviluppata in realtà una diffidenza sulla questione: se la tegola che cade dal tetto sia scaraventata giù veramente dall’«amore divino» – e gli uomini riprendono a seguire a ritroso le vecchie orme del romanticismo dei giganti e dei nani. Impariamolo dunque, perché ne è giunto il momento: nel nostro preteso regno particolare dei fini e della ragione regnano parimenti i giganti! E i nostri fini e la nostra ragione non sono nani, sibbene giganti! E le nostre stesse ragnatele vengono lacerate da noi stessi altrettanto spesso e altrettanto brutalmente che dalla tegola! E non è tutto fine quello che così è chiamato, e ancor meno è tutto volontà quello che così si chiama! E se voi voleste concludere: «C’è dunque soltanto un regno, quello dei casi e della stupidità?» – bisognerebbe aggiungervi: sì, forse c’è un solo regno, forse non ci sono né volontà né fini, e noi ce li siamo immaginati. Quelle mani di ferro della necessità che scuotono il bossolo dei dadi del caso, giocano il loro gioco per un tempo infinito: allora dovranno capitare getti di dadi che somiglieranno perfettamente al finalismo e alla razionalità di ogni grado. Forse i nostri atti di volontà, i nostri fini, non sono nient’altro che tali getti appunto – e noi siamo soltanto troppo limitati, e troppo vanesii per comprendere la nostra estrema limitatezza: cioè questa, che siamo noi stessi a scuotere con mani di ferro il bossolo dei dadi, che siamo noi stessi, nelle nostre azioni più mirate, a non fare altro che giocare il gioco della necessità. Forse! Per avere ragione di questo forse bisognerebbe essere già stati ospiti del mondo infero e al di là di tutte le superfici, e avere, al tavolo di Persefone, giocato a dadi e scommesso con lei stessa.”
…“Causa ed effetto»! Su questo specchio — e il nostro intelletto è uno specchio – sta passando qualcosa che indica regolarità, una determinata cosa segue sempre, ogni volta, una determinata altra cosa – e questo, quando lo notiamo e vogliamo dargli un nome, noi lo chiamiamo causa ed effetto, noi stolti! Come se qui noi avessimo capito o potessimo capire qualcosa! Infatti, non abbiamo visto niente se non le immagini di «cause ed effetti»! Ma è proprio il fatto che si tratta di immagini, che fa l’impossibilità di scorgervi una connessione più intrinseca di quella della successione.”
…“Causa ed effetto. — Noi lo chiamiamo «spiegazione», invece è «descrizione» quello che ci distingue dai precedenti stadi della conoscenza e della scienza. Noi descriviamo meglio, — ma spieghiamo altrettanto poco di tutti quelli che ci hanno preceduti. Abbiamo scoperto una molteplice successione là dove l’uomo ingenuo e il ricercatore delle civiltà precedenti vedevano solo due cose, «causa» ed “effetto», come si usava dire. Abbiamo perfezionato l’immagine del divenire, ma non siamo andati al di là dell’immagine, non abbiamo visto che cosa c’è dietro. In ogni caso la serie delle «cause» sta davanti a noi molto più completa, noi argomentiamo: questo e quello devono precedere, perché quello segua, — ma con ciò non abbiamo capito niente. La qualità, per esempio in ogni processo chimico, appare dopo come prima un «miracolo», così pure ogni propulsione; nessuno ha «spiegato» l’urto. E come potremmo spiegarlo? Operiamo con tutte cose che non esistono, con linee, superfici, corpi, atomi, tempi divisibili, spazi divisibili —, come dovrebbe una spiegazione essere anche solo possibile, dal momento che di tutto facciamo uri immagine, la nostra immagine? E sufficiente considerare la scienza un’umanizzazione il più possibile fedele delle cose; noi impariamo a descrivere in modo sempre più preciso noi stessi quando descriviamo le cose e la loro successione. Causa ed effetto: una tale dualità non si dà probabilmente mai, — in verità davanti a noi sta un continuum da cui isoliamo un paio di pezzi; così come un movimento noi lo percepiamo sempre e solo come una serie di punti isolati, dunque in realtà non vediamo, deduciamo. La subitaneità con cui molti effetti vengono in luce ci fuorvia; ma è una subitaneità solo per noi. In questo secondo della subitaneità c’è un’infinita quantità di fatti che ci sfuggono. Un intelletto che vedesse causa ed effetto come un continuum e non, a modo nostro, come qualcosa di arbitrariamente diviso e spezzettato, che vedesse il flusso dell’accadere, — rigetterebbe 11 concetto di causa ed effetto e negherebbe ogni condizionamento.”
Friedrich Wilhelm Nietzsche