Recensione a “Geofinanza e geopolitica”, di Parenti-Rosati (edizioni Egea)

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Il manuale curato da Fabio Massimo Parenti e Umberto Rosati, intitolato “Geofinanza e geopolitica” (ed.Egea), con studi di Silvia Grandi, Ann Lee e Davide Tentori, è uno strumento molto utile per comprendere lo sviluppo delle dinamiche finanziarie della nostra epoca. Il testo è agevole, benché mai superficiale, ed è comprensibile anche ai lettori non esperti che, pur non maneggiando linguaggio e tecnicismi economico-finanziari, vogliano approcciarsi all’apprendimento della tematica.

Il saggio permette di farsi un’idea delle trasformazioni avvenute nel sistema finanziario internazionale, dalla seconda guerra mondiale ai nostri giorni, mettendo l’accento sulle specificità storico-geografiche che ne hanno influenzato lo sviluppo. Il processo di globalizzazione, secondo gli autori, inizia idealmente dagli accordi Bretton Woods del 1944. Qui si fissano le regole di funzionamento del sistema finanziario e monetario e si istituzionalizzano i rapporti di dominanza, a matrice anglosassone (cioè statunitense e inglese), che attraverso l’adattamento nel tempo, o, persino, momenti di sconvolgimento di pratiche e paradigmi consolidati (si pensi alla decisione di Nixon, nel 1971, di sospendere la convertibilità dollaro-oro) si estenderanno all’intero globo; a fortiori dopo il collasso del blocco sovietico, in seguito al quale l’egemonia occidentale non incontrerà quasi più ostacoli sulla sua strada.

Odiernamente, l’unipolarismo americano inizia a mostrare le prime crepe, ad evidenziare i sintomi di un relativo declino che però non prefigurano, come qualche ottimista ritiene un po’ troppo frettolosamente, la quasi certezza di un imminente tracollo della potenza d’oltre-Atlantico. Tuttavia, i segnali di debolezza inviati dell’impero americano imbaldanziscono i suoi competitor sulla scacchiera mondiale. Giustamente, scrivono gli autori, oggi: “quest’assetto di potere viene sfidato da alcuni paesi emergenti e in particolare da Cina e Russia”. Russia e Cina (e non inverto casualmente l’ordine dei nomi rispetto a quanto riportato nel libro) rappresentano le concrete potenze revisioniste degli assetti internazionali, quelle che, almeno regionalmente, tentano di erodere lo strapotere americano generando o rigenerando le loro sfere d’influenza. In sostanza, il venir meno di un unico centro regolatore a livello planetario sta rimettendo in discussione il secolare disegno geopolitico americano e le leggi economico-finanziarie che lo hanno sin qui normato. Russia e Cina, infatti, pur operando come economie di mercato, rappresentano configurazioni capitalistiche con peculiarità proprie, non direttamente sovrapponibili al modello occidentale. I due giganti condividono con quest’ultimo alcuni fattori fondamentali, come la forma-impresa o la forma-mercato (elementi di elevata dinamicità che hanno decretato la superiorità della tipologia capitalistica anglo-americana rispetto ad esperimenti alternativi del passato, come il socialismo ir-realizzato) ma differiscono per aspetti strutturali non inessenziali, sia a livello di complessi statali che per articolazione sociale. Certo, dar adito agli ossimori non aiuta a rendere intelligibili le reali differenze tra sistemi: «Se c’è un “modello cinese” la sua più rilevante caratteristica è la volontà di sperimentare con differenti modelli». Secondo alcuni autorevoli studiosi, la traiettoria contemporanea dello sviluppo cinese sarebbe riconducibile, con tutte le sue ibridazioni e nuove sperimentazioni, a un sistema di mercato non-capitalistico, oppure a un socialismo di mercato. Ciononostante, nell’interpretazione della maggior parte dei media e dell’opinione pubblica occidentali, in cui sembrano prevalere pregiudizi etnocentrici e acritici, la Cina contemporanea è vista come un «sistema capitalistico autoritario». Non di questo si tratta, né di socialismo di mercato, che è un autentico obbrobrio categoriale, né di capitalismo-autoritario, che è un giudizio ideologicamente liquidatorio. E’, invece, innegabile che segmentazione e stratificazione degli apparati e dei ruoli apicali, a livello statale-politico, ma anche economico-strategico (imprese di punta), tanto in Russia che in Cina, derivano da logiche (lotta per il potere tra gruppi autoctoni e successiva proiezione esterna della potenza nazionale) non del tutto assimilabili allo schema capitalistico predominante di tipo “anglobalizzato”.

Dovremmo, dunque, iniziare a parlare non più di capitalismo ma di capitalismi se vogliamo meglio discernere affinità e divergenze tra gli attori in campo e loro sistemi organizzativi, senza ricorrere alle fughe in avanti terminologiche che conducono l’analisi scientifica in vicoli ciechi. Ad uno di questi punti morti teoretici ha condotto, per esempio, il cosiddetto concetto aleatorio di finanzcapitalismo, che gli autori sembrano però condividere. Il finanzcapitalismo, secondo Gallino, è quella mega-macchina sociale che ha superato il capitalismo industriale “a motivo della sua estensione planetaria e della sua capillare penetrazione in tutti i sottosistemi sociali, e in tutti gli strati della società, della natura e della persona. Così da abbracciare ogni momento e aspetto dell’esistenza degli uni e degli altri, dalla nascita alla morte o all’estinzione. Perché il finanzcapitalismo ha come motore non più la produzione di merci ma il sistema finanziario. Il denaro viene impiegato, investito, fatto circolare sui mercati allo scopo di produrre immediatamente una maggior quantità di denaro. In un crescendo patologico che ci appare sempre più fuori controllo”.

In realtà, per quanto la finanza abbia affinato le sue tecniche e la sua capacità di condizionamento, anche grazie alla tecnologia informatica, essa non è diventata l’orizzonte ultimo del sistema, lo stadio finale di una degenerazione irreversibile del capitalismo. Piuttosto, siamo in presenza di una ricorsività gravida di conseguenze geopolitiche. Le crisi finanziarie annunciano cambiamenti più profondi che si sostanziano all’interno dei rapporti di forza tra potenze, nella loro battaglia per la preminenza.

Gli autori ricostruiscono abilmente, ricorrendo a dati, tabelle e schede di approfondimento, le scelte istituzionali, gli eventi, le circostanze e le coincidenze che “contribuirono a generare la «tempesta perfetta» all’origine della crisi finanziaria globale scoppiata negli Stati Uniti nel 2007, manifestatasi pienamente nel 2008, e continuata in forme differenti fino ai giorni nostri”. E’ stato questo il terremoto finanziario che ha modificato la fiducia di milioni di persone e molte delle precedenti sicurezze circa una perdurante stabilità globale (la fine della storia di Fukuyama), oramai svanite. Tuttavia, bisogna stare molto attenti ad interpretare questi segnali, evitando accuratamente di essere risucchiati dalle profezie apocalittiche che generalmente accompagnano accadimenti così caotici. Sebbene lo choc sia emerso negli Usa, evidenziato dal fallimento di grandi banche ed altri operatori del settore, con pesanti ripercussioni anche sull’economia reale, gli effetti negativi più duraturi della crisi si sono materializzati soprattutto nelle zone subordinate a Washington. Europa compresa. Ora gli Usa sembrano in ripresa mentre le nazioni sotto il suo ombrello continuano ad arrancare. A queste manca quella libertà di agire e di sperimentare alternative al caos sistemico globale che, forse, potrebbero applicare solo distaccandosi dal giogo americano. Non è un caso che Washington proceda serrando i ranghi coi suoi alleati ed incrementando l’aggressività verso quelle potenze che offrono opzioni di risalita innovative, in contrasto con i suoi interessi.

Non condividiamo l’impostazione wallersteiniana, ripresa dagli autori, secondo la quale “la globalizzazione abbia avuto inizio con l’affermarsi della moderna economia, configurando una situazione di crescente autonomia del settore economico rispetto alla sfera politica”. E’ sempre la politica che indirizza questi processi benché lo faccia celando le sue iniziative dietro il paravento della “legalità” mercatistica. La sfera finanziaria ha sicuramente una sua autodeterminazione ed, effettivamente, può divenire, in alcune occasioni, predominante rispetto alla sfera politica, ma limitatamente ad aree o formazioni subalterne a centri strategici esterni, i quali sono immancabilmente politici, anche quando manovrano prodotti speculativi. Per questo, negli Usa non si può parlare di predominio della finanza sulla politica, semmai lo si può dire per la dipendente Europa. La globalizzazione, infatti, va colta come processo di dominazione politica, con importanti implicazioni (geo)economiche, e non viceversa. Del resto, sia Wallerstein che Arrighi, appoggiandosi a questa falsa convinzione si sono lasciati andare a futili vaticini ineluttabilmente smentiti dall’ingresso nella corrente era multipolare, in cui sono tornati in evidenza gli Stati. Tempo fa Wallerstein scrisse di essere convinto che “da almeno 30 anni siamo entrati nella fase terminale del sistema capitalista. Ciò che differenzia fondamentalmente questa fase dalla successione ininterrotta dei cicli congiunturali passati è il fatto che il capitalismo non perviene più a «farsi sistema», nel senso in cui lo intende la fisica e chimica Ilya Prigogine (1917-2003): cioè quando un sistema, biologico, chimico o sociale, devia troppo sovente dalla sua situazione di stabilità e non arriva più a ritrovare l’equilibrio. Si assiste allora a una biforcazione: la situazione diventa caotica, incontrollabile per le forze che la dominavano fino a quel momento. Emerge in questo modo una lotta non più tra sostenitori e avversari del sistema, ma tra tutti gli attori che lo compongono per arrivare a determinare ciò che potrebbe rimpiazzarlo. Personalmente riservo la parola «crisi» a questo tipo di periodi. E bene, oggi siamo in crisi. Il capitalismo è giunto alla sua fine”. 

A conclusioni analoghe era giunto anche Arrighi nella parte finale de “Il lungo XX secolo”.

Che quest’orientamento sia erroneo lo si desume proprio da quanto anticipavamo poc’anzi. Ovvero, non si è affatto “aperto un lasso di tempo all’interno del quale vi è la possibilità d’influenzare l’avvenire con la nostra azione individuale”, come impropriamente previsto da Wallerstein, ma si è schiusa una fase in cui  è la contesa tra gli Stati per il multipolarismo a riconfigurare l’architettura del potere mondiale, al di là di atti meramente soggettivi.

Meritevole è, infine, l’ultimo capitolo del libro dedicato alla Cina. Vi è in esso il tentativo di esporre, con chiavi d’interpretazione originali ed avulse dai soliti luoghi comuni (il socialismo di mercato, il capitalismo autoritario, ecc. ecc.), il fenomeno economico e politico cinese. Gli studiosi sono interessati ad “indagare tra le altre cose il rapporto Stato-società e i processi di pianificazione territoriale. Questi ultimi, in particolare, sono all’origine delle più recenti trasformazioni socioeconomiche e tecnologiche del paese e, contestualmente, delle sue strategie di graduale ma costante internazionalizzazione di intere regioni e sempre più estese reti urbane”. Si rileva, inoltre, della spinta propulsiva con la quale Pechino cerca di consolidare e di estendere la sua egemonia sul palcoscenico mondiale, sia ricorrendo all’influenza economico-commerciale che ad accordi politico-militari, anche in competizione con gli Usa. A parere nostro, il sistema politico cinese sconterà ancora delle pesanti difficoltà, non come asserisce la vulgata economicistica in virtù dei troppi vincoli statali imposti al libero mercato, ma a causa delle relazioni tra gli agenti della sfera politica e quelli della sfera economica, che in un sistema che si definisce comunista, pur non essendolo affatto, potrebbero arrivare ad un punto di rottura ideologico, con ripercussioni sul tessuto connettivo sociale. Fu questo che determinò il cortocircuito sovietico. Non è detto che il modello cinese imploda, al pari di quello dell’Urss, ma qualora queste contraddizioni non dovessero essere affrontate nei tempi giusti e con soluzioni efficaci i cinesi rischierebbero di tornare indietro di decenni.