PETROLIO: DALLA BASILICATA ALL’ITALIA. COME DOVREBBE CRESCERE LA SOVRANITA’ NAZIONALE.

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Quando le premesse di un ragionamento sono sbagliate, fortemente ideologizzate e, persino, volutamente mistificanti si esce dal mondo della logica e si entra nello spazio ingarbugliato dei paralogismi e dei logaritmi gialli dove regnano sovrani emotività, inganno ed interessi particolaristici smerciati per esigenze generali.
E’ dalle riunioni del Club di Roma (anni ’70), emanazione della Trilateral di David Rockefeller, ben conosciuta dal nostro Premier Monti, che si proclama la fine del mondo per raggiunti limiti dello sviluppo, esaurimento delle fonti energetiche e successiva crisi ecologica. Forse, il banchiere newyorkese, con questi stratagemmi propagandistici, cercava di scoraggiare i concorrenti dall’imbarcarsi in mercati iper-redditizi che evidentemente non voleva dividere con nessuno.
Ovviamente, non è ancora accaduto nulla e come per i dogmi religiosi l’avveramento dell’ultima profezia viene spostato sempre più in là nel tempo e nello spazio dove si accatastano le idiozie delle quali si nutrono gli sciocchi e gli allocchi che nel nostro caso e caos si chiamano ambientalisti, catastrofisti, eco-cretini.
Ma non pensiate che siano tutti ingenui o scemi poiché c’è sempre qualcuno che, invece, si avvantaggia della situazione per fare soldi con le conferenze sui disastri climatici imminenti o per succhiare risorse pubbliche per le sue imprese che producono energia rinnovabile quanto inservibile.
Ne abbiamo sentite di tutti i colori da quando siamo nati, dal buco nell’ozono, all’effetto serra, al riscaldamento globale, alle glaciazioni, tutti fenomeni che seppur verificatisi non hanno avuto quella portata distruttiva e terminale della quale blateravano i nostri millenaristi apocalittici.
Tra le tante bufale propalate da costoro, con ogni mezzo di comunicazione e di divulgazione, c’è la cosiddetta teoria del peak oil, o picco di Hubbert, secondo la quale il petrolio avrebbe dovuto esaurirsi da un bel pezzo ed invece continua a friggere il mondo spostando gli equilibri economici e quelli geopolitici, provocando conflitti ed ingerenze negli affari degli Stati che sono seduti su forzieri tutt’altro che svuotati.
Le grandi potenze mondiali continuano ad investire nel settore, si fanno le guerre per accaparrarsi i giacimenti migliori e cingono il pianeta con oleodotti, gasdotti, metanodotti ecc. ecc. per trasportare gli idrocarburi là dove servono.
Chi sprecherebbe tante forze e capitali se davvero i giacimenti mondiali si fossero esauriti?
Qui, gli unici davvero esauriti sono i propugnatori di ecoballe globali che sembrano vivere su un altro mondo impossibile.
Ecco cosa sosteneva, appena qualche giorno fa, in un comunicato pubblico quell’associazione di matti da legare chiamata Legambiente: “attingendo al petrolio presente nel sottosuolo, concentrato soprattutto in Basilicata, il totale delle riserve certe nel nostro Paese verrebbe consumato in appena 13 mesi… questi dati dimostrano l’assoluta insensatezza del rilancio delle attività estrattive previsto dalla Strategia energetica nazionale”. Questi dati dimostrano, più che altro, il loro ciarlatanesimo ed il partito preso antimodernista col quale costoro incendiano battaglie utili soltanto a non far arrivare ossigeno al cervello della collettività. E queste affermazioni vengono fatte proprio mentre la comunità scientifica italiana sostiene che le estrazioni petrolifere nella Penisola possono ben essere triplicate senza alcun danno per l’ecosistema e la salute dei cittadini.
Lo ha riferito, solo per citare una fonte autorevole, il Presidente di Nomisma Energia, il quale ritiene che la Basilicata può rifornire la nazione, essendo il serbatoio di petrolio più vasto d’Europa, per moltissimi anni.
Dovremmo sfruttare questa situazione, barattare questa strategicità con Roma alzando il prezzo e pretendendo un trattamento privilegiato ed, invece, rincorriamo ubbie modaiole senza evidenza scientifica, fermando le autorizzazioni ed i permessi d’esplorazione per vagheggiare il sogno agreste di un paradiso incontaminato oppure quello deturpato ed imbruttito dall’installazione di “pannolini” solari e pal(l)e eoliche.
In sostanza, pur avendo una grande chance a portata di mano, dovremmo, come sostiene la CGIL di Basilicata, lanciarci in operazioni con il solare e l’eolico che sono fallite dappertutto, persino negli Usa che vantano una ricerca d’avanguardia nel campo e mezzi nemmeno lontanamente paragonabili ai nostri. Che fine ha fatto, per esempio, la scommessa obamiana nel comparto delle energie alternative annunciata in pompa magna qualche anno fa? Crollata miseramente con la chiusura di Solyndra a causa della quale il governo americano ha perso la faccia e milioni di dollari di sovvenzionamenti (535 milioni di dollari dei contribuenti americani). L’economia verde è un bluff e noi lucani, con il catrame traboccante in superficie in molte zone del territorio, dovremmo rinunciare alla vera fortuna per l’ignoranza di sindacalisti maneggioni, ecologisti ecosensibili alle scemenze epocali, politicastri con la vista corta e sognatori col sonno della ragione lungo? Ai livelli tecnologici considerati, tenendo conto dei diversi fattori economici, l’unica alternativa al carbone e al petrolio, quella realmente pulita e non inquinante, è l’energia nucleare. Ma anche quest’ultima è diventata un tabù in Italia, sempre per colpa di quell’esercito di allarmisti che decanta l’armonia con la natura ma ama vivere con tutte le comodità del progresso a prezzi esorbitanti, perché poi ci tocca, per accontentare le sue balzanerie, comprare all’estero, a costi triplicati, quanto potremmo produrre da noi con minor sforzo finanziario e miglioramento delle prestazioni tecniche.
La realtà non è quella che ci raccontano questi signori, silvestri fuori e pedestri dentro, se è vero che “il contributo delle rinnovabili alla sola produzione elettrica mondiale è passato dal 22% nel 1980 al 18% oggi, a dispetto nei faraonici sforzi economici compiuti nel mondo in installazioni eoliche e fotovoltaiche. La ragione è semplicemente tecnica: noi usiamo l’energia con una modalità molto particolare: essa deve essere disponibile nel momento stesso in cui serve, dove serve e con la potenza che serve, né di più né di meno. E non abbiamo alcun potere su quando, dove e con quale potenza il sole brilli o il vento soffi. Comprendere questo fatto è cruciale. Ed è questo il fatto che non ha permesso ai Verdi di mantenere la loro promessa che fecero oltre 30 anni fa. Se si aggiunge che, a parità di energia annua erogata, un impianto eolico costa il doppio di uno nucleare e uno Fv costa 20 volte quello nucleare…”(Franco Battaglia, docente di Chimica Fisica presso il Dipartimento di Fisica della Terza Università di Roma e Membro della “American Physical Society”).
Ad ogni modo, dopo la sbornia ecocompatibile con le fandonie ambientaliste a km illimitati, anche Obama ha cambiato idea, tanto da aver rilanciato il programma di sviluppo dell’energia nucleare e aver trionfalmente acclamato la produzione dello shale gas (secondo gli esperti statunitensi il Paese, grazie a questo sistema, avrebbe ormai riserve di oro blu per oltre un secolo), il quale viene estratto con tecniche estremamente invasive che consistono nell’iniettare nelle rocce, frantumandole, un miscuglio di acqua e sabbia utilizzando un getto ad alta pressione, liberando, in tal maniera, il gas ivi racchiuso.
Mentre gli Stati più attenti stanno virando dalle loro precedenti convinzioni, sospinti dai venti multipolari della geopolitica di potenza che reclama una certa indipendenza energetica per affermare la propria influenza, noi ci facciamo prendere dal romanticismo economico e sospiriamo per le vallate verdi e la baggianate grosse.
Questa dovrebbe diventare per noi lucani, ed italiani, l’occasione per rompere i pregiudizi e proiettarci con intelligenza al centro del mondo e degli eventi, in modo da riprenderci quel futuro di prosperità e d’ importanza negatoci troppo a lungo. Potremmo diventare il quarto produttore di idrocarburi a livello europeo e con una differenziazione delle fonti, con accordi bilaterali con partner audaci, anche non occidentali, disponibili a sostenerci in un progetto di recupero d’autonomia ed indipendenza, con una politica estera più coraggiosa imperniata sul recupero di credibilità e sovranità nazionale, finalmente riusciremmo ad assurgere al rango che ci spetta tra i grandi della terra. Adesso non siamo uno Stato libero e decisore ma un’appendice passiva di un’Europa tecnocratica e filoatlantica che trascura le nostre istanze e prerogative.
Con questi presupposti non si va da nessuna parte e ci si perde inesorabilmente tra una contabilità economicistica priva prospettive, quella dello spread e dei suoi spettri che rendono ancor più scriteriata la spesa pubblica incrementando il nostro deficit culturale, finanziario, politico.
L’unica speranza è che la Regione Basilicata abbia imposto questo stop alle prospezioni per riflettere meglio sul suo destino e non per inseguire i dolori di “panza” della gente raggirata dalle voghe di stregoni che vivono di contributi statali e di esigenze elettorali. Se fermarsi un attimo serve a riconfigurare il proprio ruolo, rigenerare le proprie aspettative, riprogettare un sistema di sviluppo su basi più vantaggiose e moderne allora ci può stare. Se, tuttavia, non si tratta di ciò ma di un arresto per convenienze corporative, individuali, partitocratiche, la strada intrapresa sboccherà in un burrone e noi finiremo tutti di sotto. Bisogna anche dire che l’atteggiamento delle autorità territoriali, in questo momento così tetragone, ha avuto poca coerenza negli anni, innanzitutto nei rapporti con le compagnie petrolifere. Si è passati dalla passività e dalla fiducia in bianco alla resistenza irrazionale e al sospetto continuo. Prima si abbassava lo sguardo di fronte alle multinazionali ed ora si voltano loro le spalle senza dare troppe spiegazioni. Tali salti pindarici, da un estremismo all’altro, segnalano tipicamente l’impreparazione di chi non ha una visione chiara dei processi in atto e le nozioni basilari per definire i propri obiettivi storici.
Dispiace dirlo, soprattutto a noi che proveniamo da una tradizione politica comunista, ma oggi le forze della reazione, gli irriducibili passatisti che vogliono bloccare il progresso dell’Italia, le cerchie parassitarie e antimoderne che ci stanno facendo precipitare indietro di secoli e di aspettative, sono proprie quelle che una volta si definivano progressiste e di sinistra (i destri, su detti temi, seguono a ruota i sinistri perché affetti da complessi d’inferiorità culturale mai colmati). Sono esse che alimentano falsi ideali bucolici e miseri idoli anglofoni derubandoci del domani e del progresso. Quest’ultimo non deve essere inteso come un feticcio o come un costante avanzamento verso qualcosa di altrettanto utopico e romantico rassomigliante, seppur in contrapposizione antitetico-speculare, all’inesistente “bel mondo perduto” di cui si riempiono la bocca decrescisti e ambientalisti.
No, per noi progresso significa convergenza e sinergia tra scoperte scientifiche, evoluzione tecnologica, sfruttamento razionale delle risorse, prosperità economica, lungimiranza politica finalizzata alla proiezione geopolitica sullo scacchiere mondiale e crescita culturale al servizio della sovranità nazionale.
Senza l’ultimo ingrediente tutto il resto perde di valore ed, anzi, diventa irraggiungibile perché facilmente attaccabile e disperdibile da corpi esterni vocati al saccheggio e alla dominazione che creano quinte colonne interne a cui viene affidato il compito di rimestare nel torbido o di diffondere luoghi comuni e mitologie (civilistiche, democraticistiche, ecologistiche), consolatorie, fuorvianti e autodistruttive.