OCCHIO ALL’ISLAM


Ormai appare abbastanza evidente. Gli Stati Uniti – come più volte si è ripetuto in passato – stanno vivendo una fase di transizione all’interno di un percorso che, come è ovvio che sia, coinvolge tanto la politica finanziaria interna che la politica internazionale. Non solo perché, com’è noto, il dollaro vive di una sua peculiare duplice dimensione simultanea di moneta nazionale e di “misuratore” dei tassi di scambio sui mercati internazionali, sin dai tempi dell’ormai remoto incontro di Bretton Woods del ’44, ma anche perché questa recessione che sta mettendo l’America nei guai, costringerà – qualunque sarà la soluzione adottata – a tagliare in modo drastico le spese strutturali, a cominciare dal settore pubblico e dal bilancio della Difesa. Questo riassetto degli Stati Uniti, dopo le folli spese del quindicennio 1991-2005, provocherà necessariamente un primo decisivo mutamento negli equilibri dei rapporti di forza internazionali, modificando di conseguenza le relazioni con diversi Paesi. La condizione di subalternità e di sudditanza strategica unipolare cui tutto il mondo è stato de facto sottoposto a partire dal crollo dell’Unione Sovietica, verrà sicuramente meno, fino ad ipotizzare che essa possa disciogliersi completamente nell’arco dei prossimi dieci anni. Non è solo il parallelo successo economico, industriale, scientifico e militare della Cina a spingere le dinamiche internazionali verso questa direzione, ma anche una generale ridislocazione della forza politica ed economica nel pianeta, come i passi avanti di organismi internazionali extra-Nato (su tutti, il cosiddetto BRIC e la Shanghai Cooperation Organization) dimostrano ampiamente. La strategia globale della Cina è effettivamente giunta alla sua fase di definitiva proiezione quadricontinentale, toccando livelli mai visti prima, che hanno consentito di sviluppare una nuova prassi nel quadro delle logiche di cooperazione internazionale, capace di sintetizzare il pragmatismo in materia commerciale con i principi fissati a Bandung da Zhou Enlai in relazione al rispetto della sovranità altrui e alla non-ingerenza negli affari interni degli altri Stati – principi, all’epoca, applicati soltanto verso i Paesi definiti “in via sviluppo”, poi allargati a tutte le nazioni del mondo, attraverso le politiche di riforma e di “pacificazione dei confini” stabilite da Deng Xiaoping.

Tuttavia, questo non basta. Perché, il mondo vive ancora di pesanti contraddizioni e perché gli scenari di disgregazione internazionale – aumentati esponenzialmente dopo il 1989 – rimangono tutt’ora incerti e privi di una concreta soluzione. L’arretratezza economica non è una colpa, come invece un certo folle calvinismo ritiene. È tuttavia un indice ed un emblema oggettivo dell’incapacità – strutturale o indotta – di un Paese a fuoriuscire da condizioni sfavorevoli e svantaggiose rispetto alle proprie necessità e a quelle della popolazione nazionale. Questa incapacità è foriera di corruzione, perché appare ovvio che ciò che uno Stato non riesce a garantire, viene sopperito attraverso un crescente “mercato nero” e contatti internazionali pericolosi, o tramite vie “alternative” illegali, fino a sfociare in tristi storie di criminalità o prostituzione. È il caso del Brasile, dove gli ingenti capitali che gonfiano esponenzialmente il prodotto interno lordo, tanto da collocare il Paese nei più importanti livelli del commercio mondiale, oscurano una realtà sociale costituita da enormi sacche di povertà interna e da una dilagante espansione della criminalità organizzata. Anche l’India non se la passa certo bene, e malgrado le fumose chiacchiere della stampa generalista occidentale, ogni paragone con il contemporaneo successo della Cina popolare, appare senz’altro improprio: non uno Stato forte né tanto meno socialista, ma una debole democrazia parlamentare, per di più inficiata dalle pesantissime derive di un sistema sociale di matrice castale ancora difficile da sradicare; non poche migliaia di poveri su una popolazione di un miliardo e quattrocentomilioni di abitanti (come in Cina), ma addirittura duecento milioni (su novecento milioni di abitanti); non una seria e concreta proiezione strategica, come quella cinese (sia militare: progetti Stealth nell’ambito dei cacciabombardieri, difesa anti-satellitare, difesa navale di superficie e sottomarina; sia politico-economica: sui due Oceani e nel continente africano), ma un continuo rimbalzare tra Washington, Mosca e Tel Aviv per accaparrarsi qualche cacciabombardiere o qualche incrociatore in disuso o in svendita. È inutile tergiversare od abbozzare: come la nostra antica saggezza popolare ricorda, non è possibile fare le nozze coi funghi. Ed è in questo quadro che comincia ad affiorare nella sua chiarezza il ritorno ad un clima di distensione col mondo “in via di sviluppo”, ed in particolare con quello islamico, da parte di Washington, che ha tutto l’interesse a promuovere piani e trame politiche volti ad arrestare i processi di sviluppo delle forze produttive negli scenari economici emergenti potenzialmente più insidiosi per il mercato americano.

Dopo aver glorificato per tutti gli anni Novanta il mito della globalizzazione, col solo scopo di allargare ed espandere i mercati internazionali a seguito della fine della Guerra Fredda, e dopo aver individuato e bersagliato l’ultimo nemico (teoricamente) rimasto in piedi nel pianeta (il non meglio specificato “terrorismo trans-nazionale”), oggi gli Stati Uniti cambiano nuovamente strategia. La Dottrina Gates aveva già messo in chiaro alcuni punti negli ultimi tre anni: ridurre le spese militari a seguito della crisi, limitare i faraonici progetti di matrice RMA dell’era Rumsfeld (a partire dallo Scramjet e dal Boeing X-37), e tornare a seguire più miti consigli realisti (vedi Brzezinski) in merito ai rapporti coi Paesi del Medio Oriente. Gli eventi degli ultimi cinque mesi hanno poi confermato il quadro. Le rivolte nei Paesi arabi, hanno visto una convergenza quanto meno tattica tra Stati Uniti e Iran, entrambi pronti a salutare la “cacciata dei dittatori” come un “risveglio” ed una “primavera”: democratica per i primi, islamica per i secondi. Qualunque fossero le interpretazioni retoriche, era evidente che quelle rivolte (soprattutto in Libia e in Siria) hanno e avevano molto poco di spontaneo. È poi piombata come un macigno, la notizia della cattura di Bin Laden che – vera o fasulla – è comunque un messaggio molto netto di Washington al mondo: la guerra al terrorismo internazionale è sostanzialmente finita, e si apre una nuova epoca. Qual è questa nuova epoca? Quella di Barack Obama? No. È quella in cui Washington dovrà impedire a tutti i costi che la storia evolva eccessivamente a loro svantaggio, affinché lo sviluppo di possibili nuovi competitori sia scongiurato quanto più possibile, e possano dunque essere mantenute per lo meno le condizioni minime per una nuova fase egemonica da rilanciare nell’immediato futuro. L’arrivo di Leon Panetta al Dipartimento della Difesa segue il percorso tracciato da Gates, constatandone anche limiti e fallimenti, ad iniziare dall’Af-Pak Strategy, pensata nel 2009 e rivelatasi un totale fallimento che, eccezion fatta per la presunta cattura di Bin Laden, non ha portato ad alcun risultato degno di nota, se non ad un peggioramento ulteriore nei rapporti con un Pakistan sempre più solido alleato di Pechino. Il goffo avvicinamento di Obama all’India, con la visita nell’Ottobre dell’anno scorso, ha chiuso un anno disastroso per la Casa Bianca, ormai priva di qualunque appeal internazionale, e ai ferri corti persino con il governo israeliano di Benjamin Netanyahu sulla questione palestinese, in merito alla quale Obama ha riconosciuto i territori entro i confini del ‘67. Il ridicolo arresto del generale serbo Ratko Mladic ha, poi, per un attimo riportato l’Europa sull’attenti, mentre ha prodotto addirittura giubilo a Tehran e ad Ankara, dove si è parlato di “giustizia fatta”, riconoscendo dunque persino legittimità alla Corte internazionale de L’Aja, cioè alla giurisdizione strumentale di quel mondo occidentale che le autorità iraniane, a seconda dei vantaggi del momento, condannano: un’operazione mediatica ben congegnata per restituire vigore ad un’Unione Europea ormai completamente sfilacciata e disgregata dalle mille voci delle tante prime donne che la compongono, e per fornire (come se non bastasse) nuova linfa all’estremismo islamico nel Kosovo, che ancora in questi giorni dimostra tutta la sua prepotenza, attraverso il ruolo istituzionale illegittimo di Thaci.

Tuttavia, queste mosse non sono certo casuali, e nascondono un chiaro tentativo statunitense di tornare ad insinuarsi negli archi di crisi, facendo leva su piccoli ma determinanti ponti tattici con i separatismi e gli integralismi di matrice religiosa. Il silenzio vergognoso da parte di tutti i Paesi occidentali dopo l’attentato di Minsk dello scorso aprile, nel tentativo di intimidire il Presidente Aleksandr Lukashenko, ha effettivamente riproposto il classico problema dello scandaloso dualismo morale della Nato, per la quale non esiste un solo vigliacco e barbaro terrorismo, bensì due differenti tipologie di terrorismo: uno comprensibile, quando colpisce Russia, Cina o altri Paesi potenzialmente ostili all’Occidente, ed uno brutale, quando colpisce l’Occidente. Quando poi osserviamo che nelle stesse aree di origine e di formazione del terrorismo e del fanatismo agiscono indisturbate ong occidentali, reti radiofoniche di divulgazione politica e comitati promotori, possiamo ben comprendere le ragioni di questo duplice atteggiamento, tanto più praticato quanto maggiori sono le possibilità di smarcarsi provvisoriamente da Israele e, dunque, di avvicinarsi a diverse realtà islamiche. Non è un caso che l’Iran abbia de facto abbandonato la Siria, non prendendo direttamente posizione in difesa di Assad, ed anzi, condannando, per voce di un parlamentare di Tehran, l’“eccessiva violenza” nelle repressioni. La Turchia ha seguito un atteggiamento persino più ambiguo, condannando palesemente le “violenze” di Assad e chiedendo l’intervento dell’Onu. L’alleanza Iran-Siria-Turchia, già precaria, è dunque praticamente compromessa, e le pesanti divisioni interne al mondo islamico hanno messo lo stesso Gheddafi in una posizione internazionale di difficile soluzione, a partire dall’Iran (ancora!) – che ha condannato il leader libico appoggiando le rivolte di Bengasi – dal Bahrein – che ha criticato Gheddafi ma che ha represso le rivolte interne con l’aiuto dei carri armati sauditi nel più completo silenzio internazionale – e dal Qatar, che ha fornito basi aeree per l’intervento atlantico contro la Libia.

Una geopolitica del caos, che non finisce di tessere la sua trama di anarchia e disgregazione internazionale, appositamente studiata per frammentare e destabilizzare precise aree strategiche di interesse primario. L’assegnazione dell’ultimo premio nobel per la pace al sovversivo Liu Xiaobo – un attivista politico, ma soprattutto un personaggio infido, pericoloso e squallido, che non ha esitato a sostenere che la Cina “avrebbe bisogno di altri trecento anni di colonizzazione” – ha davvero toccato il fondo della bassezza mediatico-propagandistica, mentre Amnesty International prosegue a martellare l’opinione pubblica internazionale (e a ricevere, in quest’opera di divulgazione, accoglienza su tutti i più importanti quotidiani mondiali) commemorando i due anni dalla rivolta uigura del 5 luglio 2009 di Urumqi, nello Xinjiang cinese, quando una piccola ma violenta manifestazione fanatica ed ultra-nazionalista fece rivivere, in scala ovviamente ridotta, il clima pan-turchista della rivolta dei Basmachi (sostenuti segretamente da Londra) nel Turkestan sovietico degli anni Venti, dove solo il prontissimo intervento dell’Armata Rossa del generale Mikhail Frunze e quello successivo del pugno di ferro di Stalin, furono in grado di ripristinare l’ordine politico.

Il collante che nell’era Bush ha legato interi settori della sinistra radicale e antimperialista – sempre più spesso blandi ed insipidi residuati di un terzomondismo fuori tempo massimo e di un ultra-maoismo assolutamente inopportuno ed inadeguato ai giorni nostri – alle ragioni del cosiddetto “mondo islamico”, va assolutamente tolto di mezzo. In questo senso risultano indicativamente pericolose tutte quelle convergenze tra molti ambienti di derivazione marxista (o sedicenti tali) e ambienti islamisti, che abbiamo osservato in occasione del sostegno alle presunte “rivoluzioni arabe”, o l’improvvisa alleanza tra attivisti pro-palestinesi in buona fede e ong a dir poco sospette, pronte a mettere il cappello su iniziative senz’altro lodevoli (come la Freedom Flotilla). Appare sempre più necessario diffidare, perciò, di un atteggiamento filo-islamico pronto a proporre argomentazioni ideologiche e lotte politiche che convergono in modo abbastanza netto con gli obiettivi di breve e medio termine di Washington, spianando la strada a progetti imperialisti piuttosto palesi – per quanto abilmente mascherati, sull’onda lunga del supporto ai mujaheddin nell’Afghanistan degli anni Ottanta o del sostegno al terrorismo dell’UCK nel Kosovo degli anni Novanta –, un atteggiamento assolutamente deviante che, in nome di un fanatismo politico militante e di un romanticismo ideologico eternamente perduto nei meandri dell’idealizzazione di una figura ribelle a metà tra il Subcomandante Marcos e i Fedayn arabi, non consente di scorgere gli ampi margini di convergenza geopolitica che la Cristianità Ortodossa offre da diverso tempo ormai, come affermato baluardo di resistenza culturale e sociale nel contrasto alle mire espansionistiche e dissolutrici della Nato.