PADRONATO IN CONFLITTO, SERVI DA ELIMINARE, di GLG

gianfranco

Ci sono servi e servi. Li chiamiamo così con giusto (e doveroso) disprezzo, ma è necessario distinguere fra loro. Così come bisogna capire a volte il livello di consapevolezza dei padroni e, soprattutto, il legame creato con i servi e le diverse modalità nel far loro osservare l’obbedienza. A volte si lasciano perfino margini (limitati) di libertà e, in ogni caso, anche i servi più servi (perfino gli schiavi del mondo che fu) possono ritagliarsi piccoli spazi di movimento per conseguire condizioni a volte meno opprimenti e con minori svantaggi. In ogni caso, tra padronato e servitù vengono sempre a stabilirsi particolari strutture relazionali, la cui messa in discussione rischia di creare malumori pure tra i servi, qualche fenomeno di disobbedienza, sordi brontolii, e via dicendo. E’ ovvio che fenomeni del genere – a meno che non si verifichino gli eccezionali casi della ribellione contro lo stesso legame servile – accadono quando si creano dissidi fra i padroni. Allora tra i servi si diffonde la paura di essere sostituiti da altri; e possono schierarsi con quei padroni, che promettono loro di tenerli a servizio e pagarli un po’ meglio se li aiutano a sbaragliare i nuovi padroni.
Tutto questo per cercare di spiegare cosa potrebbe accadere tra i padroni statunitensi e i vari gruppi di servi europei appartenenti a diversi livelli nella gerarchia della dipendenza. Intanto, come già sappiamo, la servitù di mezza (e più) Europa, quella decisamente più forte e sviluppata, si stabilì già a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, che vide apertamente sconfitte Germania e Italia ma battute di fatto (pur ufficialmente vincitrici) anche Inghilterra e Francia. E dopo il 1989-91 (crollo dei paesi “socialisti” dell’Europa orientale e dell’Urss, quindi fine del mondo detto bipolare) pure la parte est-europea fu asservita alla Nato, cioè agli Usa. Tralascio la “nobile funzione” dei “padri dell’Europa unita”, sdraiatisi ai piedi degli americani per motivi molto poco ideali, perché la loro opera sarebbe stata inutile (e sarebbero oggi disprezzati come meritano e non onorati dai loro successori sempre più abietti) se la guerra non avesse avuto quell’esito.
La prima cosa che sarà da studiare nel futuro è dunque il mutamento del mondo dal 1945 ad oggi, con le due fasi così nettamente distinte (almeno nelle apparenze) tra quella data e l’inizio degli anni ’90 e poi la successiva che viviamo tuttora. In quest’ultima, si ebbe all’inizio la sensazione che si ristabilisse una netta posizione di monocentrismo americano, sul tipo di quello inglese di gran parte dell’800. La sensazione durò in fondo poco. Malgrado ancor oggi si possa dire che la potenza statunitense è decisamente superiore alle altre, credo proprio si debba parlare ormai di multipolarismo (non perfetto però e soprattutto ancora lontano dal policentrismo conflittuale acuto e “generale”). Con Bill Clinton a George Bush si inseguì il tentativo di ripristinare con aggressioni più dirette un completo predominio mondiale; sempre senza però affrontare direttamente il problema delle potenze in crescita (Cina e nuovamente la Russia, erede indebolita dell’Urss ma in fase di nuovo rafforzamento). Sintomatico che si trattasse di presidenti appartenenti ai due partiti rivali statunitensi; a dimostrazione che non risiede tanto in questa “bipartizione” il reale contrasto tra fazioni opposte. La strategia aggressiva non risultò comunque convincente e si passò con Obama alla strategia (o tattica) del caos, che sembrava più confacente alla nuova situazione mondiale – con le potenze in crescita ancora lontane dal poter seriamente impensierire gli Usa – e che alla fine non ha evidentemente fatto ottenere risultati ritenuti soddisfacenti.
Con la nuova presidenza insediatasi a gennaio sembrava si volesse tentare qualcosa di più radicalmente innovativo. La sensazione è però che si stiano presentando scontri più acuti e scoperti, non proprio riconducibili alla contrapposizione – tipica di una democrazia fasulla come quella elettorale – tra i due classici e storici partiti Usa. Non è che in passato non si siano presentati contrasti di notevole acutezza, ma dipendevano da dati assetti di potere con in campo due gruppi relativamente ristretti e sempre in qualche collegamento (anche se magari indiretto e ben mascherato) con la criminalità caratterizzante il “nuovo” paese, “scoperto” verso l’entrata nell’epoca moderna (1492) e venuto ad effettiva esistenza nella fase della rivoluzione industriale che apre all’epoca contemporanea; un paese tuttavia avviato ad essere una grande (la più grande) potenza dopo il sanguinoso regolamento di conti interno del 1861-65.
Se andiamo al periodo del mondo detto bipolare – la configurazione internazionale seguita alla seconda guerra mondiale – vi sono stati almeno due momenti in cui le ostilità tra due gruppi di potere contrapposti negli Usa (perfino all’interno dello stesso partito) esplosero con atti di alta drammaticità. Vi fu l’assassinio di Kennedy (1963), seguito a certe segrete aperture del presidente americano nei confronti di Kruscev (proprio per accelerare le difficoltà interne all’Urss), non accettate dagli “altri” e che costrinsero Kennedy alla “ritirata”, nascosta dietro l’apparente (e bugiarda) non conoscenza della presenza dei missili sovietici a Cuba; un passo indietro evidentemente non bastevole per l’establishment statunitense, probabilmente guidato dal vicepresidente Johnson (che poi occupò il posto resosi vacante). Una decina d’anni dopo vi fu l’eliminazione – non con l’uccisione, ma certamente con metodo assai “brusco” – di Nixon quando questi aprì alla Cina (quella di Mao addirittura), sempre con lo stesso intento di indebolire l’Urss e addivenire ad una “giusta” pace in Indocina (con gli accordi del gennaio 1973 a Parigi), che salvava molti interessi americani e avrebbe reso più difficile il prevalere della fazione filosovietica nel PC nordvietnamita, infine padrone dell’intero potere in tutto il Vietnam.
Anche allora i conflitti negli Stati Uniti erano legati alla politica internazionale (con effetti su quella interna) tentata dai presidenti in carica (con dietro precisi gruppi di potere, sia politici che economici) e avversata da altri gruppi che riuscirono a prevalere nelle due occasioni appena ricordate. Tuttavia, si finse invece che Kennedy fosse stato ucciso da uno spostato e piuttosto fuori di senno, a sua volta eliminato da uno che voleva vendicare l’assassinato. E contro Nixon si giocò la carta di uno scandalo interno per spionaggio nei confronti del partito avversario; il tutto preparato tramite una “gola profonda” che si rivelò essere (nel 2005) Mark Felt, vicedirettore dell’FBI all’epoca del watergate. Adesso, il contrasto è decisamente più acuto, ma soprattutto al di fuori degli schemi consueti di scontri legati a gruppi di potere interni ai due partiti, che recitano la commedia del democratico confronto di programmi per la “delizia” della popolazione sempre credulona (non solo negli Usa). Si arriva addirittura a presumere la connivenza di Trump con un avversario della portata della Russia, potenza in crescita di tipo multipolare. Quindi, si fa sospettare il possibile tradimento della fedeltà nazionale da parte della più alta carica del paese. Volendo sorridere, ma non troppo, si potrebbe ricordare il divertente (non soltanto) film di Joe Dante “La seconda guerra civile americana” (1997). In ogni caso, uno scontro pericoloso assai.
Se si è arrivati ad un punto di simile contrasto è evidente che vi è qualcosa di nuovo e di più difficilmente risolvibile negli Stati Uniti. In fondo, la “guerra fredda” con l’Urss (che non fu mai, e mai avrebbe potuto essere, vera guerra) ha di fatto consentito agli Stati Uniti una effettiva crescente preminenza mondiale; favorita pure dalla sostituzione di importanti domini coloniali tipo quello inglese in India, quello francese in Indocina, ecc. Naturalmente, si è giocato sulla sostanziale menzogna della vittoria del “pacifista” Gandhi, di un finto “neutralista” in Vietnam (anche se metà di questo paese venne conquistata nel 1954 dai comunisti, quelli che abbiamo creduto, e che si sono sinceramente creduti, tali per molti decenni). Senza dubbio l’India di Nehru come l’Egitto di Nasser e altri paesi ancora hanno fatto parte del “mondo non allineato”, che credo abbia avuto una reale funzione per un bel po’ di tempo. Tuttavia, la storia si è incaricata di dimostrare che si trattava di una fase transitoria con elementi di debolezza tali da favorire la transizione al predominio statunitense; e ciò si è verificato puntualmente malgrado gli errori (per me sono stati tali) compiuti da coloro che hanno assassinato Kennedy e liquidato Nixon, errori che hanno comportato soltanto un ritardo nel verificarsi di eventi inevitabili.

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Oggi è invece altrettanto inevitabile che la storia ci condurrà, fra un tempo non predicibile nella sua lunghezza (ma non certo secolare), ad un reale multipolarismo, prodromo del policentrismo acuto. Gli Usa sono ancora molto potenti, più di tutti gli altri, militarmente hanno una superiorità rispetto agli altri paesi perfino superiore a quella goduta nei confronti dell’Urss. Ciononostante, il paese preminente ha dimostrato, pur dopo il clamoroso crollo dell’avversario di mezzo secolo, di non saper instaurare il monocentrismo come fece l’Inghilterra per alcuni decenni dopo il Congresso di Vienna del 1814-15. Russia e Cina hanno imparato dagli errori clamorosi del “socialismo reale” e hanno attualmente configurazioni del rapporti sociali meno rigide (soprattutto quelle russe), che quindi consentono una strutturazione degli apparati politici dotata al momento di una forza minore rispetto a quella dell’Urss, ma assai meno fragile. Questo rende più “nevrotici” i comportamenti statunitensi e creano nel contempo forti tensioni interne, che non sono solo tra gruppi di potere ma anche tra strati e raggruppamenti sociali forse in divaricazione. La divisione politico-elettorale manifestatasi tra le due coste (pacifica e atlantica), da una parte, e la parte centrale del paese, dall’altra, mette in mostra forse qualcosa di rilevante per il futuro.
Tuttavia, non vi è dubbio che la situazione sia tutt’altro che chiara. La prima parte appena indicata è quella più avanzata degli Stati Uniti, industrialmente e tecnologicamente, mentre la seconda appare in qualche “ritardo”. Come già l’Inghilterra nell’800, la prima parte è dunque favorevole al libero scambio, che la favorisce. Nel XIX secolo l’atteggiamento inglese provocò la reazione protezionistica del nord degli Usa in fase di forte industrializzazione (con successivo regolamento sanguinoso dei conti tra Unione e Confederazione); nonché quella simile della Prussia/Germania per lo stesso motivo. Anche ammesso che, negli Stati Uniti odierni, l’altra parte (più arretrata) sia meno favorevole al liberismo (da cui la presunta tendenza isolazionista dei gruppi trumpiani), è evidente che la potenza preminente del paese non può essere messa in discussione da nessuno, tanto meno da coloro che si rappresentano nel neopresidente, ancora poco solidi nella loro presa sui nodi centrali del potere (sia economico sia politico e culturale). Da qui deriva la linea zigzagante finora seguita da Trump. Deve combattere, e tentare di battere, i centri di potere degli avversari (che hanno appunto maggior seguito nelle zone più dinamiche del paese, quelle in fondo decisive al fine di consentirne la supremazia), ma non può indebolire la complessiva potenza statunitense, pena una decadenza che travolgerebbe anche i suoi centri di potere ancora poco forti (almeno così sembra).
Difficile in questa fase prevedere come evolverà il confronto negli Stati Uniti e quale ne sarà il risultato definitivo. La soluzione apparentemente più probabile è la non riuscita dei tentativi dei gruppi trumpiani; tuttavia, è bene non lanciarsi in previsioni troppo sicure. L’unica cosa che sembra piuttosto chiara (anche qui sempre con una qualche percentuale di incertezza, non però troppo alta) è il netto e deciso schieramento dei servi della UE e dei governi “europeisti” con l’establishment americano che ha sempre prevalso fino ad ora, malgrado i cambiamenti di presidenza tra un partito e l’altro. I gruppi dominanti europei preferiscono quindi il “libero scambio” perché appaiono strutturalmente legati, in qualità appunto di servi, al precedente e ancora forte establishment statunitense; per favorirlo cercano di ostacolare l’avanzata del multipolarismo e non intendono quindi dare corda al rafforzamento di altre potenze e soprattutto, data anche l’area in cui ci troviamo, di quella russa. Per i loro interessi – data anche l’inferiorità industriale e tecnologica rispetto agli Usa – non rifiutano di commerciare con la Russia, ma fanno di tutto per isolarla politicamente e aiutare i suoi nemici (tipo quelli al governo in Ucraina).
Dobbiamo comunque stare attenti a non esagerare dando esclusiva o prevalente importanza ai fattori economici. Essere fautori del libero scambio cela in realtà – dietro la solita solfa del benessere generale affidandosi alla “legge” del mercato – altri aspetti ancora più rilevanti e di autentico contrasto rispetto al ruolo che potrebbero giocare forze autenticamente europeiste, nel senso di favorevoli a non distruggere le nostre tradizioni, la nostra cultura, il nostro modo di vivere e perfino di pensare. Il processo messo in moto dall’ondivaga strategia americana nel continente africano e in altre zone sud-orientali dell’area confinante con i nostri paesi – processo di cui in questo momento l’aspetto più visibile (ma non il più rilevante) è il flusso migratorio che tanto eccita gli animi – viene oggi sfruttato soprattutto dai settori politici che si pretendono “union-europeisti”. In realtà, il fine è esattamente opposto. Tali settori tentano in realtà di far entrare in totale disfacimento le strutture socio-politico-culturali dei paesi europei.
I finti europeisti non hanno più nessuna valida strategia di sviluppo e rinascita del continente (che non è solo economica come insisto in continuazione). Sono ormai finiti come gruppi capaci di un qualsivoglia progresso e avanzamento. L’unico modo di mantenere il loro potere è distruggere il tessuto sociale dei vari paesi europei, creare una vera babele di abitudini, costumi, modi di vita e di pensare, lingue, religioni, correnti culturali e chi più ne ha più ne metta. Solo nella babele questi inetti e assai più che dannosi gruppi di potere (autentici nemici che distruggono il nostro futuro) possono sperare di continuare a tenere le loro postazioni privilegiate. Da autentici bugiardi, e pure assai peggio, quali sono, essi cianciano di integrazione (e in ciò sono coadiuvati anche dalla Chiesa cattolica sotto il nuovo Papa), ma quello che vogliono è invece la disintegrazione; altro modo per tenere il potere, con la loro ormai manifesta incapacità di governare facendo prosperare la maggioranza della popolazione, non esiste.
Sia chiaro a scanso di equivoci: la disintegrazione in questione non è effetto ineluttabile delle migrazioni. Per usare un linguaggio figurato, la pioggia calma e costante inzuppa bene il terreno, che è in grado di assorbire e diventa così più morbido. Se invece diluvia a scroscio, l’acqua cade irruente e tempestosa, cresce la marea di fango e si vanno formando innumerevoli rivoli che scorrono all’impazzata divenendo tanti torrentelli dai letti casuali e cangianti. E il danno non si ferma qui. Oltre ai vergognosi guadagni di delinquenziali organizzazioni prese per benefattrici e “umanitarie”, ci si disinteressa altamente dei veri fattori di ordinata ricezione degli estranei: centri di accoglienza ben organizzati, condizioni di vita che impediscano la penetrazione di organismi atti al reclutamento criminale o alla creazione di reti di mendicanti. Si favorisce l’ingaggio per lavori del tutto non regolamentati e pagati in modo infimo. Si distruggono posti di lavoro per i veri cittadini dei paesi invasi e si sprecano risorse che andrebbero indirizzate alle prestazioni lavorative adatte ad un forte sviluppo tecnologico, che viene quindi frenato, anzi deviato e inaridito. E via dicendo. Qui sta l’intento disgregativo dei servi europei dell’establishment americano (prevalente fino ad Obama). Una reale cancrena per i nostri paesi. Si dovrebbe sapere come si cura simile malattia, non certo con panni morbidi e zuppi di disinfettanti inutili. Il bisturi è l’arma decisiva; incidere e asportare.

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Simili devastazioni in certi paesi come il nostro (e pure in altri), sono stati favoriti dagli esiti politico-ideologici di ciò che fu il movimento del ’68, assai ambiguo ma che comunque aveva magari in origine intenzioni non negative. Tuttavia, i gruppi dirigenti di quel movimento hanno alla fine ceduto all’ambizione di “apparire e contare”, in realtà servendo pedissequamente i peggiori rappresentanti dei ceti dominanti servili e proni ai predominanti americani; e simili pseudo-rivoluzionari, divenuti semplici distruttori del tessuto sociale e culturale di antichi paesi come i nostri, hanno fortemente contribuito a creare manipoli di loro ancora più dannosi eredi con il compito di attuare l’immane disintegrazione in corso di svolgimento negli ultimi decenni, ma acceleratasi esponenzialmente negli ultimi anni.
E’ evidente che siamo in emergenza e attualmente – dopo settant’anni di indebolimento mentale e caratteriale – non esistono anticorpi adeguati. Sono portato a credere che il diffondersi di questa che è vera anticultura di tipo dissolutivo della nostra civilizzazione condurrà infine ad un reazione. Tuttavia, ciò non è sicuro e al momento non ci siamo proprio. I gruppi e gruppetti di volenterosi autonomisti, sovranisti, e non so come altro chiamarli – diciamo che sono comunque e positivamente antagonisti del “politicamente corretto” del ciarpame impadronitosi del potere europeo servendo gli Usa – hanno magari buone intenzioni, ma mi sembra abbiano raggiunto il massimo cui potevano aspirare continuando a subire l’egemonia “cultural-elettoralistica” degli avversari. C’è bisogno di una svolta radicale, e purtroppo in direzione di una violenza pur lucida e ben mirata. Ripeto che siamo in condizioni di vasta devastazione e degrado, che tuttavia – lo si capisca – non si combatte ponendo al primo posto i suoi meri effetti: terrorismo e invasione disorganizzata e scomposta di molti stranieri, dotati di loro tradizioni e civiltà, ma tanto lontane dalle nostre che il tempo dell’assorbimento dovrebbe essere di molti decenni e non di pochi anni.
Comunque, lo ripeto, sono effetti. La causa risiede negli incapaci e meschini ceti dirigenti – che non dirigono in effetti alcunché, semplicemente impongono e devastano imponendo – attorno a cui si sono raggruppati tutti i falliti dei sogni di cambiamento “rivoluzionario”. C’è gente che ha creduto in chissà quali effetti della lotta operaia (non dei marxiani “produttori associati”, già una semplificazione invecchiata da oltre un secolo); delusione massima. Si sono buttati sul terzomondismo, i “dannati della terra” in rivolta contro l’imperialismo (anche questo un termine adatto ad un secolo e passa fa, non certo al tipo di predominio esercitato dagli Usa); altra delusione. Ormai abbiamo una marea di autentici imbecilli (anche dotati di intelligenza, ma cretini per “partito preso”). Costoro hanno perciò prodotto, per “naturale” selezione a partire dal fallimento del tutto incompreso delle vecchie speranze, un ceto politico e intellettuale diretto da autentici furfanti. Si sta verificando – certo nelle forme diverse che sempre caratterizzano i “ritorni” nella storia dell’umanità, che non è come le altre specie animali sempre stabili nei loro “standard” – qualcosa che ricorda l’epoca intercorrente tra il Congresso della “Restaurazione” (a Vienna dopo la definitiva sconfitta della Francia napoleonica) e gli ultimi decenni del XIX secolo con gli eventi bellici che portano in primo piano Stati Uniti e Germania (e appena dopo il Giappone), la seconda rivoluzione industriale concomitante alla “grande stagnazione” di un quarto di secolo, poi seguita da ben altri eventi “non stagnanti” ma semplicemente tragici.
In quel periodo ottocentesco, durato almeno mezzo secolo, si ebbe la massima confusione e babele di posizioni svariate: poi si arrivò ad una decantazione, la cui migliore interpretazione (checché se ne dica) fu quella indicata come divisione tra borghesia e proletariato, tra classe capitalistica e classe operaia; cui seguì la crescita del sedicente “movimento operaio” (I Internazionale nel 1864 e II, quella di gran lunga più rilevante, nel 1889). Già fin da subito si alterò, come ho chiarito ormai da tanto tempo, la concezione della “classe operaia” (ripeto: non più il complesso dei “produttori associati”, dei salariati venditori di merce forza lavoro di tutti i tipi e gerarchie). Ne è seguito un vero secolo di fraintendimenti, di false rivoluzioni “proletarie”, contrastate da altre rivoluzioni di carattere prettamente nazionalistico. Quel conflitto ha solo comportato e favorito la vittoria e affermazione di una potenza detta ancora capitalistica, gli Stati Uniti, che in realtà hanno ben poco a che vedere con il capitalismo definito sia dai marxisti che dai liberal-liberisti, rimasti in definitiva a quello inglese: quello dell’“accumulazione originaria”, della transizione dal feudalesimo (o semitale) all’epoca moderna, della prima rivoluzione industriale, ecc.
Senza nemmeno aver ben compreso quella prima fase “intermedia” tra due epoche caratterizzate da formazioni sociali differenti, senza nemmeno una corretta interpretazione dei fenomeni drammatici e sconvolgenti del XX secolo, ci troviamo in un’altra epoca che attende nuove decantazioni sociali. Immagino che avverranno (forse già iniziano in questi anni) in quello che abbiamo sempre indicato genericamente come ceto(i) medi(o), raggruppamento sociale che si è ingrossato mentre retrocedeva la vera e propria classe operaia (in specie di fabbrica). Un ceto che è in parte ancora salariato (venditore di merce forza lavoro, concetto ormai vecchio e inservibile per afferrare i movimenti della società), in parte detto “autonomo”, anche piccolo-imprenditoriale, ecc. E mentre non si fa nulla per analizzare realmente la società attuale, imperversano gli imbecilli delusi (di cui sopra) guidati dai delinquenziali politicanti e intellettuali, sempre di cui sopra.
Insisto nell’invitare i giovani (quelli ancora dotati di senno e con una cultura alle spalle, quella cultura che gli insegnanti facenti parte dei delusi “fu rivoluzionari” non insegnano più, disfacendo secoli di storia della nostra civiltà) a ricominciare tutto da capo. Bisogna conoscere il passato, averne memoria, ma deve essere infine reinterpretato da storici non dementi come quelli degli ultimi settant’anni. Bisogna dare un calcio in c… a tutti gli anticomunisti e antifascisti viscerali, senza però seguire più i nostalgici di quelle decrepite ideologie. E tuttavia con la consapevolezza che i nemici più acerrimi si annidano fra i liberal-liberisti. Liberiamoci di loro e delle loro ingannevoli “libertà”. E ci si prepari ad altri metodi più proficui di lotta.

PS Avevo già finito il pezzo ed è arrivata la “bomba” della indicazione del Qatar quale effettivo “Stato canaglia”, che finanzia il terrorismo islamico. E chi ha rotto – l’Arabia saudita poi seguita dagli Emirati, dall’Egitto – ha pur essa finanziato l’Isis e le varie fazioni, riciclatesi e cambiatesi spesso di nome, che hanno tentato di rovesciare Assad, combinando comunque un bel casino in Siria, cui ha messo una pezza (ma solo una pezza al momento) la Russia. Recentemente, però, Trump è stato in Arabia saudita e siglato vari accordi (fra cui 110 miliardi di dollari in armi); e ciò ha evidentemente cambiato la posizione di tale paese. Tuttavia, l’attacco al Qatar si apparenta a quello all’Iran (invece appoggiato da Obama), che è sempre stato (assieme agli Hezbollah) dalla parte di Assad (almeno all’apparenza). Il casino è grande, la confusione massima. Si verifica una rottura interna ai sunniti (fra l’altro quelli al governo in Irak combattono contro il Califfato che li ha aggrediti). E nel contempo, i centri trumpiani accentuano il conflitto con gli sciiti; proprio quando viene rieletto presidente in Iran un “moderato” considerato abbastanza filo-occidentale (almeno rispetto ad Ahmadinejad). Evidentemente Rouhani è legato all’establishment americano antitrumpiano ed è vicino ai servi della UE e dei governi europei. Adesso comincia a chiarirsi meglio la recente “ossessione anti-inglese” dei terroristi (gli attentati non hanno nulla di casuale, sono organizzati e “ispirati”). La May non era favorevole alla brexit, ma alla fine ha condotto questa politica. Non mi sembra del tutto favorevole a Trump, ma comunque almeno “in attesa” di capire meglio con chi schierarsi. Mentre il leader laburista (tipico appartenente alla “sinistra”, che ha la leadership del servilismo europeo) è dalla parte del vecchio establishment americano e quindi dei suoi servi europei. I centri trumpiani hanno dimostrato ancora un volta la loro necessità di effettuare una politica a zigzag (di larga imprevedibilità) per scompigliare il fronte avversario, per il momento ancora più forte nei vari centri di potere (con bipartitismo; basta vedere quanti repubblicani antitrumpiani ci sono). Situazione in aperto movimento, fase storica sempre più “in transizione”. Che vogliono fare i “nostri” sovranisti? Discutere di leggi elettorali per avere qualche seggio in Parlamento?