PER UNA NUOVA TEORIA DEL CAPITALISMO

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Dal capitalismo al comunismo: il determinismo storico-economico della teoria marxiana
Nella sua analisi della società capitalistica, Marx si servì di una scienza relativamente recente qual era per l’appunto l’economia politica (“l’economia politica è l’anatomia della società civile”) al fine spiegare i mutamenti epocali che il modo di produzione (capitalistico) aveva imposto al mondo precedente, sovvertendone così forme economiche e sovrastrutture ideologiche. Marx era interessato a comprendere il funzionamento logico della dinamica capitalistica e la conseguente strutturazione dei rapporti sociali che da questa derivava.
Il pensatore di Treviri aveva avuto il privilegio di trovarsi in una fase storica di “compimento” (in Inghilterra la rivoluzione industriale era pressoché terminata), con i vecchi rapporti sociali feudali ormai pienamente dissoltisi sotto la schiacciante superiorità “razionalizzatrice” del capitalismo. Questa superiorità, che è soprattutto un passaggio epocale tra “forme di produzione”, si era espressa dapprima con la sussunzione formale (manifattura) e poi con quella reale (macchinofattura, industria) del lavoro artigiano (professionalizzato) sotto il comando capitalistico.
Ma come era avvenuto questo avvicendamento tra forme di produzione? E sotto la spinta di quali forze sociali? La deduzione marxiana delle forme economiche e sociali capitalistiche parte da un’ipotesi teorica che ha lo scopo di fissare, in un punto dello scorrimento temporale, il “cominciamento” (e le potenzialità) della nuova società: secondo Marx in un qualche luogo il capitalista era divenuto “possessore di denaro mediante una qualche accumulazione originaria non dipendente da lavoro altrui non retribuito potendo entrare nel mercato come acquirente di forza lavoro”. Marx deve pertanto momentaneamente astrarre del fatto compiuto (il modo di produzione capitalistico già dominante) per fissarne il suo fondamento storico (un’accumulazione di denaro non ancora capitalistica, nel senso di non direttamente dipendente dall’estorsione di pluslavoro e, dunque di plusvalore, nel processo di produzione): “L’accumulazione del Capitale presuppone il plusvalore, e il plusvalore presuppone la produzione capitalistica, e questa a sua volta presuppone la presenza di masse di capitale e di forza-lavoro di una considerevole entità in mano ai produttori di merci. Tutto questo movimento sembra quindi aggirarsi in un circolo vizioso dal quale riusciamo ad uscire soltanto supponendo un’accumulazione originaria precedente l’accumulazione capitalistica”. Appena “il fondamento storico della produzione specificatamente capitalistica” viene definito non ha più importanza indagare come questa stessa forma sia nata.
Dapprima, dunque, il capitalismo si era innestato “clandestinamente” sulle strutture della vecchia società, vivendo negli interstizi delle forme sociali feudali. Ad esempio, è indubitabile che un mercato di un “certo tipo” esistesse già durante il periodo feudale, ma si trattava di un “luogo” secondario dove veniva portato il sovrappiù della produzione contadina, e dove questi prodotti venivano scambiati con i prodotti artigiani, frutto di un lavoro altrettanto individuale (non parcellizzato e, nella continuità delle sue fasi, ancora in capo ad un unico soggetto, il mastro artigiano), eseguito con mezzi di lavoro che erano nella diretta disponibilità di tali produttori. Insomma, la produzione non era affatto indirizzata al mercato, ma “occasionalmente” nel mercato si smaltiva questo sovrappiù di beni. Sarà proprio in questa società di produttori individuali che inizierà ad emergere il nuovo modo di produzione – con diversa divisione del lavoro organizzata sulla base di un piano – dal quale esiteranno prodotti più a buon mercato rispetto a quelli rinvenienti dalla produzione feudale. La produzione feudale individuale non poteva che soccombere di fronte alla potenza sociale del capitale e alla razionalità organizzativa da questo introdotta.
Tuttavia, questo “passaggio” fu tutt’altro che indolore, non bastava certo la superiorità “tecnica” della produzione e la maggiore competitività delle manifatture per distruggere la società feudale. Abbiamo già detto che il mercato era un’istituzione accessoria della vecchia società (come lo era il lavoro salariato). L’accresciuto potere della borghesia, nella forma del possesso di ingenti somme di denaro, diveniva mezzo di contrattazione per ottenere dai Signori l’adozione di provvedimenti politici sempre più favorevoli alla proprietà privata. La nascente economia capitalistica andrà
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affermandosi certo secondo la sua “superiorità produttiva”, ma grazie ad un indirizzo politico terroristico: “La popolazione rurale espropriata con la forza, cacciata dalla sua terra, e resa vagabonda veniva spinta con leggi tra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di marchio a fuoco, di torture a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato”. (Marx, Il Capitale). I contadini furono scacciati dalle terre sulle quali avevano lavorato per secoli, ingenti masse di uomini vennero violentemente staccati con la forza dai loro mezzi di sostentamento e sospinti a vendere l’unica cosa che ancora possedevano, la forza-lavoro. La classe dei Signori, quella emersa dalle innumerevoli guerre feudali, non disdegnava affatto il denaro e preferiva utilizzare le proprie terre come campi da pascolo per rifornire manifatture laniere o per impiantare essa stessa degli stabilimenti. Nelle città, invece, la lotta si sviluppava tra corporazioni e capitale mercantile “l’unica forma libera di capitale” all’epoca operante. La corporazione era disposta a scindersi in sottospecie, laddove aumentava la divisione sociale del lavoro, ma non era assolutamente disponibile ad agglomerare più mestieri in uno stesso luogo fisico (come accadrà con le prime manifatture capitalistiche) né tanto meno era disposta a vendere il lavoro come merce. Per tale ragione erano stati addirittura imposti limiti al numero totale di garzoni che un maestro poteva tenere presso di sé.
Come si può ben comprendere, se i rapporti di forza (tra capitale mercantile e sistema feudale-corporativo) non si fossero sbilanciati “in qualche momento ed in qualche punto” il sistema feudale non sarebbe mai crollato (o, per lo meno, non per le cause per le quali si dissolverà in seguito). Del resto, una volta poste le premesse per il suo sviluppo la produzione capitalistica spezzerà ogni resistenza, come dice lo stesso Marx: “Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale ad un polo e che dall’altro lato si presentino uomini che non hanno altro da vendere se non la propria forza lavoro. […] Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione”.
Il punto di rottura e di non ritorno era, comunque, sopraggiunto con la separazione forzata del lavoratore dai suoi mezzi di produzione (e con un atto generale di espropriazione della società), era “la chioccia che perdeva il suo guscio”.
La novità sostanziantesi nel passaggio epocale dal lavoro artigiano all’opificio manifatturiero e, successivamente, alla macchinofattura, appariva ammantata da una fitta rete di scambi mercantili. In questi scambi veniva ingoiata tutta la struttura sociale tanto che persino la forza-lavoro era costretta a fare i conti con la nuova situazione dovendo recarsi “spontaneamente” al mercato per impiegarsi. Questo movimento “spontaneo” della forza produttiva non si era determinato naturalmente, le prime manifatture erano andate letteralmente all’inseguimento degli operai nei loro spostamenti emigratori e immigratori. Da questo punto di vista la manifattura si rivela “inconcludente” nel senso che non riesce a risolvere le contraddizioni della sua base tecnica rispetto alle potenzialità produttive ch’essa stessa stava determinando. E’ vero che si trattava di un’ “opera d’arte economica” in confronto a quella artigiana-urbana e rurale-domestica, ma non era ancora in grado di ricomporre l’insubordinazione operaia ad un principio automatico-impersonale. Nella manifattura l’attività artigiana è ancora “principio regolatore” della produzione sociale (basti pensare che per lavori di particolare abilità le law of apprenticeship impongono, in Inghilterra, un apprendistato di sette anni). Sarà solo con l’introduzione del macchinario e con l’arrivo della grande industria che il principio regolatore muterà sostanza e sarà direttamente scaturente dal modo di produzione capitalistico. Il lavoro che diventa merce e l’introduzione sistematica del macchinario sono, dunque, per Marx la “fessura” attraverso la quale agisce e si generalizza la produzione specificatamente capitalistica, da allora in poi tutta la società diverrà una grande accumulazione di merci.
La differenza tra i precedenti modi di produzione e quello capitalistico è insita nel fatto che i beni soggiacenti alla compravendita mercantile sono già immediatamente prodotti per il mercato. Viene meno quella “occasionalità” tipica del feudalesimo per cui è solo il sovraprodotto che finisce sul mercato. Ovvero, la divisione sociale capitalistica del lavoro “rende il lavoro tanto unilaterale
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quanto ha reso molteplici i suoi bisogni e proprio per questo il suo prodotto gli serve come valore di scambio” (Marx). Si comprende, dunque, che la forma-merce è specifica del modo di produzione capitalistico, questa deriva direttamente dalla forma del rapporto sociale da questo innescato e dalla supremazia del valore di scambio su quello d’uso. Infine il modo di produzione capitalistico diviene predominante permeando di sè tutta la struttura sociale sottostante, ed anche laddove permangono sacche di resistenza (zone dove vigono modi di produzione di epoche precedenti) queste vengono vieppiù marginalizzate fino ad essere assorbite o spazzate completamente via.
Come abbiamo già detto, i primi capitalisti avevano trovato in forma esistente il lavoro salariato e il mercato come “eccezioni” del sistema precedente, ma sotto l’impulso della razionalizzazione produttiva derivante dalla concentrazione della manodopera nelle manifatture (in seguito all’espropriazione dei mezzi di produzione) l’eccezione e l’accessorietà diverranno la regola della nuova forma produttiva. Il precipitato storico di questo lungo processo di decomposizione delle strutture feudali, al quale corrisponde l’affermazione del modo di produzione capitalistico, porterà altresì alla formazione di un diverso tipo di mercato, “di un diaframma direttamente frapponentesi tra gli individui produttori” (La Grassa). Proprio perché quest’ultimi sono separati nel processo di produzione, si rende necessario uno spazio di socializzazione dei lavori privati. Sul mercato si incontrano, non direttamente tali individui, ma le merci depositarie di tali lavori privati, cosicché si compie la “formula magica” della merce: il termine intermedio del rapporto si libera dei soggetti che operano tale mediazione per apparire esso stesso soggetto dell’azione, il regno della cosalità si sostituisce a quello delle persone.
Sarà dall’analisi di questa prima contraddizione tra organizzazione razionale della produzione e anarchia dei mercati che il marxismo deriverà l’inevitabile caduta del modo di produzione capitalistico. Più i capitalisti perfezionavano l’organizzazione della produzione, in quanto produzione sociale, più aumentava l’anarchia della competizione intercapitalistica, intesa come appropriazione privata dei prodotti del lavoro(socializzato). Più i mercati si espandevano più si determinava uno iato con il mondo della produzione, il carattere sociale di quest’ultima si scontrava con l’anarchia dei primi; alla fine, nel manifestarsi di crisi sempre più incipienti, sarebbero esplose tutte le contraddizioni del capitalismo: la produzione non poteva andare di pari passo con l’accumulazione delle merci sul mercato. Come dirà anche Engels: “la collisione economica raggiunge il suo punto culminante: il modo della produzione si ribella contro il modo dello scambio”. Dunque, dalla mancata valorizzazione del capitale, con le crisi economiche che ne seguono, si verifica una ristrutturazione interna del modo di produzione stesso. I capitalisti sono costretti a prendere atto del carattere sociale delle forze produttive e ad agire attraverso una superiore coordinazione, restando pur sempre sul piano dei rapporti capitalistici. La risposta del capitale a tale impasse è la società per azioni, il luogo dove si realizza una prima forma di socializzazione dei grandi mezzi di produzione. Tuttavia, nemmeno questa soluzione è sufficiente a frenare le contraddizioni, tanto che i capitalisti sono costretti a riunirsi in grandi trusts per arginare lo scarto producentesi tra produzione e scambio. Ma quando la crisi si affaccia anche su quest’ulteriore forma di “contenimento”, i trusts sono costretti a spingersi verso una forma ancor più concentrata di socializzazione: l’industria stessa deve divenire un’unica grande società per azioni, si forma un monopolio unico nazionale che controlla direttamente la vita sociale degli individui mettendo allo scoperto il carattere dello sfruttamento, fino a renderlo intollerabile agli occhi del proletariato. All’apice di questo processo, lo Stato sarà costretto a prendere in mano la situazione, dapprima con il controllo dei più importanti settori strategici delle comunicazioni (strade, ferrovie, telegrafi) e poi, in rappresentanza della classe borghese, di tutta la produzione sociale. A questo punto però sarà la stessa borghesia a divenire pleonastica poiché tutto il lavoro produttivo sarà passato nelle mani di impiegati salariati; i capitalisti, posti fuori dalle “beghe” della produzione, si limiteranno a tagliar cedole, intascar rendite e giocare in borsa per rapinare i propri simili. Qui il determinismo dell’analisi marxian-engelsiana si fa parossistico, il rapporto capitalistico, crisi dopo crisi, si sgretola sotto le sue stesse contraddizioni fino a snaturare la base sulla quale si era da sempre fondato.
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Il capitalismo portando le sue contraddizioni all’estremo genererà non semplicemente il suo crollo, ma il terreno su cui s’innesteranno superiori rapporti sociali, quelli della futura società comunista. Questo passaggio avviene in forma naturale, per stadi successivi quanto inevitabili: è l’“autodistruttività endogena” del Capitale che porta con sé, in fieri, la base della nuova società dei produttori liberamente associati. Dicevamo, tutto avviene sotto l’apparenza di un processo “naturale”, la risoluzione delle contraddizioni ricercata dai capitalisti spinge i mezzi di produzione, sempre più concentrati, nelle mani dello Stato favorendo la presa del potere da parte del proletariato; a quest’ultimo non resta che assaltare lo Stato medesimo per impadronirsi delle condizioni della produzione. Il proletariato che conquista lo Stato sopprime sé stesso come classe, ma la sua soppressione è contemporaneamente quella di tutte le classi sociali e con la dissoluzione del mondo borghese viene meno “l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale”. Questo processo oggettivo che sgorga dalle contraddizioni del modo di produzione capitalistico pone le basi della futura società comunista, il compito specifico del proletariato è quello di prendere coscienza della sua missione storica, delle condizioni e della natura della propria azione, perché “le forze socialmente attive agiscono in modo assolutamente uguale alle forze naturali: in maniera cieca, violenta, distruttiva, sino a quando non le riconosciamo e non facciamo i conti con esse” (Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza).
Purtroppo sappiamo bene che le cose sono andate diversamente e nel prossimo paragrafo cercheremo di descrivere più dettagliatamente la natura di questi errori teorici.
I principali errori della teoria marxiana e la deriva del marxismo della tradizione
Ci rendiamo conto di aver sintetizzato in maniera eccessiva la teoria marxiana delle contraddizioni capitalistiche, addirittura partendo dall’accumulazione originaria, ma lo spazio concesso in un articolo come questo non permette di spingersi oltre. Vorremmo però, a questo punto, concentraci su quelli che ci appaiono essere gli errori fondamentali dell’ipotesi scientifica marxiana. In primo luogo, il determinismo con il quale Marx definisce la formazione economico-sociale (quella capitalistica) quale “ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale”. Da questa affermazione doveva derivarne, con il formarsi del proletariato moderno nel seno della società capitalistica e con l’azione emancipatoria da questo espressa, la fine della società divisa in classi: “con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana” (Marx, Il Capitale). Nell’ambito di questo processo oggettivo, avente i crismi della “naturalità”, prende forma il soggetto affossatore del capitalismo (il lavoratore collettivo cooperativo associato), e si pongono, al contempo, le premesse per la nascita di una superiore forma di organizzazione sociale, non più basata sullo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Come però avremmo dovuto imparare dalla storia di questi ultimi due secoli e più, il capitalismo è spesso uscito rafforzato/trasformato dalle sue crisi (che agli occhi di molti marxisti dovevano apparire sempre come ultime e definitive) mentre all’interno della produzione non si è verificata quella convergenza tra tecnici-ingegneri e giornalieri (anzi si è assistito ad una frammentazione vieppiù crescente del processo lavorativo con stratificazione incipiente in termini di ruoli, funzioni, differenziali di sapere e di reddito) che Marx aveva sintetizzato con l’espressione inglese di General Intellect. La contraddizione principale, dalla quale Marx derivava la necessaria fine del capitalismo, restava quella tra potenza sociale della produzione e meccanismi di appropriazione privata del plusprodotto (tramite l’appropriazione del pluslavoro dei dominati, nella forma del plusvalore). La formazione del lavoratore collettivo, e non la classe operaia di fabbrica come qualcuno ebbe a pensare, avrebbe dato la spallata decisiva alla formazione sociale capitalistica finalmente svelata nella sua natura sfruttatrice (gli espropriatori, ridotti ad un grappolo di parassiti rentiers, potevano essere così espropriati).
Nonostante questi errori di previsione si deve, però, riconoscere a Marx la grandezza del disvelamento dello sfruttamento capitalistico secondo precise direttive scientifiche, come sostiene La Grassa nel suo A partire da Marx, non seguendo Marx: “L’aver chiarito come, sotto l’apparenza, dello scambio di equivalenti (base ideologica della sostenuta uguaglianza di tutti i cittadini) si celi
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lo sfruttamento in quanto estorsione di un pluslavoro (in forma di plusvalore) di cui si appropriano i dominanti specifici di questa “storicamente determinata” forma di società, è merito decisivo ed imperituro della scienza marxiana. Aver previsto i forti movimenti di centralizzazione (monopolistica dei capitali), e la crescente finanziarizzazione degli stessi è un altro suo indiscusso punto di forza”. Certo è che Marx, nonostante la genialità della sua analisi, resta in tutto un uomo del suo tempo e dovendo lavorare con il materiale che aveva a disposizione, per quanto opportunamente rielaborato grazie all’inforcamento di lenti teoriche efficacissime, non avrebbe mai potuto cogliere in toto gli sviluppi ai quali la dinamica capitalistica avrebbe dato la stura. Probabilmente, il finalismo marxiano è derivato dall’aver voluto conchiudere la dinamica sociale capitalistica nella teoria del valore-lavoro, fornendo una soluzione economicistica ad una contraddizione ben più vasta che non poteva essere ridotta al mero sceveramento dei metodi della estorsione del pluslvalore (con le aporie logiche che ne sono seguite). Ma se queste inesattezze sono scusabili, date le caratteristiche del capitalismo ai tempi di Marx, diviene più difficile autorizzare la reiterazione degli stessi errori da parte di tutto il marxismo successivo. La canonizzazione del pensiero di Marx in una vera e propria dottrina iniziò già alla sua morte, prima con Engels e poi con Karl Kautsky1. Il “Papa Rosso” fu responsabile della riduzione del marxismo ad economicismo ma soprattutto, ed è questo l’aspetto più grave, favorì una brusca virata rispetto alla teoria di Marx circa il soggetto della “trasformazione sociale”. Se Marx aveva parlato di lavoratore collettivo cooperativo associato contro le forze parassitarie del capitale finanziario e cedolare, Kautsky riposizionerà il soggetto entro uno spazio ben più angusto. Dato che non si vedeva il formarsi di alcun lavoratore collettivo si ripiegò sulla classe operaia di fabbrica. La committenza politica e sociale della classe operaia tedesca “organizzata in un partito ed in sindacati professionali” (Preve) veniva soddisfatta, mentre l’ipotesi scientifica di Marx prendeva una strada del tutto inaspettata, il solo battito d’ali del fraintendimento iniziale (la classe operaia al posto del lavoratore collettivo) genererà un vero e proprio tifone teorico.
Dopo questa distorsione ne seguirono tante altre a catena; benché si parlasse di trasformazione sociale e di soggetto portatore di una nuova coscienza rivoluzionaria, la dottrina kautskyana estremizzò il determinismo marxiano portando all’accettazione (in virtù di una fantomatica predestinazione finale che avrebbe, in ogni caso, dato il potere al proletariato) di obbrobri indicibili come la guerra imperialista (I guerra mondiale), con i proletari mandati a scannarsi per sostenere le mire espansionistiche delle proprie borghesie nazionali.
In realtà, il problema non stava affatto in questi termini e il primo che riuscì a capirlo, nonostante non giunse mai a sconfessare la teoria kautskyana della formazione del grande trust mondiale e del superimperialismo, fu Lenin. Nel contesto della prima guerra mondiale, con il massacro organizzato dalle grandi borghesie imperialiste a danno della classe operaia europea, Lenin affrontò il problema della non rivoluzionarietà della classe subordinata. Quest’ultima lasciata a sé stessa era in grado di produrre una mera coscienza tradunionistica di compensazione dei livelli retributivi, ma non era affatto in grado di proporsi quale classe intermodale di passaggio da una formazione sociale all’altra. Così doveva essere compito del partito, dell’avanguardia rivoluzionaria, cementare alleanze più vaste al fine dell’abbattimento e del rivoluzionamento dei rapporti di produzione capitalistici. Con questa mossa veniva limitato l’economicismo deterministico del marxismo
1 Per una definizione esaustiva della sistematizzione del marxismo in “ismo” si consiglia la lettura del saggio di Costanzo Preve, Storia Critica del Marxismo Ed. La Città del Sole, Napoli 2007. In questo saggio Preve suddivide la storia del marxismo in tre grandi epoche, la prima chiamata del proto-marxismo principiante con la fondazione del partito socialdemocratico tedesco (1875) e la morte di Engels (1895). In questa epoca il marxismo, sulla scorta dell’ascesa della classe operaia tedesca, diverrà una vera e propria dottrina economicistica che Preve definisce “una variante utilitaristica di sinistra”. Le seconda epoca, l’età della costruzione o medio-marxista, invece, coincide nella periodizzazione previana, con gli anni che vanno dal 1914 (scoppio della prima guerra mondiale) al 1956 (morte di Stalin). Infine la cosiddetta epoca della dissoluzione (1956-1991) o tardo-marxista il cui epilogo coincide con la dissoluzione dell’URSS.
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tradizionale, il quale aveva visto nella contraddizione Capitale/Lavoro il punto di rottura degli schemi della ri/produzione capitalistica. Nell’ambito di tale contraddizione si produceva esclusivamente una lotta redistributiva, finalizzata a migliorare le condizioni di vita della classe operaia (che non metteva affatto in discussione le basi capitalistiche della società), peraltro solo laddove i rapporti di forza lo consentivano; al contrario, si poteva assistere ad un peggioramento generalizzato di quelle condizioni (con incremento dei ritmi lavorativi ed estorsione di maggiore pluslavoro) qualora la reazione capitalistica fosse stata più forte della compattezza tradunionistica. In secondo luogo Lenin, pur condividendo la tendenza descritta da Kautsky sul Trust unico mondiale ritenne che, in verità, questo non sarebbe riuscito a formarsi a causa dell’inasprimento delle condizioni sociali e del conflitto interimperialistico che avrebbero portato alla rivoluzione proletaria ben prima della sua stessa formazione.
Una diversa prospettiva teorica
Se è vero, come abbiamo sin qui esposto, che non esiste alcuna tendenza intrinseca del capitalismo ad implodere sotto il peso di endogene contraddizioni crescenti, e se nessun soggetto collettivo cooperativo si forma nelle sue viscere, occorre un necessario ri-orientamento dell’analisi critica al fine di studiare al meglio, inforcando nuove lenti teoriche, il movimento del capitale e le strutture sulle quali questo si fonda. Abbiamo detto che per Marx la contraddizione Capitale/Lavoro avrebbe condotto ad una polarizzazione sociale fortissima con la formazione del General Intellect da una parte, e quella di un pugno di rentiers proprietari, dall’altra. Le forze sociali ormai pienamente coscienti del proprio ruolo avrebbero fatto a meno di una proprietà sempre più distante dai problemi della produzione, gli espropriatori sarebbero stati espropriati nel nome di una superiore organizzazione sociale a base collettiva. Nel momento in cui questo non avviene perché il capitalismo è sempre in grado di andare oltre le sue crisi (contraddizioni), che sono il motore delle sue trasformazioni, viene meno anche lo schema deterministico (economico e storico) con il quale i marxisti avevano perorato l’avvento inevitabile della futura società comunista.
Da qui in avanti seguiremo l’ipotesi teorica lagrassiana per sintetizzare i mutamenti (delle vere e proprie rotture che agiscono sugli stessi fondamenti sistemici) avvenuti nell’ambito della formazione sociale capitalistica, per tentare di sbrogliare “al pensiero” il funzionamento della sua dinamica di sviluppo. La Grassa opera un vero e proprio “riorientamento gestaltico” spostando l’indagine sul capitalismo dal conflitto Capitale/Lavoro al Conflitto Strategico Interdominanti (CSI).
Innanzitutto, si tratta di rimettere in discussione “la concezione secondo cui è la proprietà dei mezzi di produzione, o il potere di disporre, dei mezzi di produzione [ … ] il nucleo attorno a cui costruire il concetto di formazione sociale capitalistica” (La Grassa, Il Capitalismo oggi). Il riferimento alla proprietà può essere determinato giuridicamente, in quanto titolo di disposizione sui mezzi (di produzione) ricadente su alcuni individui o gruppi di individui, così come garantito dalla legge e sanzionato dallo Stato (proprietà privata), oppure, nel caso della proprietà pubblica, come potere della collettività sui mezzi da questo detenuti. In realtà, la disposizione di tali mezzi passa per il controllo degli apparati statali (e la collocazione ai vertici di tali apparati) da parte di agenti dominanti che si muovono appunto in tale sfera. Ciò significa che, dietro la coltre ideologica del contemperamento degli interessi collettivi (la quale fa apparire lo Stato come un tutto organico), si scatena una lotta per il controllo dei mezzi e delle risorse che ha davvero poco a che fare con il bene della collettività. Ma per ora tralasciamo quest’ultimo punto che sarà affrontato più dettagliatamente quando parleremo della sfera politica nell’ambito del conflitto strategico.
Dunque, quello che davvero è importante, sia quando ci si riferisce alla proprietà privata che a quella pubblica, non è il possesso diretto di questi mezzi ma la capacità di metterli in attività, di combinarli efficacemente per uno scopo e di agire strategicamente per mantenerne il controllo (o accrescerlo) della sfera sociale nella quale ci si trova ad operare. Nelle imprese agiscono gruppi di comando che, benché non direttamente proprietari dei mezzi di produzione (si pensi al top
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management negli Usa), stabiliscono le strategie più adatte (produttive, mercantili, finanziarie ecc.) a condurre la “guerra” contro altri agenti strategici similari. Questi gruppi non si interessano di problemi tecnico-produttivi ma orientano l’azione dell’impresa verso l’ambiente esterno, dove si sviluppa il conflitto tra agenti strategici per il controllo delle risorse e per la conquista di sempre maggiori quote di mercato (e aree d’influenza). Questa lotta può assumere un carattere cruento, altre volte può essere più blanda, o ancora, può essere indirizzata alla creazione di alleanze (mai definitive); più spesso l’obiettivo degli agenti strategici capitalistici è quello di primeggiare e di eliminare gli avversari dal proprio campo d’azione. Certo, anche il settore tecnico-produttivo (quello dove operano gli “specialisti” della produzione, i tecnici, gli ingegneri ecc) dell’impresa è importante, nel senso che questo, attraverso l’uso delle tecnologie più efficienti, la razionalizzazione dei processi di lavoro, il perfezionamento di alcuni prodotti o la creazione di nuovi output, fornisce al gruppo di comando dell’impresa le risorse atte a portare avanti le proprie strategie conflittuali. Ciò mette in evidenza il fatto che nell’impresa operano due diversi tipi di razionalità. I marxisti, ma anche gli economisti “sistemici”, hanno sempre pensato che ruolo precipuo dell’impresa (nella sua riduzione a fabbrica) fosse quello di garantire la migliore combinazione dei fattori produttivi (capitale e lavoro) al fine di produrre, con le risorse a disposizione, il massimo possibile. Questa razionalità del minimax agisce, senza ombra di dubbio, dal lato tecnico produttivo, essendo la stella polare che orienta l’azione dello “strato” che si occupa degli esiti della produzione e nella quale sono implicati (in maniera subordinata) anche i lavoratori (più e meno qualificati). Già questo mette in evidenza che il gruppo dei tecnici e degli ingegneri, deputati agli indirizzi produttivi, è direttamente collegato al comando del management strategico, dal quale riceve precisi input che devono essere convertiti lunga tutta la catena dell’impresa (in termini di riorganizzazioni processuali con impiego di tecnologie sempre più avanzate, ma anche al fine della realizzazione di nuovi output) per aumentare la produttività del lavoro. I lavoratori subordinati, meri esecutori degli ordini provenienti dal settore tecnico-ingegneristico, non hanno alcuna possibilità di intervenire su questi processi poiché sono inseriti in attività lavorative fortemente parcellizzate o direttamente guidate dalla combinazione “macchinica”. La conoscenza globale del processo produttivo (i c.d. saperi produttivi), dal lato tecnico, è prerogativa degli specialisti della produzione, almeno per quel che concerne intere sezioni o dipartimenti nei quali l’impresa è scorporata, peraltro, questo sapere non è uniforme e si ripartisce, a sua volta, tra i vari specialisti che dirigono tecnicamente i diversi settori aziendali. Anzi, contrariamente a quanto affermava il marxismo economicistico, il sapere all’interno della produzione non tende ad omogeneizzarsi e a diffondersi capillarmente lungo la catena dei profili lavorativi, “lo specialismo” tende, invece, a moltiplicarsi con una progressione geometrica.
La razionalità strategica, al contrario, è prerogativa esclusiva del gruppo di comando che guida le imprese (non importa se direttamente proprietario o meno dei mezzi di produzione), il quale gestisce il coordinamento tra le varie parti (dipartimenti) ed orienta le risorse esitate dal lavoro sottostante nella lotta per la preminenza nell’ambiente “esterno”. Questo ambiente esterno non coincide semplicemente col mercato ma è qualcosa di molto più complesso che comprende anche la politica e le influenze ideologiche. Il mercato stesso non è il luogo che comincia dove finisce l’impresa o, più scarnamente, quello dove le imprese si scontrano per vendere i loro prodotti (senz’altro anche questo). Il mercato è direttamente nell’impresa così come l’impresa è immersa nel mercato: “nelle relazioni tra le sue varie parti (sezioni, dipartimenti, divisioni) che sono di tipo sia più propriamente gerarchico sia caratterizzate da determinate forme di decentramento e flessibilizzazione dell’organizzazione intera; per cui quest’ultima si basa su ordini imperativi, sul coordinamento imposto dall’alto verso il basso, ma anche su rapporti interimprenditoriali [ … ]”. Come si può ben capire, La Grassa sposta completamente il fulcro dell’analisi dalla fabbrica – intesa come organismo unitario che si limita a trasformare dati input in dati output secondo la combinazione dei fattori produttivi e i metodi del plusvalore (in primis “relativo”) – all’impresa, che è invece “un aggregato, internamente coordinato dal gruppo di comando, di entità produttive, disposte generalmente su linee collaterali, ma che nel loro complesso configurano una piramide
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gerarchica di funzioni e ruoli sociali.” (La Grassa, Microcosmo del dominio). Se ne deduce, secondo la disamina lagrassiana che, in difformità a quanto sosteneva Engels, non si raggiunge affatto il punto in cui il modo della produzione (sempre più sociale) si ribella contro il modo dello scambio (sempre più anarchico). Inoltre, non si vede da nessuna parte quell’alleanza all’interno del processo di produzione tra ingegneri e giornalieri che avrebbe dovuto dar vita al soggetto della trasformazione sociale, il lavoratore collettivo cooperativo associato pienamente consapevole del proprio ruolo. Né, tanto meno, viene a crearsi, in alto, quella “classe cedolare” proprietaria completamente distratta dai giochi di borsa.
Il gruppo di comando strategico agisce anche dal lato produttivo, questo deve “saper costruire l’ambiente di coordinazione sinergica in grado di favorire l’innovazione, oltre a dover procurare i mezzi finanziari per la stessa e per la sua effettiva immissione nel processo produttivo” (La Grassa, Microcosmo del Dominio).
Quanto appena sostenuto pone in evidenza un’altra questione, la direzione politico-strategica delle imprese deve aver un collegamento con il settore finanziario (e con gli agenti strategici della finanza). La direzione strategica-imprenditoriale deve poter disporre di una massa di fondi liquidi da utilizzare per i propri “spostamenti” nella direzione dei nuovi mercati o per consolidare il proprio potere attraverso gli apparati massmediatici o, ancora, per stringere particolari relazioni con gli agenti strategici operanti nella sfera statale.
Vorrei qui riportare un esempio pratico che può aiutare a comprendere quanto appena sostenuto. Prendiamo in considerazione una delle più grandi imprese italiane qual è la Fiat. Tutti sanno bene a quali difficoltà questa azienda sia andata in contro negli ultimi anni. La Fiat aveva sempre avuto un rapporto privilegiato con lo Stato tanto che ne aveva indirizzato gli investimenti dal lato infrastrutturale: per vendere più macchine l’impresa della famiglia Agnelli necessitava di una migliore accessibilità logistica (strade, ponti, apertura di nuove vie di comunicazione, maggiore viabilità). Quando la Fiat si trovava invischiata in congiunture economiche sfavorevoli lo Stato interveniva prontamente con interventi di sostegno economico al fine di arginare (questo è quello che si sosteneva) la minaccia di licenziamenti massicci che costituivano, per il ceto politico al potere, una pericolosa fonte di disordini sociali. Oggi questi aiuti sono del tutto ingiustificati, sia perché la Fiat opera in un settore della precedente rivoluzione industriale che non necessita del protezionismo statale per rafforzarsi (diverso è il caso dei nuovi settori dove può essere utile proteggere una nascente impresa nazionale rispetto a concorrenti stranieri più aggressivi e tecnologicamente avanzati), sia perché il suo gruppo di comando agisce drenando le risorse pubbliche per sopperire ad un’ incapacità strategica di “movimento” che la rende poco competitiva sul mercato (all’interno del sistema-paese questa continua però a godere di una rendita di “posizione” politica). Nell’ultima crisi alla quale la Fiat è andata incontro, (quella che sembrava definitiva tanto che era stata prospettata la vendita agli americani della GM) il gruppo dirigente dell’azienda torinese non pensò mai di fare cassa liberandosi delle partecipazioni nel gruppo editoriale RCS (il quale, a sua volta, controlla il più diffuso quotidiano italiano). In questo “salotto” siedono i principali gruppi capitalistici nostrani (sia industriali che finanziari); si tratta di un vero comitato d’affari degli agenti strategici italiani dove vengono prese gran parte delle decisioni di politica economica del nostro paese, attraverso “diktat” ai quali sono sensibilissimi anche gli agenti politici operanti nella sfera statale (vedi la dichiarazione del direttore del CdS Mieli in favore di Prodi durante l’ultima campagna elettorale). Dicevamo, per quanto la Fiat stesse per dismettere il suo pacchetto di controllo del settore auto, a causa di una crisi realizzativa apparentemente senza via d’uscita, continuò a mantenere saldamente nelle sue mani la partecipazione nella RCS. Da qui lanciò i suoi messaggi a tutto il mondo politico e ridestò l’attenzione dell’opinione pubblica su un bene nazionale (chissà perché nella difficoltà divengono tutti ultrapatriottici) che non poteva essere svenduto agli stranieri. Ne seguì, anche grazie ad un vero colpo di fortuna (con la GM costretta a pagare una penale elevatissima all’impresa di Montezemolo), un ulteriore iniezione di aiuti statali (ai quali si sono ultimamente aggiunte altre misure come il cuneo fiscale, la mobilità lunga e la rottamazione). Questo per sottolineare come il gruppo di comando strategico di un’impresa deve
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essere in grado di agire su più fronti, da quelli finanziari a quelli politici, fino alla compenetrazione nella sfera ideologico-mediatica dove si crea il consenso e si plasma la pubblica opinione. Possiamo fare ancora un altro esempio a sostegno della nostra tesi. Chi non ricorda la recente disputa tra il gruppo Benetton e il Ministro delle infrastrutture Di Pietro per il tentativo (ad oggi non realizzatosi) di vendere agli spagnoli di Abertis la gestione della rete autostradale italiana? In questo caso la difesa dell’italianità (mai come in questo frangente l’ultimo rifugio delle canaglie) è stata invocata dal Governo. In realtà la colpa principale dei Benetton è stata quella di essersi sottratti all’asseverazione del ceto politico, agendo in un momento di vacatio governativa (il governo Prodi non si era ancora insediato quando i Benetton prendevano i primi contatti con gli spagnoli di Abertis) ed in contrasto con i gruppi economico-finanziari che sostengono il governo di centrosinistra. I Benetton hanno tentato di mediare entrando con un 5% nel gruppo RCS (il comitato d’affari della Grande Finanza e Industria Decotta italiana) ma la tenzone sembra ancora lontana dal giungere ad una composizione “pacifica”. Stessa situazione verificatasi con un’altra grande azienda di tlc, la Telecom, dove il tentativo di alcuni gruppi finanziari (SanIntesa in testa) di fare un “buon affare” ha portato allo scoperto la relazione esistente tra ceto politico di centro-sinistra, Grande Finanza Italiana e Grandissima Finanza americana (il piano Prodi-Rovati-Costamagna-TononiGoldman Sachs). La vicenda è ancora in pieno sviluppo e gli esiti appaiono quanto mai incerti (sorvoliamo, poi, sulla vicenda dei cosiddetti “furbetti del quartierino” per quanto abbiamo già scritto in altre sedi, vedere il blog www.ripensaremarx.splinder.com, soprattutto gli articoli di G. La Grassa).
Nel prossimo ed ultimo paragrafo cercheremo di sceverare più dettagliatamente come si esplicita l’azione strategica interdominanti nelle varie sfere sociali che per comodità espositiva divideremo in economica, politica e ideologico-culturale (senza alcuna pretesa di rispecchiamento della realtà).
Le sfere sociali del conflitto strategico
Vorrei ricordare che la società capitalistica è un “insieme”, e la ripartizione (la finzione teorico-esplicativa) in sfere sociali, che qui verrà utilizzata, serve solo a facilitare l’analisi. Per questo motivo non amiamo le definizioni totalizzanti da “cattivo infinito” (per dirla con le parole di Costanzo Preve) del tipo “capitalismo assoluto” o “Impero senza centro”. Quest’ultime sono “non definizioni” che fanno solo confusione ed impediscono il dipanamento della dinamica oggetto di studio (quella capitalistica), la cui analisi deve invece procedere per tappe (logiche) successive.
Qui accetto pertanto la scomposizione fatta da Gianfranco la Grassa tra sfera economica (produttiva e finanziaria), politica (con le sue propaggini militari) e ideologico-culturale; di queste tre sfere tenterò di dare un’epitome esaustiva per quanto limitata dallo spazio a disposizione.
La sfera economica. Con l’affermarsi del modo di produzione capitalistico la sfera economica è divenuta predominante, il conflitto interdominanti, dapprima eminentemente politico (per esempio, nei modi di produzione schiavistico e feudale), si trasferisce nell’economia e qui produce dei risultati del tutto imprevedibili. La sfera economica è sottoposta ad un profondo sconvolgimento ed ad una estrema frammentazione, con il formarsi di unità industriali separate (le imprese) in forte concorrenza tra loro. La divisione del lavoro accentua la moltiplicazione dei settori e delle branche produttive, il conflitto diviene il mezzo attraverso cui si effettua la sintesi sull’anarchia del mondo delle merci. Le imprese che agiscono nelle sfera economica tentano di conquistare sempre maggiori spazi di mercato eliminando i propri concorrenti. Per adempiere a questo compito le direzioni strategiche che guidano questi “corpi” economici devono sviluppare un’attività innovativa che moltiplica i settori merceologici e lo spazio (i mercati) dove si “gioca” la partita del conflitto. L’ingrandimento degli spazi di confronto/scontro tra le imprese (con la moltiplicazione dei mercati e, conseguentemente, delle produzioni) agisce sulla dimensione di queste ed al contempo favorisce l’entrata sul mercato di piccole e medie imprese le quali, seppur con più limitati margini di manovra ed in complementarietà con le prime, imprimono una ulteriore accelerazione alla dinamica capitalistica. Con l’ingrandimento di queste imprese (e la formazione degli oligopoli) si accentua il
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conflitto interimprenditoriale che tendenzialmente (ricorsivamente) conduce ad una fase più “monopoloide” senza produrre, tuttavia, quella burocratizzazione definitiva della grande impresa preconizzata tanto dal marxismo classico che da pensatori non marxisti (vedi Schumpeter). Ma il conflitto è il “motore immobile” della dinamica capitalistica ed ogni situazione di parziale dominanza (con un assestamento dei rapporti di forza) da parte di un impresa o di un gruppo di imprese è destinata a non durare a lungo; altri soggetti economici riusciranno a penetrare i mercati con innovazioni di processo e di prodotto che renderanno precario l’equilibrio della fase monopoloide (anche con spostamento delle risorse su nuovi mercati che rendono vetusti e meno profittevoli quelli precedenti). La società capitalistica attraversata dal conflitto va incontro a due conseguenze principali: in primo luogo, il formarsi di sempre nuovi mercati e il moltiplicarsi dei settori merceologici che divengono terreno di scontro tra imprese (a loro volta attraversate da processi di separazione sia all’interno che all’esterno, con il moltiplicarsi delle produzioni e l’esitazione di nuovi output che danno luogo ad ulteriori frammentazioni) dove la tendenza alla formazione dei monopoli è solo ricorsiva e mai definitiva. In secondo luogo, i differenziali di reddito e di saperi produttivi determinantesi nel processo produttivo si “scaricano” sulla stessa società. Quest’ultima, ben lungi dal polarizzarsi in due classi sociali (sfruttati e decisori) assume una forma tendenzialmente “a botte” con una base più larga – che può restringersi o espandersi a seconda delle congiunture economiche – e la parte superiore (gli agenti decisori) molto più stretta, nonostante possano cambiare le “facce” dei singoli capitalisti o gruppi di potere. La parte mediana (che non è semplicemente quella che sta nel mezzo ed è a sua volta fortemente differenziata al suo interno) è composta dai settori piccoli-imprenditoriali di tipo industriale, commerciale, delle attività di servizi, delle professioni ecc., che non sono affatto destinati ad essere ingoiati dal proletariato, come pensava il marxismo d’antan (né tanto meno si può dar adito alla fandonia per cui questi “ceti medi” vivrebbero della massa del plusvalore, della sua crescita esponenziale, sottratta ai cosiddetti lavoratori “produttivi”).
Marx ebbe a dire nel capitolo primo del Capitale, sua massima opera, che la società capitalistica si presenta “come un’immane raccolta di merci” perché tutti i lavori privati eseguiti nella produzione devono essere socializzati in punto “esterno”. Ancora Marx: “Gli oggetti d’uso diventano merci, in genere, soltanto perché sono prodotti di lavoro privati, eseguiti indipendentemente l’uno dall’altro”, “[ … ] Gli uomini equiparano l’un con l’altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l’uno con l’altro, come valori nello scambio, i loro prodotti eterogenei. [ … ] Ogni valore porta scritto in fronte quel che è”. Si comprende, allora, che la produzione capitalistica è necessariamente segnata dalla forma di merce e di valore. Siccome ogni merce porta impressa un’etichetta (il prezzo), ossia la forma di denaro delle merci stesse (“il prezzo è il nome di denaro del lavoro oggettivato nelle merci”, Marx Il Capitale), chi detiene il denaro ha il controllo della società. Tuttavia, non si deve pensare che il denaro sia un “fine”, nelle mani dei capitalisti esso è “solo” viatico per l’espansione e il consolidamento della propria egemonia. Nella società capitalistica la ricchezza accumulata in forma di merce e di denaro (e di mezzi finanziari in generale) consente agli agenti strategici (gli Strateghi del Capitale) di approntare le strategie conflittuali volte alla supremazia. Non c’è, comunque, coincidenza immediata tra volume di denaro impiegato e successo della strategia (certo chi ne possiede di più ha sempre più colpi in canna). Peraltro, non essendo il rapporto tra crescita della ricchezza reale (la produzione) e di quella monetaria (gestione finanziaria della liquidità) direttamente proporzionale, tra queste si crea uno iato che dà vita a due settori distinti i quali agiscono secondo finalità concomitanti ma con direzioni di “marcia” che s’intersecano solo in alcuni punti. Chi non ha mai sentito dire, per esempio, che in seguito alla dismissione di interi reparti o di settori produttivi (in outsourcing o come pura dismissione), il valore in borsa delle imprese è continuato comunque a salire? La finanza diviene, dunque, un settore a sé stante con attività imprenditoriali specifiche volte alla valorizzazione del denaro per mezzo del denaro (da D a D’). Attività imprenditoriali e attività finanziarie sono strettamente connesse, laddove l’impresa vuole crescere e fare investimenti deve rivolgersi alle
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banche, almeno per la parte che non può finanziare con i propri profitti. Anche gli agenti strategici finanziari sono parte del conflitto, si muovono al fine della supremazia sia contro altri agenti dello stesso settore sia tentando di controllare e indirizzare le imprese che operano nella produzione (economia reale). Per questo, in determinate congiunture, possono verificarsi grandi frizioni tra i due settori, fino al sopraggiungere di situazioni nelle quali la finanza fa il bello e il cattivo tempo, allontanandosi dalle esigenze più impellenti della cosiddetta economia reale. Basta guardare a quello che sta accadendo oggi in Italia, la Grande Finanza, legata a propria volta alla finanza del paese centrale (Usa) tenta uno scacco matto ai danni del paese alleandosi con una parte dell’Industria Decotta (quest’ultima in posizione subordinata alla prima) per il drenaggio delle risorse statali. GF e ID impediscono al Sistema-Italia di percorrere strade più virtuose, sia in termini di politica industriale che finanziaria; il tutto sotto lo stretto controllo del paese attualmente predominante il quale favorisce l’azione dissipatrice dei nostri gruppi di potere al solo fine di consolidare il proprio ordine egemonico.
La sfera politica. Parlare della sfera politica vuol dire innanzitutto affrontare il problema dello Stato. La descrizioni più usuali dello Stato tengono conto o della sua suddivisione in apparati e funzioni (repressiva, amministrativa ecc.) oppure della sua unitarietà tesa al contemperamento degli interessi generali della collettività. Nell’analisi marxista tradizionale lo Stato era il “comitato d’affari” della classe dominante, il luogo dove i “falsi fratelli” mediavano i propri interessi e ne operavano una superiore sintesi (ideologica) con quelli di tutte le altre classi sociali.
In realtà, se i conflitti principali avvengono tra agenti strategici (mentre quelli tra Capitale/Lavoro sono a questi subordinati) la stessa funzione statale deve essere guardata da altra prospettiva.
Il conflitto strategico genera tensione e tende alla frammentazione della società per cui si rende necessario un minimo governo dell’incertezza. Il tentativo di circoscrizione del conflitto da adito ad alleanze (per quanto provvisorie), alla calmierazione delle aspettative, all’allentamento dello scontro: tali “correzioni” momentanee si dissolvono repentinamente non appena i rapporti di forza tornano a squilibrarsi in qualche punto. La rottura degli equilibri (tanto decantati dall’economia marginalista) è ciò che evita al sistema di stagnare.
Anche nella sfera statale si riproduce, ai diversi livelli, la stessa dinamica che opera nella sfera economica. L’amministrazione statale consta di vari processi lavorativi (organizzati gerarchicamente) orientati al raggiungimento di dati obiettivi con le risorse disponibili (razionalità strumentale). Sopra di questi agiscono gli agenti politici veri e propri, la loro azione è orientata da tutt’altro tipo di razionalità, quella strategica. Per capire come si sviluppa l’azione dei decisori politici dobbiamo eseguire un confronto con gli agenti strategici operanti nella sfera economica. Gli agenti strategici della sfera economica sono direttamente connessi ai processi produttivi, quelli che esitano merci e, pertanto, denaro. Il denaro accumulato è utilizzato nella lotta per la conquista di sempre maggiori aree d’influenza. In questo senso, l’attività economica raggiunge il suo grado d’ipertrofia fino a sconfinare nel campo della “politica” (per sua natura la strategia economica è, in un certo senso, politica) poiché le imprese non aggrediscono il mercato con il solo ausilio della performatività strumentale. Qui avviene un’intersecazione tra sfere sociali e si stabiliscono le necessarie interconnessioni tra agenti strategici di diversa “collocazione” nello spazio capitalistico complessivo. Gli agenti politici sono portatori di proprie strategie, queste possono convergere con quelle degli agenti economici o esserne in profondo contrasto. Gli obiettivi di fondo degli agenti strategici politici possono essere così sintetizzati: “A) favorire lo sviluppo (riproduzione allargata) del sistema imprenditoriale che insiste sul territorio (in genere in un dato paese) da ognuna di tali frazioni controllato, sviluppo da cui deriva, come già si sa, il fluire di quell’alimento (monetario) necessario a qualsiasi strategia di potenza. B) attenuare i conflitti tra i vari gruppi sociali contrapposti, sia dominanti che dominati, mantenere la pace sociale se possibile, o invece reprimere l’acutizzazione dei conflitti, con diverse modalità più o meno morbide o drastiche, quando ciò sia necessario o improrogabile. C) estendere le sfere d’influenza dei sistemi imprenditoriali dei territori sotto il controllo di ognuna di esse [ … ] (G. La Grassa, Il Capitalismo oggi). Il perseguimento di questi obiettivi può mutare a seconda delle fasi economiche, siano queste di tipo monocentrico o
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policentrico. Se il paese nel quale agiscono gli agenti politici è sotto il giogo di una potenza predominante (monocentrismo) rientrando perciò nella sfera d’influenza di quest’ultima, gli agenti politici hanno difficoltà a realizzare il terzo obiettivo. Nelle fasi policentriche, invece, possono approntare strategie di maggiore conflittualità verso l’esterno (altre aree geografiche o nazioni) agendo in maniera più concorde con i dominanti della sfera economica, ugualmente interessati alla conquista di aree d’influenza extranazionale (che divengono zone d’investimento privilegiate). Senza dilungarci (e rinviando per ogni studio approfondito agli ultimi testi di Gianfranco La Grassa) gli agenti della sfera politica e quelli della sfera economica contribuiscono “alla produzione di ciò (merci e denaro) che poi utilizzano per la produzione del loro potere da impiegare nella sfera economica (competizione per le quote di mercato) e in quella politica (conflitto, a volte pure bellico, per le sfere d’influenza) (G. la Grassa, Il Capitalismo oggi).
La sfera ideologico-culturale. In questa sfera operano gli agenti strategici della produzione ideologica, quelli che mirano ad organizzare il consenso (intellettuale, culturale) e a mistificare la reale natura dei rapporti “a dominanza” del sistema capitalistico. Anche per questa sfera ribadiamo quello che abbiamo già detto per la sfera politica. Senza la produzione di merci e l’accumularsi di denaro, non sarebbe possibile esperire alcuna azione atta a “precipitare” quelle potenzialità egemoniche che “aggrumandosi” danno vita a sistemi ideologici coerenti (nel senso di abbastanza funzionali rispetto alle mete preventivate). Tra agenti ideologico-culturali e quelli finanziari esistono sottili collegamenti, affatto organici, dovuti alla diversità degli obiettivi vicendevolmente perseguiti. Spesso esiste una forte incomprensione tra questi, scaturente dalla diversa razionalità strategica operante all’interno di ciascuna sfera, ma la composizione delle divergenze è dovuta alla comune “potenza generatrice” che le attraversa: la ri/produzione (allargata) del sistema di rapporti sociali capitalistici.
Pure qui, come per i rapporti tra sfera politica e sfera finanziaria, specifiche congiunture possono cementare o allontanare l’intesa tra agenti strategici. Di fondo, gli attriti nascono a causa della reciproca diffidenza, con gli agenti ideologici che spesso accusano di rozzezza culturale quelli economici e con quest’ultimi che tacciano di parassitismo i primi. In tali situazioni si verificano indebolimenti generalizzati della classe dominante che, qualora dovessero coinvolgere anche gli agenti politici, possono determinare gravi crisi di fiducia negli assetti istituzionali, in quelli economici ecc. Se a tale deperimento dei rapporti si associa anche la crisi realizzativa del capitale, si può più facilmente verificare una palingenesi dei rapporti di forza, con ascesi di altri agenti dominanti che approfittano della debolezza di quelli “costituiti”.
Anche nella sfera ideologica possiamo distinguere tra un “sostrato produttivo” (i facitori di idee) e gli agenti ideologici veri e propri (si tratta comunque di una divisione impropria dati i confini incerti, più che nelle altre sfere, tra produttori di idee e “manipolatori” delle stesse), quelli che approntano le strategie al fine di primeggiare su altri agenti dello steso tipo, o che sfruttano la propria posizione di dominanza per organizzare il consenso sociale in funzione della riproducibilità sistemica su basi sempre più ampie. Di fatti, scopo ultimo degli agenti ideologici è quello di fare da “sponda” alle frazioni dominanti (siano esse “costituite” o aspiranti alla dominanza) ma pur sempre nell’alveo della riproducibilità capitalistica tout court. Il potere stesso deve essere concepito come “un reticolo di rapporti e posizioni di forza” dove la “filigrana” del conflitto (tra agenti dominanti) è la fonte del suo continuo rinnovamento o, più raramente, della sua trasformazione. Citando ancora La Grassa: “Quando ci si diffonde intorno all’egemonia di una classe dominante, in linea generale si sta discutendo del vettore di composizione delle forze (ideologiche in campo). Più precisamente si dovrebbe fare riferimento: 1) o alla supremazia di fase di una frazione della classe dominante, in genere strutturata secondo i tre tipi di agenti in cui, teoricamente, può essere suddivisa: strategico-imprenditoriali, strategico-politici, strategico-ideologici; 2) oppure al formarsi, in una data epoca dello sviluppo della formazione sociale, di una cultura normale (in analogia con la Kuhniana scienza normale) quello sfondo generale[…] senza contrasti acuti (antagonistici), anche dalle classi dominate o non dominanti”.
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Brevi considerazioni finali
Vorrei concludere questo articolo, scusandomi per la frammentarietà con la quale sono stati trattati molto argomenti, con alcune brevi considerazioni. In questa fase appare davvero inopportuno, sulla scorta delle carenze teoriche, continuare ad inseguire il soggetto della trasformazione sociale senza aver ben presenti le modificazioni che sono intervenute nella formazione sociale capitalistica. Abbiamo bisogno di ben altre lenti teoriche e di fare altre ipotesi per superare gli errori/orrori del passato. Ovviamente non abbiamo alcuna intenzione di segare il ramo sul quale siamo seduti (le acquisizioni ancora valide della teoria marxiana sul modo di produzione capitalistico) ma se l’albero della teoria dovesse completamente disseccarsi ci troveremmo comunque con il sedere per terra. Lo studio della formazione sociale capitalistica non può ridursi al mero conflitto Capitale/Lavoro o ai calcoli “alchemici” dei metodi del plusvalore (relativo) con i quali ci si è arrovellati per troppo tempo senza venire mai a capo di nulla. La società capitalistica è un insieme più complesso che richiede un’analisi “a doppia entrata”: in orizzontale (la segmentazione della formazione sociale complessiva) e in verticale (stratificazione sociale e frammentazione delle varie forze di lavoro nei processi produttivi). La caratteristica precipua di questa formazione è la conflittualità interdominanti che attraversa i suoi processi e ne dinamicizza gli esiti. Nel suo ventre non sono poste le premesse per il levamento di alcun parto ormai maturo, e il soggetto intermodale del passaggio da una formazione sociale (quella capitalistica) all’altra (quella comunistica?) non si forma automaticamente, in virtù del mero accrescersi delle contraddizioni insite tra modo dello scambio e modo della produzione. Allora il soggetto non può che essere una “costruzione” politica, bisognerà lavorare al compattamento di un blocco sociale più vasto che non sia il mero proletariato di fabbrica, tenendo ben presente che il capitalismo frammenta, destruttura e ricompone complissificando l’intera società attraverso il conflitto. E’ questa la direzione (ipotesi teorica) nella quale dobbiamo lavorare se vogliamo ridare un senso alla lotta anticapitalistica. Il passato non si rinnega ma non può nemmeno divenire una zavorra che lega con catene sempre più pesanti.
24.04.2007
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