POPULISMO / (FILO)AMERICANISMO.

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UNA NUOVA DICOTOMIA IDEOLOGICO-POLITICA ELABORATA DAI GRUPPI “DECISORI” IN “OCCIDENTE”.

Sul Sole 24 ore del 14.08.2016 Luca Ricolfi propone alcune riflessioni sulla tematica del populismo inteso, in questo caso, prevalentemente come una tendenza o una ideologia politica.

<<Di populismo e di partiti populisti si è ricominciato a parlare, in Europa, circa 30 anni fa, allorché Jean Marie Le Pen, un deputato che proveniva dal movimento di Poujade, scosse la Francia con i successi del suo Front National, capace di raccogliere l’11,2% del consenso dell’elettorato francese alle elezioni europee del 1984>>.

Nel sito Treccani “online” e in Wikipedia si trova spiegato che il poujadismo (fr. poujadisme) è stato un  movimento di protesta e di rivolta fiscale, “di carattere qualunquista”, sviluppatosi in Francia verso la metà degli anni 1950 per iniziativa del libraio Pierre Poujade (1920-2003), che fondò nel 1953 il giornale Union et défense e il movimento Union pour la défense des commerçants et artisans (UDCA); esso ebbe un effimero successo elettorale, ottenendo consensi  soprattutto tra i commercianti e gli artigiani, per la sua opposizione “corporativa” rivolta contro la politica fiscale del governo e per le sue critiche all’inefficacia della politica parlamentare, così com’era praticata durante la Quarta Repubblica. Di seguito sembra che il termine poujadismo sia stato utilizzato, in maniera generica, per qualificare negativamente altri tipi di populismo, di corporativismo e di “demagogia” senza rapporti con il movimento nato con Pierre Poujade. Il sociologo sottolinea, poi, che diversi studiosi utilizzano l’etichetta populista con riferimento ai soli movimenti di destra, per cui si avrebbe “la curiosa conseguenza per cui l’italiano Movimento Cinque Stelle non sarebbe populista”. Ma qui Ricolfi, secondo noi, si esprime in maniera inesatta perché il movimento “grillino” è nato con connotati caratteristici del populismo “di protesta” e, quindi, senza un retroterra politico-culturale ben definito, in mancanza del quale è prevalsa una deriva “opportunistica” e demagogica che lo stanno portando a divenire l’unica alternativa al Pd – con relativo adeguamento ai dettati della Ue e degli Usa – per la guida del governo del nostro paese. Ma in effetti egli stesso riconosce la presenza di populismi “di sinistra” o “di protesta” quando parla di “movimenti radicali anti-austerity” del  tipo di Podemos (Spagna) o Syriza (Grecia) e, perciò, più in generale anche a noi sembra lecito attribuire

<<tratti populisti ogni qualvolta il “racconto” di un partito o movimento poggia sulla contrapposizione fra la grande maggioranza del popolo e l’establishment politico-finanziario>>.

Ad ogni modo il populismo appare prevalentemente come una ideologia che parte dalle limitazioni che la Ue e l’euro impongono alla sovranità dei vari Stati nazionali, riguardo alle politiche di spesa, monetarie e fiscali, oltre che  da questioni che preoccupano particolarmente la gran massa della popolazione come quelle concernente i flussi migratori, la sicurezza, l’identità culturale ecc.. A parere dei collaboratori di questo blog le istanze populiste e i loro portatori si sono indeboliti sia in Francia che in Italia dove il Front National, la Lega e Forza Italia appaiono palesemente in difficoltà. Dopo Brexit e le conseguenze economiche, vere o presunte, della vittoria del fronte anti Ue i gruppi politici che lo sostenevano sono entrati in una sorta di stato confusionale derivato, ovviamente, dalla mancanza di una visione strategica a medio termine, da parte di gruppi dirigenti formati da personalità assolutamente impreparate ad affrontare crisi che sono portatrici di ripercussioni importanti su scala globale. Anche alle  elezioni presidenziali austriache (del maggio 2016) la metà dei cittadini ha scelto il candidato populista Norbert Hofer, proveniente dal medesimo partito di Haider, di orientamenti “xenofobi e nazionalisti”. Le elezioni saranno ripetute a ottobre a causa delle molte irregolarità riscontrate

<<ma, comunque vadano, resta il fatto che metà degli austriaci non ha avuto problemi a votare un candidato come Hofer, e nessuno dei due grandi partiti tradizionali austriaci (socialisti e popolari) è riuscito ad arrivare al ballottaggio (lo sfidante di Hofer è stato espresso dal piccolo partito dei Verdi)>>.

Il trionfo di istanze “nazionaliste e xenofobe” nelle grandi consultazioni popolari dimostra, comunque, soltanto le “crepe” che i gruppi fino a oggi  dominanti nei principali paesi dell’Unione – sponsorizzati dagli Usa per tenere sotto controllo la “regione europea” -stanno mostrando nel tentativo di mantenere l’egemonia ideologica e il controllo della “volontà popolare” nei loro paesi. Sempre più, osserva ancora l’editorialista, i cittadini della Ue ritengono che debbano presentarsi “sul banco degli accusati”  i “poteri forti” – filoamericani, aggiungiamo noi – che controllano l’Unione europea, le sue istituzioni (Commissione e Consiglio) e la sua Banca Centrale. In sintesi, poi, Ricolfi ribadisce che

<<fra il 2009 e il 2014, effettivamente troviamo che il cocktail “gravità della crisi + paura dello straniero” risulta una determinante fondamentale dell’avanzata dei movimenti populisti. Vista con queste lenti, la marea populista appare, innanzitutto, figlia della crisi, delle politiche di austerità, e più in generale delle inadeguatezze delle élite che governano l’Europa>>.

Subito dopo il sociologo introduce un discorso che mette in dubbio questa visione “semplificata”. E inizia  ricordando che

<<il populismo è cominciato a proliferare in Europa fin dalla metà degli anni ’80, ossia più di 20 anni prima della crisi.[…] i movimenti populisti, sia prima sia durante la crisi, hanno riportato grandi successi in due paesi, la Svizzera e la Norvegia, che sono sempre rimasti al di fuori dell’Unione Europea. Il Partito del Progresso norvegese, una formazione nettamente xenofoba, è nato nel 1973, e alle elezioni nazionali del 2005 è diventato la seconda forza politica del paese. Quanto alla Svizzera, un partito come l’UDC (Unione Democratica di Centro) è diventato una forza populista da almeno un quarto di secolo, ossia dai tempi (1992) della campagna contro l’adesione allo spazio economico europeo. Svizzera e Norvegia sono del tutto libere dal detestato giogo europeo, sia in materia economico-sociale sia in materia di immigrazione. Dopo il piccolo Lussemburgo, sono i due paesi più ricchi del mondo occidentale. La crisi li ha appena sfiorati e l’Europa non ha interferito. Almeno lì, il populismo deve avere altre radici>>.

Questo per il passato, mentre per “l’oggi” il successo, probabilmente “relativo”, di Donald Trump di fronte sia a una politica economica del tutto diversa (da quella della Ue) –  portata avanti da Obama e caratterizzata da toni decisamente espansivi che hanno determinato un forte indebitamento –  sia ad una situazione senza particolari novità riguardo alle “pressioni migratorie”, appare, in qualche modo, un nodo su cui riflettere. Ed ecco rispuntare la questione più volte richiamata della crisi dei “ceti medi”. Così scrive Ricolfi:

<< Fino al 2008, anno della elezione di Obama ma anche anno del fallimento di Lehman Brothers, nonostante gli economisti progressisti (alla Stiglitz) si fossero sforzati in tutti i modi di convincere gli americani che la crescita del reddito pro-capite della famiglia media si fosse ormai arrestata, e che solo l’1% degli straricchi fosse riuscito ad arricchirsi ancora di più, la gente non credeva a questo genere di diagnosi. E non ci credeva per il buon motivo che alla stagnazione del potere di acquisto si accompagnava una spettacolare corsa del valore degli immobili, che rendeva credibili speranze e illusioni della “società di proprietari”, ovvero l’idea – cara ai repubblicani di Bush figlio – che tutti potessero diventare possessori di ricchezza. Poi è arrivata la crisi, che ha fatto intendere agli americani che quelle erano appunto illusioni. Ma con la crisi è arrivato anche Obama, con il suo carico di promesse, solo in parte mantenute>>.

Ora sembrerebbe che Trump voglia fare concorrenza ai democratici proprio in qualità di paladino dei “ceti medi”, utilizzando nella sua propaganda persino le diagnosi catastrofistiche degli economisti progressisti, a suo tempo rivolte al “cattivo” Bush (e prima ancora Reagan) e che paiono avere, in questo momento, buone possibilità di essere prese sul serio dagli elettori americani. Dopo queste osservazioni  Ricolfi introduce alcune annotazioni  che non sono proprio da buttare:

<< … soprattutto in America, ma anche in diversi civilissimi paesi del Nord Europa, il politicamente corretto si è spinto un po’ troppo in là. Talora ha oltrepassato la barriera del ridicolo. Quasi sempre ha oltrepassato quella del senso comune, del sentire della gente normale, che fatica a sbarcare il lunario, e i costi dell’accoglienza li paga in prima persona sotto forma di insicurezza e concorrenza sul mercato del lavoro. Le due cose insieme, una globalizzazione che beneficia alcuni ma impoverisce altri, un’élite che si compiace dei propri buoni sentimenti e letteralmente non vede i drammi di chi è stato spazzato via dalla mondializzazione, hanno creato un mix esplosivo. Finché c’era la crescita, il gioco era a somma positiva: potevi anche pensare che i miglioramenti del vicino non fossero, necessariamente, peggioramenti tuoi. Ora il gioco rischia di essere a somma zero: se qualcuno va avanti, deve esserci per forza qualcun altro che va indietro>>.

Tutto questo può avere ricadute importanti nella coscienza degli elettori americani cominciando da una elevata diffidenza nei confronti di una sempre maggiore interdipendenza con il resto del mondo, che l’isolazionismo – probabilmente solo proclamato perché difficilmente realizzabile –  di Trump intercetta perfettamente. Di qui, anche, il fastidio per la cultura liberal e progressista, “magistralmente” impersonata da Hillary Clinton. Chi usufruisce dei benefici della globalizzazione, soprattutto i ceti istruiti e metropolitani che vivono sulle due coste americane, possono a buon diritto “baloccarsi” con i problemi “post-materialisti e post-moderni” dei diritti civili, dei matrimoni gay, dell’integrazione delle minoranze, dell’accoglienza degli immigrati, della discriminazione linguistica. Ma per chi ha capito solo ora di non avere futuro, per gli abitanti del profondo sud e dell’America interna, il divario fra i loro problemi e quelli con che soli paiono interessare le élite e i “ceti medi riflessivi” (espressione coniata da Paul Ginsborg) è diventato troppo ampio. Questo tipo di deriva almeno potenzialmente, visti i fattori che sono messi in gioco, potrebbe interessare anche l’Italia anche se la passività, il conformismo e l’abitudine a pensare in termini “individualistici” stanno rendendo particolarmente difficile la nascita di una forza politica che non sia soltanto una risposta demagogica e fittizia , pilotata dall’alto, al disagio delle masse. Per concludere mi sembra utile riportare alcuni temi sviluppati in un libro di P-A Taguieff del 2002, L’illusion populiste:

<<Questo è il “pericolo populista”, e/o “nazional-populista”, visto dall’alto, costruito nella prospettiva elitaria: supponendo che regni la “democrazia d’opinione” (1) ( o che il suo regno sia ormai prossimo), è populista ogni attore sociale che si accontenti di esprimerla o di sfruttarne le risorse simboliche, chiunque esca dal “cerchio della ragione” per sprofondare nell’”irrazionale”, cioè nel pulsionale o nel demagogico, nell’emotivo o nel semplicistico. Questa ricusazione del populismo s’inserisce nel quadro della concezione evoluzionistica del progresso, applicata all’ordine politico. Così concepito il populismo rappresenta una deplorevole interruzione della crescente e globale razionalizzazione che si suppone all’opera nella storia. I falliti dell’irreversibile processo di “modernizzazione”, o anche le provvisorie interruzioni dell’ineluttabile razionalizzazione dell’esistenza umana: di questo sarebbe espressione il populismo. Nella stessa prospettiva, alcuni economisti liberali contemporanei definiscono “populiste” certe domande sociali che ostacolerebbero un sano sviluppo economico. L’economista americano Pranab Bardhan argomenta in questo senso:”Le democrazie, in particolare, sono suscettibili di essere sottoposte a pressioni populiste in favore di un consumo immediato, di sovvenzioni improduttive, di politiche commerciali autarchiche e di altre richieste particolari che possono ostacolare la crescita e l’investimento a lungo termine”>>. Tutto questo esprime in maniera chiara il modo in cui gli avversari della potenza attualmente egemone e del modello liberista-liberale classico vengono ad essere stigmatizzati come forze antisistema, “irresponsabili” fomentatrici di atteggiamenti antipolitici e di tendenze e progetti “irrazionali” e quindi “pericolosi”,” nonostante le apparenze”, per il tenore di vita degli individui e per l’efficienza delle istituzioni, produttive e non. Sempre dal medesimo saggio riporto un’altra breve citazione:

<<Un […] approccio concettuale al populismo politico contemporaneo […] si può fondare su una semplice distinzione tra due tendenze dello stile populista […] a seconda che il popolo a cui si faccia appello o che si invochi sia considerato come demos o come ethnos: da una parte il polo “protestatario” o, più precisamente, “protestatario-sociale”; dall’altra, il polo “identitario” o “identitario-nazionale”, sia che questo ripercorra i sentieri del paleonazionalismo xenofobo, sia che si determini come una variante dell’etnonazionalismo emergente, in reazione a una qualche figura della globalizzazione finanziaria o della mondializzazione culturale e comunicazionale>>.

Il polo identitario troverebbe, sempre più,  nella contestazione delle attuali politiche di gestione delle politiche migratorie il suo punto di coagulo mentre quello protestatario cavalcherebbe le tematiche antifiscali, la contestazione dell’establishment e dei partiti, le proposte di riforma dello stato sociale che andrebbero in direzione di uno “sciovinismo del benessere” secondo il quale verrebbero destinate la maggior parte delle risorse ai soli membri della nazione. Da queste varie considerazioni possiamo valutare quanto negli schemi ideologici della politica ci si sia allontanati dal vecchio schema dicotomico “destra-sinistra”. Diversi anni fa Marcello Veneziani aveva proposto una nuova polarizzazione, utilizzando le denominazioni convenzionali di comunitari e liberal, la quale sarebbe stata il risultato dello smembramento dei poli tradizionali sulla base dei principi solidaristici e identitario-corporativi, da una parte,  e di difesa dei diritti (civili) e delle “libertà”  dall’altra. Progressivamente anche questa tipizzazione si è sgretolata, di fronte al rullo compressore di una crisi di cui non si vede la via di uscita, e in qualche maniera, almeno in occidente, i gruppi dominanti liberali e filoamericani sono riusciti a rappresentare culturalmente e mediaticamente tutte le forme di opposizione, comunque sempre “interna”,  al modello sociale capitalistico utilizzando la categoria di populismo enfatizzando le ambiguità del concetto e combinandolo con le problematiche riguardanti il cosiddetto nemico esterno: il terrorismo e le “civiltà” che risulterebbero “meno progredite” sul piano culturale, sociale e “dei diritti” come la Russia e la Cina.

(1)Alain Minc parla di tre “famiglie” populiste – regionalista, neofascista e antielitaria – unificate dal fatto che “il populismo è ormai per la democrazia di opinione quello che il fascismo era per la democrazia rappresentativa”. Per la definizione di “democrazia d’opinione” bisogna almeno far riferimento ai lavori fondamentali di Lippmann e Habermas e quindi a tutte le tematiche riguardanti la manipolazione massmediatica delle opinioni politiche. In internet ho comunque trovato questo frammento:

<< Nella versione originaria il voto d’opinione rappresenta solo un tipo particolare, sia pure in crescita, di comportamento elettorale sganciato dalle logiche di appartenenza o di interesse strumentale. Invece il paradigma del “clima d’opinione” rimanda al framing generale dell’agire politico in una data società, e si riferisce alla centralità delle dinamiche cognitive e comunicative nello spazio pubblico per tutti i tipi di elettori, e per la stessa costruzione dei vissuti politici e delle opzioni valoriali. Esso infatti è riferito alla centralità del nesso tra opinione pubblica e comunicazione politica mediata in quando determinante di contesto e di sfondo. E come tale non confligge con le appartenenze o le tradizioni politiche, non è in contrasto con la fedeltà del voto, è compatibile contemporaneamente col disinteresse per la politica e con la partecipazione politica (soprattutto latente, invisibile), con il disallineamento dai partiti e la “scelta di campo” per un leader di coalizione, con l’individualismo dell’impegno politico e le lusinghe della “dittatura della maggioranza”>>.

 

Mauro Tozzato           21.08.2016