Oslo come Beirut?

– Giacomo Gabellini

 

Sull’attentato terroristico che ha insanguinato la Norvegia sono state scritte le cose più disparate.

Al momento, tuttavia, uno dei pochi punti fermi sta nel fatto che il sacro ardore antislamico che domina il circuito informativo è entrato in rotta di collisione con una realtà niente affatto corrispondente ai resoconti e alle ricostruzioni congegnate dalle più “autorevoli” penne impegnate ad intonare all’unisono cori di condanna nei confronti del solito terrorismo islamico richiamandosi a una rivendicazione fatta su internet dal sedicente gruppo “Ansar Al Jihad Al Alami”.

Le stragi dell’11 settembre 2001, di Madrid e Londra hanno indubbiamente insinuato una forte componente pregiudiziale islamofoba in seno alla popolazione europea, che ha a sua volta favorito un processo di rimozione generale di uno degli eventi terroristici che hanno maggiormente scosso i precari equilibri mediorientali, ovvero l’attentato a Rafik Hariri.

Non sono infatti soltanto i morti, l’edificio sventrato, l’utilizzo di un ordigno potete e sofisticato a ricordare sinistramente l’attentato al defunto Primo Ministro libanese, quanto il medesimo modus operandi atto a renderne irrintracciabili i mandanti o a far ricadere i sospetti su altri sogetti.

Nel gergo comunemente impiegato, quegli attentati rispondenti a tale obiettivo sono generalmente iscritti nel novero delle cosiddette “operazioni false flag”.

I più abili pianificatori delle operazioni in questione sono indiscutibilmente gli israeliani, e il Libano ha funto da vero e proprio laboratorio di sperimentazione al riguardo.

Non è un caso che l’ultima operazione a presentare connotati propri alle classiche operazioni false flag riguardi proprio il colossale attentato contro Hariri.

Rafik Hariri è stato un facoltoso e abile uomo d’affari che aveva fatto della propria popolarità e dell’innato fiuto politico il cemento necessario per tenere insieme una maggioranza particolarmente variegata e capace di rappresentare le tre componenti sciita, sunnita e maronita, maggioritarie nel tessuto sociale libanese.

Il successo politico dell’uomo era dovuto principalmente al suo lavoro diplomatico che aveva portato alla fine della sanguinosa guerra civile e consacrato Damasco quale garante di una sorta di pax siriana sul Libano, che pure risultava indigesta a talune personalità di spicco come il generale cristiano Michel Aoun.

Il periodo immediatamente successivo alla pace trascorse all’insegna della ricostruzione e vide le varie componenti sociali libanesi seppellire momentaneamente l’ascia di guerra per profondere congiuntamente gli sforzi necessari a risollevare il paese dalla catastrofe appena conclusasi.

In questo particolare contesto si inserirono gli ultimi rampolli della stirpe Gemayel – Pierre jr. e Sami – eredi del fondatore del capostipite Pierre, fondatore del Partito Falangista cristiano.

Essi ripresero la tradizionale avversione congenita nei confronti della Siria messa momentaneamente in angolo dal partito guidato in quella fase da Karim Pakradouni, la cui vicinanza al governo siriano aveva drasticamente ridimensionato la capacità destabilizzante dei falangisti.

I rapporti di forza che regolavano la situazione politica libanese furono definitivamente ridisegnati nei primi mesi del 2005, dopo che Rafik Hariri si era dimesso dall’incarico di Primo Ministro in segno di protesta contro l’emendamento approvato costituzionalmente atto a prorogare di tre anni la presidenza de Emile Lahoud, sponsorizzato attivamente da Bashar Assad.

Ciò fece in modo che la pianificazione e l’esecuzione dell’attentato del 14 febbraio che costò la vita ad Hariri venissero istantaneamente attribuite alla Siria, cosa che – amplificata poderosamente dalla grancassa mediatica – favorì il sorgere di un movimento di rivolta popolare contro la presenza di circa 14.000 militari siriani nel Paese.

La sommossa, prontamente ribattezzata come “Rivoluzione dei Cedri”, sortì il duplice risultato di costringere Bashar Assad a cedere alle forti pressioni internazionali, dichiarando la fine del protettorato siriano sul Libano oltre all’imminente ritiro delle proprie forze armate dal territorio libanese, e di favorire l’ascesa al potere dell’economista Fouad Siniora, che si mostrò immediatamente riconoscente nei confronti di Pierre Gemayel per la funzione antisiriana svolta dal Partito Falangista sotto la sua egida affidandogli l’incarico di Ministro dell’Industria.

La “Rivoluzione dei Cedri” seguì il medesimo schema delle tante rivoluzioni colorate sorte in numerosi paesi vicini alla Russia da eventi, non sempre realmente accaduti o rispondenti alle modalità con cui sono stati presentati, in grado di catalizzare i malcontenti popolari della più svariata natura e creare disordini sociali suscettibili di indebolire o abbattere i governi in carica.

Tuttavia, il governo Siniora mostrò ben presto – come quello di Yushenko in Ucraina – tutta la propria inettitudine e perse rapidamente tutti i vantaggi che aveva ottenuto, giungendo perfino a sciogliere la Corte Costituzionale che l’avrebbe probabilmente dichiarato decaduto alla luce del palese dissolvimento del bacino elettorale che ne aveva decretato il trionfo solo pochi mesi prima.

Il popolare generale cristiano Michel Aoud si schierò allora con il potente movimento sciita di Hezbollah, formando una coalizione nazionalista forte di un vastissimo appoggio popolare e assai invisa a Stati Uniti ed Israele.

Hezbollah, per bocca del leader Hassan Nasrallah, spese al riguardo le seguenti, eloquenti parole: “Non abbiamo fiducia di questo governo che risponde alle decisioni e ai desideri dell’amministrazione americana. Manifestiamo per ottenere la caduta del governo illegittimo e anti-costituzionale, il governo di Feltman”.

Jeffrey Feltman – per inciso – ricopriva all’epoca l’incarico di assistente al Segretario di Stato per il Medio Oriente.

In quella specifica fase in cui la struttura portante del governo Siniora presentava crepe sempre più profonde si verificò l’enigmatico omicidio di Pierre jr. Gemayel, che era un uomo politico dal basso profilo ma dall’altisonante cognome, in grado di suscitare le più irrazionali pulsioni in seno alla nutrita e turbolenta componente cristiana del Libano.

La sua chiara posizione antisiriana orientò ancora una volta i sospetti sul governo di Damasco, cosa potenzialmente destabilizzante e suscettibile di spezzare l’integrità sociale libanese e rigettando il paese nel caos.

Una vicenda simile era accaduta nel 1982 al più famoso dei Gemayel, quel Bashir che era caduto in un megattentato pochi giorni prima di esser nominato Presidente con il forte sostegno di Israele e specificamente dell’allora Ministro della Difesa Ariel Sharon.

L’atto terroristico fu anche all’epoca attribuito alla Siria che si era da poco schierata in difesa dei profughi palestinesi e provocò la spaventosa ritorsione dei falangisti i quali, forti del supporto logistico dell’esercito israeliano, pepetrarono il ben noto massacro nei campi di Chabra e Chatila delle altrettanto ben note dimesioni.

L’obiettivo di Israele è sempre stato quello di destabilizzare il Libano e la resistenza sciita, dalla quale è nato Hezbollah, è stata l’unica forza in grado di contenere la soverchiante macchina militare meglio nota come Tsahal.

Nell’estate di quel rovente 1982 Israele sferrò l’operazione “Pace in Galilea”, nell’ambito della quale caddero circa 20.000 civili libanesi (e palestinesi) e un terzo del territorio nazionale cadde in mano all’esercito di Tel Aviv.

Mentre Hezbollah raccoglieva adepti in seno alla società libanese Tsahal non riusciva a piegare la resistenza sciita e incassava inaspettate perdite lungo le alture di Khaldeh.

Nel 1985, l’ostinazione di Hezbollah costrinse Israele a ritirarsi da numerosi villaggi e dalle principali città di Tiro e Sidone.

Nel luglio del 1993 il capo di Stato Maggiore Ehud Barak intimò al servile governo centrale di Beirut il diktat di disarmare i “terroristi” di Hezbollah o di accettare le inevitabili conseguenze dell’eventuale inadempienza.

Nel frattempo Hezbollah aveva però acquisito un peso tale da rendere impossibile ogni iniziativa del governo in tal senso ed Israele decise quindi di passare alle maniere forti sferrando l’operazione “Accountability”, durante la quale vennero effettuati più di 1.000 raid aerei corrispondenti ad altrettanti bombardamenti sulle città libanesi.

Il Mossad aveva però sottostimato la capacità di reazione di Hezbollah e agì seguendo una colossale, malriposta fiducia nei propri servizi.

Hezbollah e le varie fazioni della resistenza libanese ribadirono infatti colpo su colpo provocando uno stallo che culminò con una tregua che entrò in vigore il 31 luglio del 1993.

Di fronte all’inaspettata reazione libanese, il Primo Ministro Itzak Rabin fu costretto ad ammettere la sconfitta.

Nell’aprile di tre anni dopo ebbe luogo l’operazione “Grapes of Wrath”, comprendente una serie di bombardamenti a tappeto sulle città di Balbek e Tiro, provocando la morte di numerosi civili e la distruzione di case e infrastrutture.

Tuttavia Hezbollah aveva studiato le tattiche israeliane e tratto i debiti insegnamenti dai passati conflitti, anticipando le mosse di Tsahal e infliggendo forti perdite mediante operazioni di guerriglia che le numerose milizie a disposizione erano state addestrate specificamente ad eseguire.

Seguì un’ulteriore tregua patrocinata dal Ministro degli Esteri statunitense Warren Christopher.

L’opinione pubblica israeliana interpretò il tutto come una sconfitta, cosa che compromise la rielezione di Shimon Peres in seguito alle elezioni del maggio 1996.

Nell’estate del 2006 si verificò l’ennesima aggressione israeliana, che causò numerose vittime e immani distruzioni.

Sortì però un effetto politico del tutto inaspettato, che corrispose con in consolidamento dell’asse cristiano (maronita) – sciita promosso dai rispettivi leader Michel Aoun e Hassan Nasrallah e la conseguente formazione di un fronte patriottico unito fortemente ostile ad Israele.

Gli attentati descritti in precedenza vanno collocati in questo contesto generale in cui emerge l’inesausto tentativo israeliano di creare fratture in seno alla variegata e complessa società libanese.

Il fatto che rispondano in pieno all’obiettivo e siano in tutto e per tutto funzionali allo scopo è un fattore assolutamente centrale che non può essere ignorato.

Il “cui prodest” di Damasco negli assassinii politici dei Gemayel e di Rafik Hariri è sempre stato debolissimo, in quanto avrebbe inevitabilmente attirato sonore condanne internazionali e provocato forti sollevazioni popolari antisiriane, cosa che invece giova ad Israele, paese che nutre chiare ed inoppugnabili ambizioni egemoniche sul Levante e sul Vicino e Medio Oriente.

Anche per quanto riguarda gli atti terroristici di Oslo e dell’isola di Utoya il “cui prodest” di Israele è niente affatto irrilevante.

La Norvegia è l’unico paese europeo ad appoggiare ufficialmente la causa palestinese, promettendo di riconoscere l’indipendenza che Abu Mazen si accinge a proclamare unilateralmente.

Egli è stato accolto ad Oslo lo scorso 18 luglio dal Ministro degli Esteri Jonas Gahr Store che nel frattempo gli ha riconosciuto lo status di ambasciatore.

Il giorno seguente, Eskil Pederse, il portavoce dei giovani del partito AUF presi di mira dalla furia dell’attentatore John Behring Breivik ha condannato pubblicamente la politica israeliana auspicando l’applicazione di sanzioni e l’embargo economico da parte della Norvegia nei confronti del regime di Tel Aviv.

Aziende israeliane sono state escluse da bandi indetti in Norvegia per ragioni etiche, suscitando l’ira del Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman che ha accusato il governo di Oslo di promuovere l’antisemitismo.

Il profilo dell’attentatore tracciato finora corrisponde a quello di un fiero sionista afflitto da tremende smanie islamofobe.

L’ordigno che ha impiegato per far saltare il palazzo governativo norvegese ha prodotto un’esplosione di una potenza tale da ricordare quella dell’autobomba collocata dinnanzi all’hotel Saint Georges dove perse la vita Rafik Hariri o quella provocata dai 300 chili di tritolo che dilaniarono Bashir Gemayel.

Al momento non vi sono certezze ed è possibile solo ragionare nel campo delle possibilità, naturalmente.

Tuttavia, quando si tratta di terrorismo, è sempre bene diffidare delle soluzioni semplicistiche (il classico pazzo solitario) generalmente propinate dagli organi di informazione di massa, incapaci di attribuire talune azioni al cosiddetto “campo democratico”.

Occorre individuare e soppesare gli interessi in gioco, seguire i percorsi del denaro e sapersi districare nel colossale groviglio di menzogne, mezze verità, omissioni e depistaggi che rendono impervia la strada che conduce alla verità.

L’Europa è stata devastata da una miriadi di stragi – come quelle di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia, di Peteano, di Bologna, dell’Oktoberfest, del Brabante – commesse da taluni elementi connessi a Gladio.

Dall’analisi delle stragi in questione si trae la conclusione che gli esecutori materiali del terrorismo sono generalmente mera manovalanza, quasi sempre reclutata – spesso inconsapevolmente – da enti o organizzazioni titolari di interessi direttamente legati all’eversione.

Nel caso specifico Israele ha interessi assolutamente primari nella destabilizzazione di un paese solidale con i palestinesi come la Norvegia, il cui esempio potrebbe ipoteticamente innescare un effetto domino sulle altre nazioni europee.

Ignorare questo significa voltare le spalle alla realtà.

 

 

 

Oslo come Beirut? – Giacomo Gabellini

 

Sull’attentato terroristico che ha insanguinato la Norvegia sono state scritte le cose più disparate.

Al momento, tuttavia, uno dei pochi punti fermi sta nel fatto che il sacro ardore antislamico che domina il circuito informativo è entrato in rotta di collisione con una realtà niente affatto corrispondente ai resoconti e alle ricostruzioni congegnate dalle più “autorevoli” penne impegnate ad intonare all’unisono cori di condanna nei confronti del solito terrorismo islamico richiamandosi a una rivendicazione fatta su internet dal sedicente gruppo “Ansar Al Jihad Al Alami”.

Le stragi dell’11 settembre 2001, di Madrid e Londra hanno indubbiamente insinuato una forte componente pregiudiziale islamofoba in seno alla popolazione europea, che ha a sua volta favorito un processo di rimozione generale di uno degli eventi terroristici che hanno maggiormente scosso i precari equilibri mediorientali, ovvero l’attentato a Rafik Hariri.

Non sono infatti soltanto i morti, l’edificio sventrato, l’utilizzo di un ordigno potete e sofisticato a ricordare sinistramente l’attentato al defunto Primo Ministro libanese, quanto il medesimo modus operandi atto a renderne irrintracciabili i mandanti o a far ricadere i sospetti su altri sogetti.

Nel gergo comunemente impiegato, quegli attentati rispondenti a tale obiettivo sono generalmente iscritti nel novero delle cosiddette “operazioni false flag”.

I più abili pianificatori delle operazioni in questione sono indiscutibilmente gli israeliani, e il Libano ha funto da vero e proprio laboratorio di sperimentazione al riguardo.

Non è un caso che l’ultima operazione a presentare connotati propri alle classiche operazioni false flag riguardi proprio il colossale attentato contro Hariri.

Rafik Hariri è stato un facoltoso e abile uomo d’affari che aveva fatto della propria popolarità e dell’innato fiuto politico il cemento necessario per tenere insieme una maggioranza particolarmente variegata e capace di rappresentare le tre componenti sciita, sunnita e maronita, maggioritarie nel tessuto sociale libanese.

Il successo politico dell’uomo era dovuto principalmente al suo lavoro diplomatico che aveva portato alla fine della sanguinosa guerra civile e consacrato Damasco quale garante di una sorta di pax siriana sul Libano, che pure risultava indigesta a talune personalità di spicco come il generale cristiano Michel Aoun.

Il periodo immediatamente successivo alla pace trascorse all’insegna della ricostruzione e vide le varie componenti sociali libanesi seppellire momentaneamente l’ascia di guerra per profondere congiuntamente gli sforzi necessari a risollevare il paese dalla catastrofe appena conclusasi.

In questo particolare contesto si inserirono gli ultimi rampolli della stirpe Gemayel – Pierre jr. e Sami – eredi del fondatore del capostipite Pierre, fondatore del Partito Falangista cristiano.

Essi ripresero la tradizionale avversione congenita nei confronti della Siria messa momentaneamente in angolo dal partito guidato in quella fase da Karim Pakradouni, la cui vicinanza al governo siriano aveva drasticamente ridimensionato la capacità destabilizzante dei falangisti.

I rapporti di forza che regolavano la situazione politica libanese furono definitivamente ridisegnati nei primi mesi del 2005, dopo che Rafik Hariri si era dimesso dall’incarico di Primo Ministro in segno di protesta contro l’emendamento approvato costituzionalmente atto a prorogare di tre anni la presidenza de Emile Lahoud, sponsorizzato attivamente da Bashar Assad.

Ciò fece in modo che la pianificazione e l’esecuzione dell’attentato del 14 febbraio che costò la vita ad Hariri venissero istantaneamente attribuite alla Siria, cosa che – amplificata poderosamente dalla grancassa mediatica – favorì il sorgere di un movimento di rivolta popolare contro la presenza di circa 14.000 militari siriani nel Paese.

La sommossa, prontamente ribattezzata come “Rivoluzione dei Cedri”, sortì il duplice risultato di costringere Bashar Assad a cedere alle forti pressioni internazionali, dichiarando la fine del protettorato siriano sul Libano oltre all’imminente ritiro delle proprie forze armate dal territorio libanese, e di favorire l’ascesa al potere dell’economista Fouad Siniora, che si mostrò immediatamente riconoscente nei confronti di Pierre Gemayel per la funzione antisiriana svolta dal Partito Falangista sotto la sua egida affidandogli l’incarico di Ministro dell’Industria.

La “Rivoluzione dei Cedri” seguì il medesimo schema delle tante rivoluzioni colorate sorte in numerosi paesi vicini alla Russia da eventi, non sempre realmente accaduti o rispondenti alle modalità con cui sono stati presentati, in grado di catalizzare i malcontenti popolari della più svariata natura e creare disordini sociali suscettibili di indebolire o abbattere i governi in carica.

Tuttavia, il governo Siniora mostrò ben presto – come quello di Yushenko in Ucraina – tutta la propria inettitudine e perse rapidamente tutti i vantaggi che aveva ottenuto, giungendo perfino a sciogliere la Corte Costituzionale che l’avrebbe probabilmente dichiarato decaduto alla luce del palese dissolvimento del bacino elettorale che ne aveva decretato il trionfo solo pochi mesi prima.

Il popolare generale cristiano Michel Aoud si schierò allora con il potente movimento sciita di Hezbollah, formando una coalizione nazionalista forte di un vastissimo appoggio popolare e assai invisa a Stati Uniti ed Israele.

Hezbollah, per bocca del leader Hassan Nasrallah, spese al riguardo le seguenti, eloquenti parole: “Non abbiamo fiducia di questo governo che risponde alle decisioni e ai desideri dell’amministrazione americana. Manifestiamo per ottenere la caduta del governo illegittimo e anti-costituzionale, il governo di Feltman”.

Jeffrey Feltman – per inciso – ricopriva all’epoca l’incarico di assistente al Segretario di Stato per il Medio Oriente.

In quella specifica fase in cui la struttura portante del governo Siniora presentava crepe sempre più profonde si verificò l’enigmatico omicidio di Pierre jr. Gemayel, che era un uomo politico dal basso profilo ma dall’altisonante cognome, in grado di suscitare le più irrazionali pulsioni in seno alla nutrita e turbolenta componente cristiana del Libano.

La sua chiara posizione antisiriana orientò ancora una volta i sospetti sul governo di Damasco, cosa potenzialmente destabilizzante e suscettibile di spezzare l’integrità sociale libanese e rigettando il paese nel caos.

Una vicenda simile era accaduta nel 1982 al più famoso dei Gemayel, quel Bashir che era caduto in un megattentato pochi giorni prima di esser nominato Presidente con il forte sostegno di Israele e specificamente dell’allora Ministro della Difesa Ariel Sharon.

L’atto terroristico fu anche all’epoca attribuito alla Siria che si era da poco schierata in difesa dei profughi palestinesi e provocò la spaventosa ritorsione dei falangisti i quali, forti del supporto logistico dell’esercito israeliano, pepetrarono il ben noto massacro nei campi di Chabra e Chatila delle altrettanto ben note dimesioni.

L’obiettivo di Israele è sempre stato quello di destabilizzare il Libano e la resistenza sciita, dalla quale è nato Hezbollah, è stata l’unica forza in grado di contenere la soverchiante macchina militare meglio nota come Tsahal.

Nell’estate di quel rovente 1982 Israele sferrò l’operazione “Pace in Galilea”, nell’ambito della quale caddero circa 20.000 civili libanesi (e palestinesi) e un terzo del territorio nazionale cadde in mano all’esercito di Tel Aviv.

Mentre Hezbollah raccoglieva adepti in seno alla società libanese Tsahal non riusciva a piegare la resistenza sciita e incassava inaspettate perdite lungo le alture di Khaldeh.

Nel 1985, l’ostinazione di Hezbollah costrinse Israele a ritirarsi da numerosi villaggi e dalle principali città di Tiro e Sidone.

Nel luglio del 1993 il capo di Stato Maggiore Ehud Barak intimò al servile governo centrale di Beirut il diktat di disarmare i “terroristi” di Hezbollah o di accettare le inevitabili conseguenze dell’eventuale inadempienza.

Nel frattempo Hezbollah aveva però acquisito un peso tale da rendere impossibile ogni iniziativa del governo in tal senso ed Israele decise quindi di passare alle maniere forti sferrando l’operazione “Accountability”, durante la quale vennero effettuati più di 1.000 raid aerei corrispondenti ad altrettanti bombardamenti sulle città libanesi.

Il Mossad aveva però sottostimato la capacità di reazione di Hezbollah e agì seguendo una colossale, malriposta fiducia nei propri servizi.

Hezbollah e le varie fazioni della resistenza libanese ribadirono infatti colpo su colpo provocando uno stallo che culminò con una tregua che entrò in vigore il 31 luglio del 1993.

Di fronte all’inaspettata reazione libanese, il Primo Ministro Itzak Rabin fu costretto ad ammettere la sconfitta.

Nell’aprile di tre anni dopo ebbe luogo l’operazione “Grapes of Wrath”, comprendente una serie di bombardamenti a tappeto sulle città di Balbek e Tiro, provocando la morte di numerosi civili e la distruzione di case e infrastrutture.

Tuttavia Hezbollah aveva studiato le tattiche israeliane e tratto i debiti insegnamenti dai passati conflitti, anticipando le mosse di Tsahal e infliggendo forti perdite mediante operazioni di guerriglia che le numerose milizie a disposizione erano state addestrate specificamente ad eseguire.

Seguì un’ulteriore tregua patrocinata dal Ministro degli Esteri statunitense Warren Christopher.

L’opinione pubblica israeliana interpretò il tutto come una sconfitta, cosa che compromise la rielezione di Shimon Peres in seguito alle elezioni del maggio 1996.

Nell’estate del 2006 si verificò l’ennesima aggressione israeliana, che causò numerose vittime e immani distruzioni.

Sortì però un effetto politico del tutto inaspettato, che corrispose con in consolidamento dell’asse cristiano (maronita) – sciita promosso dai rispettivi leader Michel Aoun e Hassan Nasrallah e la conseguente formazione di un fronte patriottico unito fortemente ostile ad Israele.

Gli attentati descritti in precedenza vanno collocati in questo contesto generale in cui emerge l’inesausto tentativo israeliano di creare fratture in seno alla variegata e complessa società libanese.

Il fatto che rispondano in pieno all’obiettivo e siano in tutto e per tutto funzionali allo scopo è un fattore assolutamente centrale che non può essere ignorato.

Il “cui prodest” di Damasco negli assassinii politici dei Gemayel e di Rafik Hariri è sempre stato debolissimo, in quanto avrebbe inevitabilmente attirato sonore condanne internazionali e provocato forti sollevazioni popolari antisiriane, cosa che invece giova ad Israele, paese che nutre chiare ed inoppugnabili ambizioni egemoniche sul Levante e sul Vicino e Medio Oriente.

Anche per quanto riguarda gli atti terroristici di Oslo e dell’isola di Utoya il “cui prodest” di Israele è niente affatto irrilevante.

La Norvegia è l’unico paese europeo ad appoggiare ufficialmente la causa palestinese, promettendo di riconoscere l’indipendenza che Abu Mazen si accinge a proclamare unilateralmente.

Egli è stato accolto ad Oslo lo scorso 18 luglio dal Ministro degli Esteri Jonas Gahr Store che nel frattempo gli ha riconosciuto lo status di ambasciatore.

Il giorno seguente, Eskil Pederse, il portavoce dei giovani del partito AUF presi di mira dalla furia dell’attentatore John Behring Breivik ha condannato pubblicamente la politica israeliana auspicando l’applicazione di sanzioni e l’embargo economico da parte della Norvegia nei confronti del regime di Tel Aviv.

Aziende israeliane sono state escluse da bandi indetti in Norvegia per ragioni etiche, suscitando l’ira del Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman che ha accusato il governo di Oslo di promuovere l’antisemitismo.

Il profilo dell’attentatore tracciato finora corrisponde a quello di un fiero sionista afflitto da tremende smanie islamofobe.

L’ordigno che ha impiegato per far saltare il palazzo governativo norvegese ha prodotto un’esplosione di una potenza tale da ricordare quella dell’autobomba collocata dinnanzi all’hotel Saint Georges dove perse la vita Rafik Hariri o quella provocata dai 300 chili di tritolo che dilaniarono Bashir Gemayel.

Al momento non vi sono certezze ed è possibile solo ragionare nel campo delle possibilità, naturalmente.

Tuttavia, quando si tratta di terrorismo, è sempre bene diffidare delle soluzioni semplicistiche (il classico pazzo solitario) generalmente propinate dagli organi di informazione di massa, incapaci di attribuire talune azioni al cosiddetto “campo democratico”.

Occorre individuare e soppesare gli interessi in gioco, seguire i percorsi del denaro e sapersi districare nel colossale groviglio di menzogne, mezze verità, omissioni e depistaggi che rendono impervia la strada che conduce alla verità.

L’Europa è stata devastata da una miriadi di stragi – come quelle di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia, di Peteano, di Bologna, dell’Oktoberfest, del Brabante – commesse da taluni elementi connessi a Gladio.

Dall’analisi delle stragi in questione si trae la conclusione che gli esecutori materiali del terrorismo sono generalmente mera manovalanza, quasi sempre reclutata – spesso inconsapevolmente – da enti o organizzazioni titolari di interessi direttamente legati all’eversione.

Nel caso specifico Israele ha interessi assolutamente primari nella destabilizzazione di un paese solidale con i palestinesi come la Norvegia, il cui esempio potrebbe ipoteticamente innescare un effetto domino sulle altre nazioni europee.

Ignorare questo significa voltare le spalle alla realtà.