RELATIVISMO MORALE E SISTEMI DI VALORI TRANSEUNTI

gianfranco

Scritto alcuni anni fa, prima del 2011, anno cruciale, in cui le criminali azioni degli USA (guidati da Obama, primo presidente di colore e assurdo premio Nobel per la pace), con i loro sicari Francia e Inghilterra (ma anche l’Italia, pur se più nascostamente e ipocritamente), annientassero Gheddafi (e quindi la Libia) e tentassero lo stesso colpaccio in Siria (sventato, ma ancora non in modo da ripristinare il vecchio ordine). Da quell’anno – e questo non lo si dice mai – è iniziata la migrazione inconsulta, che i farabutti nostrani vogliono far passare come fatto “secolare”, ineliminabile. Nemmeno si dice più da tempo che il 90% degli immigrati non sono profughi da guerre, ma “classe media” dei paesi di origine; e l’ha rilevato una “sinistra” come la “sinistra” Gabanelli in una sua inchiesta; https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/migranti-barconi-classe-media-poveri-africa-reddito/0534a0f8-74cd-11e9-972d-4cfe7915ecef-va.shtml . Questi migranti vengono turlupinati e invogliati a trovare l’Eden da noi, pagando 3-4000 dollari a delinquenti come gli scafisti e le ONG. E anche di queste, si è detto alcuni anni fa che su nove sette erano nate dal 2014 in poi, cioè proprio quando il traffico immigratorio ha raggiunto i suoi massimi. Infine, non si dice il più ancora essenziale. La nostra classe dominante (che ha invaso tutti gli spazi culturali e massmediatici), il vero nostro “cancro” sociale, è ormai in netto declino e usa la sempreverde “guerra tra poveri” per restare in sella. Ed una inetta e ignobile opposizione, solo avida di voti elettorali per sostituire il “cancro” con la “peste bubbonica”, non fa nulla per far sapere la verità. Si appella a fatti contingenti – che i pagatori di migliaia di dollari si trovano qui nella condizione di guadagnarsi da vivere “in qualche modo”, anche illegalmente; e poi adesso alcuni di loro sono anche positivi al virus – per fare cancan e cercare di squalificare i governativi e sostituirli nelle loro malefatte. Occorrerebbero forche e plotoni di esecuzione per tutti questi distruttori della nostra civiltà. Ma le popolazioni – pur con un po’ di rabbia inconsulta in crescita – non capiscono ancora nulla dell’inganno “democratico” perpetrato da ormai 75 anni al seguito dei criminali provenienti dagli Stati Uniti. Questi hanno vinto su altri criminali (grazie alla determinante funzione dell’URSS di allora) e poi, approfittando anche del blocco operatosi nella fantomatica “costruzione del socialismo”, stanno da trent’anni imperversando in ogni dove procurando danni irreparabili alle sorti dell’umanità tutta. E naturalmente, per coprire i loro mostruosi delitti, questi criminali fanno can can sulla difesa dell’ambiente. Stupide popolazioni “occidentali”, non capite per nulla che l’“ambiente nefasto” sono le élite statunitensi e i loro servi europei. Da questo dovete curarvi se volete sopravvivere; altrimenti è vero: entro il 2050 al massimo, sarete finiti. Non morti, assai peggio di così; solo esseri invertebrati striscianti sulla nuda terra colma dei cadaveri dei massacrati da quei delinquenti di cui stiamo parlando. O voi o loro: entro 20-30 anni questa la scelta!

Saprete capire questo scritto? Mah, credo molto pochi. La maggior parte nemmeno leggerà, crede che si debba solo lavorare, mai pensare, riflettere, approfondire certi temi decisivi per ogni mente degna di questo nome.

RELATIVISMO MORALE E SISTEMI DI VALORI TRANSEUNTI

Indubbiamente, è necessario viaggiare molto, porsi in relazione multilaterale con culture diverse, per acquisire il senso del relativismo di queste ultime, per accedere ad un reale “politeismo dei valori”. La stessa morale – che si erge come suprema regola, non scritta, del vivere in società – appare allora quale sedimento dei diversi percorsi culturali di popoli e civiltà differenti.
Senza voler troppo generalizzare, è possibile affermare tuttavia che il monolitismo culturale, la cristallizzazione di un’etica sempre eguale a se stessa, dettata da un’entità (in genere divina) superiore agli uomini, sono caratteristiche di società agrarie, stanziali, tendenzialmente autosufficienti e chiuse in se stesse. Gli scambi mercantili, i traffici e commerci, al contrario, conducono generalmente alla concezione del relativismo delle culture e, quindi, ad una maggiore tolleranza verso chi (e ciò che) è diverso.
La società capitalistica allora, in quanto società della generalizzazione degli scambi e dei traffici, della interconnessione mercantile tra popoli diversi, dovrebbe essere la società più tollerante, la società in cui più si afferma la visione “politeistica” dei valori. Ciò potrebbe forse essere vero – e lo è stato in certi periodi iniziali di sviluppo culturale borghese (si pensi all’illuminismo) – se la generalizzazione dei mercati non fosse fondata sul dominio del capitale nei confronti del lavoro e, dunque, sull’esistenza del mercato del lavoro, luogo di competizione e di scontro tra sezioni differenti del corpo sociale e – in epoca più recente – tra popoli, etnie, razze diversi.
C’è quindi, nella società della nostra epoca, insanabile contraddizione, incessante conflitto, tra spinte alla tolleranza relativistica e chiusure dogmatiche nella propria, e particolare, dimensione culturale e morale. Da una parte, si sviluppa la tendenza a considerare la propria cultura, la propria morale, il proprio sistema di valori insomma, come superiore ad ogni altro; sia che quest’ultimo venga fondato su un’autorità suprema, estrinseca al vivere associato degli uomini (Dio o lo Stato “divinizzato”, considerato quale padrone della società, ad essa sovraordinato), sia che esso venga considerato come qualcosa di innato, di intrinseco – da sempre – ad una presunta “natura” – o essenza – umana (qui è l’individuo ad essere assolutizzato, “divinizzato”, in quanto ente sempre eguale a se stesso, per cui la società non è altro che la somma dei tanti individui e lo Stato è il mero risultato del patto sociale stretto dalle “libere” volontà individuali). Dall’altra parte, si arriva a svalutare ogni regola associativa della convivenza sociale, poiché detta regola sarebbe il risultato puramente casuale ed erratico del vivere umano in società, risultato spesso trattato come derivante da un semplice rapporto di forze tra individui o gruppi di individui, con alcuni che prevalgono e impongono “arbitrariamente” le loro regole ai dominati.
Tra questi due estremi sussiste un’infinita serie di posizioni intermedie, con molte variazioni sul tema. Perfino uno stesso individuo, o uno stesso gruppo sociale, possono esprimere punti di vista diversi in diverse contingenze. La nostra società (e la nostra epoca) è indubbiamente quella in cui più variegate sono le posizioni su tali questioni, quella in cui le sfaccettature del problema appaiono particolarmente numerose e complesse. C’è solo l’imbarazzo della scelta; e ogni orientamento deve indubbiamente essere allora molto cauto e aperto a correzioni di rotta quando ciò sia necessario.
Un criterio orientativo di massima non è comunque inutile orpello. E’ indubbio che tra le due posizioni estreme prima accennate, il “politeismo dei valori” è più accettabile dell’innatismo o della volontà divina o altre ideologie consimili. Tuttavia, il relativismo culturale non può ridursi a pensare che ogni valore, ogni concezione della morale, è un niente, uno zero assoluto, serve solo per i gonzi che ci credono, non ha alcun fondamento che non sia il mero rapporto di forze, il puro arbitrio, la semplice casualità della “storia” delle società umane.
Il vero criterio sembra essere quello di valutare la funzione “riproduttiva” delle diverse regole che, in tempi e luoghi differenti, contraddistinguono il vivere associato degli uomini nelle varie formazioni sociali che si sono evolute secondo diversi stadi storici, che hanno conosciuto nascita, sviluppo, decadenza e dissoluzione come ogni altro organismo conosciuto. Funzione riproduttiva significa appunto capire in quale contesto si sono venute enucleando certe norme di vita sociale, quale compito esse hanno assolto ai fini della possibilità di sopravvivenza e crescita di ogni data organizzazione societaria.
Sarebbe tuttavia fuorviante voler applicare integralmente ed esaustivamente il solo criterio funzionale. Forzando il senso della cultura e della morale di una data società, è sempre possibile ricondurre “sincronicamente” il significato di ogni data regola ed usanza alla riproduzione interconnessa delle numerose parti di cui quella determinata società è costituita. “Diacronicamente”, però, ogni società è frutto di numerose tappe di sviluppo, di decadenza, di trasformazione, rinascita e nuovo sviluppo, e così via. I sedimenti culturali sono spesso millenari, e di molti usi e costumi si è perso ormai da tempo il senso originario, la primigenia funzionalità riproduttiva di quel certo ordinamento sociale; e ciò malgrado, essi continuano a perpetuarsi, a manifestare una qualche vitalità anche in nuovi contesti, ad essere alimento sia di fenomeni artistici che di regole di condotta morale e di altre manifestazioni della vita culturale di un popolo.
In molti casi, addirittura, vecchie usanze, vecchie norme di condotta sociale, impediscono più accentuati fenomeni di decadenza e dissoluzione di una determinata società; a volte esse hanno ancora funzione positiva e propulsiva nei confronti di quest’ultima. E’ però forse più frequente il caso in cui ci si trova di fronte a fenomeni di conservazione (“reazionari”), che impediscono di andare avanti, di trovare nuove regole più consone al vivere associato, che ha ormai conosciuto trasformazioni tali da entrare in acuto contrasto con usi e costumi tramandati da secoli, sedimentati nella millenaria cultura di una certa comunità.
Come si vede da questi pochi cenni, il criterio funzionale non può essere applicato ciecamente, allo stato puro, senza andare incontro a netti fraintendimenti. Il giudizio su una data cultura, su una determinata morale, è difficile e complesso; molto studio, molta ponderazione, sono necessari per valutare il positivo ed il negativo di certe norme di vita stabilizzate, la loro derivazione originaria, il nuovo contesto culturale in cui sono inserite, la loro eventuale nuova forza propulsiva o l’essere invece fardello di cui ci si dovrebbe liberare per rivitalizzare la vita associata in quella particolare formazione sociale presa in considerazione.
Una cosa sembra però certa: non esiste pura casualità, una “felice” insensatezza nella storia delle varie culture, delle varie morali, dei differenti sistemi di norme regolanti la vita associata. Ogni norma ha o ha avuto una sua funzione – quindi una sua derivazione e nascita precisa, orientata in ben determinato senso – ha corrisposto a specifici sviluppi storici, ha fondato certe attese e provocato certi entusiasmi o delusioni collettivi, è stata superata dagli eventi (senza tuttavia essere cancellata dal novero delle abitudini di una particolare associazione umana) o è stata ricollocata in nuovi ambiti con funzioni parzialmente modificate. E’ dunque sempre possibile, per quanto complicato, ricostruire il significato di diverse posizioni culturali, di differenti regole morali; e la loro eventuale insensatezza deriva solo dal nostro giudicarle ormai irrimediabilmente incongrue nei nuovi contesti sociali che si sono venuti istituendo mediante trasformazioni “epocali” di quella data formazione societaria.
E’ inutile negare che, in determinate epoche di intenso rivolgimento (come l’attuale), vien voglia di gridare alla “mancanza di senso” del mondo, al suo andare “per conto proprio”, all’impossibilità di applicazione ragionevole di peculiari metodi trasformativi. Tuttavia, il senso c’è sempre, non viene mai meno una ragione della trasformazione; e, nell’ambito d’essa, possono perciò essere utilizzati mezzi razionali, se non altro – intanto – per comprenderla e spiegarla, anche se non – fin da subito – per organizzarla e orientarla verso fini giudicati più positivi, più congrui allo sviluppo sociale stesso. Non c’è però nessuna possibilità di dar senso al mondo in ebollizione, se non si comincia con il prendere seriamente in conto i rivolgimenti in atto; il che significa avere adeguata consapevolezza dei punti di partenza (dei lidi che si stanno abbandonando), del segno (positivo o negativo) di questo abbandono, del contesto più profondo su cui si innestano i cambiamenti radicali (oggi, ad es., debbono essere almeno parzialmente conosciute le modificazioni dei modi di lavorare e produrre – e di progettare il lavoro – che sembrano anticipare i modi di vita, lo “stare in società”, di cui sconvolgono i precedenti assetti).
Sarebbe tuttavia inutile pretendere di capire il senso (diacronico, storico, epocale) del cambiamento oggi in corso, se non si riesce ad afferrare la differenza (sincronica, di interconnessione reciproca) esistente “spazialmente”, che intercorre cioè tra le differenti sezioni (nazioni, etnie, culture, ecc.) della società odierna, in cui tra l’altro – nei diversi gradi di sviluppo dei vari paesi e comunità – viene in evidenza il sedimento (diacronico) di una storia di evoluzioni assai variegate e multilaterali. Come nessun individuo può conoscere bene se stesso, se si chiude nel suo “particolare”, se non si apre alla conoscenza degli “altri da lui”, così nessuna collettività può veramente rendersi conto della sua cultura, della sua morale, delle sue norme di vita associata, se non fa uno sforzo di apertura nei confronti di ciò che è diverso, che si inserisce in un altro contesto.
In questo senso, è indispensabile il “politeismo dei valori”, cioè la tollerante ammissione di molte culture diverse possibili, di molte morali diverse possibili, di possibili modi differenti di organizzazione della vita sociale. Non per giungere alla stolta conclusione di assoluta casualità, di totale relativismo di ogni dato modo di vivere; non per affermare la mancanza di senso e di fondamento di ogni e qualsiasi comportamento umano in società, in modo da aprire la strada all’arbitrarietà, al cinismo, all’immoralità dei vari comportamenti individuali (di cui abbiamo oggi ampi esempi). Proprio del contrario si tratta: ammettere (e comprendere) la diversità di differenti ambiti nazionali ed etnici per meglio capire la propria, e specifica, cultura, la funzione delle norme che regolano la propria, e peculiare, vita associata; per cogliere quanto di transeunte vi è nel proprio modo di vivere, ma precisamente al fine di afferrare la sua, pur storicamente transitoria, necessità d’esistenza per una ordinata e sviluppantesi convivenza civile. E capire se stessi in relazione agli altri, capire la propria cultura e morale in relazione alle altre, significa anche cominciare a comprendere quanto di progressivo – e quanto invece di retrivo – vi sia in noi, nel nostro contesto di vita; quanto si debba lottare – e in quale direzione – per trasformarlo e renderlo “più civile”.
Per tornare all’inizio, ecco per quale motivo è importante viaggiare, prendere visione di altre culture, di altri consessi sociali; per almeno intuire, nella sincronica (e spaziale) differenza tra i popoli, la tendenza allo sviluppo nel tempo storico, la necessità di rompere immobilismi e incrostazioni “incivili”, che portano a considerare se stessi come perfetti, il proprio modo di vivere, la propria cultura e morale come il migliore dei mondi esistenti e possibili. Oggi, tuttavia, viaggiare sembra consistere solo nel fare turismo, passare cioè velocemente per paesi, popolazioni, culture e civiltà svariate, “consumandole” con assoluta superficialità e frettolosa ingordigia. L’atteggiamento comune appare simile a quello delle masse di visitatori intorpiditi e cotti di stanchezza, che affollano le numerose mostre d’arte di cui non capiscono gran che, ma che debbono essere “scorse” perché così vuole il modo moderno di “acculturarsi”.
La lingua è già un potente diaframma che ostacola l’adeguata comprensione di una cultura diversa, di un diverso modo di vivere. Vengono colti solo alcuni segni esteriori, nei paesaggi, nello stile architettonico, nella cucina, nel modo di vestire, nel tipo di divertimenti e svaghi, nella sessualità. Si afferra qualche spezzone di usanze particolari (se sono così differenti dalle nostre da colpire la nostra fantasia più estrinseca), di organizzazione differente della vita quotidiana, di peculiari riti collettivi (religiosi o meno); nel migliore dei casi, si avverte la presenza di una certa specifica organizzazione sociale, istituzionale e politica. Nulla di tutto questo significa conoscere veramente un altro popolo per arrivare a meglio comprendere, tramite questa nuova consapevolezza dell’alterità, le nostre stesse – e storicamente determinate e transeunti – concezioni del mondo, cultura, regole di convivenza, ecc.
Sarebbe allora meglio leggere di più sul mondo, sulla sua storia, sulle varie culture, sui vari sistemi di vita. Si tratterebbe magari di una conoscenza solo libresca, ma almeno più approfondita, più attenta al passato e ai sommovimenti profondi che si stanno ora verificando su scala planetaria. Tanto più che – “al di sopra” delle permanenti enormi dissomiglianze tra area e area, tra etnia ed etnia, tra nazione e nazione – stanno passando alcuni efficaci fenomeni di omologazione generale: dall’industrializzazione forzata, con stravolgimento delle tradizioni agrarie più pervicaci e resistenti, ai segnali più banali, ma non privi di significato, come ad es. il consumo di coca cola, il rock, la foggia occidentale di vestire, ecc. Questa omologazione avrà pure un qualche significato, non è affatto casuale, ha sue cause precise e potenti, che non si colgono girando come ciechi, attratti solo dagli aspetti esteriori di tradizioni e costumi che, come nel caso dell'”esotismo” di certe culture da noi molto lontane, servono ormai spesso ad uso turistico (magari per vendere spettacoli banali e prodotti del cosiddetto artigianato locale).
In realtà, la vera conoscenza implicherebbe una certa durata di permanenza in un dato luogo, il superamento, o l’aggiramento, dell’ostacolo della lingua, la conoscenza non tanto di singole persone quanto di alcuni specifici ambienti del paese in cui si staziona; meglio ancora se ci si immette in una cultura diversa perseguendo specifici obiettivi, di lavoro o altro. Ma non è affatto questo, salvo qualche eccezione, l’atteggiamento mentale con cui la gente viaggia, si muove da un paese all’altro e, sempre più spesso ormai, da un continente all’altro. Per questo motivo, si torna generalmente a casa confermandosi in una delle convinzioni che rappresentano i classici due lati della stessa medaglia: o si ritiene il proprio paese, la propria cultura e modo di vita, come superiori ad ogni altro; oppure – pur mantenendo intatti tutti i propri “vizi” e abitudini – si dichiarano più civili gli altri paesi, e popoli, in base a considerazioni del tutto superficiali, soprattutto in base alla propria scontentezza e malessere relativamente alla vita che è dato di vivere nel proprio paese, giudicata insensata, e incivile, sol perché non si riesce a dar senso ad essa (e non ci si riuscirebbe in nessun altro posto in cui si potesse vivere).
In genere, anzi, questi due atteggiamenti apparentemente contrapposti – ma figli della stessa ignoranza dell'”altro” e, quindi, di se stessi – appaiono alternativamente, a seconda delle contingenze e dei malumori di vario segno, nelle stesse persone. I più disincantati ed “evoluti” (che si credono tali!) possono al massimo arrivare alla dichiarazione di un radicale relativismo culturale, di una completa indifferenza a questo o quel valore, a questo o quel sistema di normazione sociale, a questa o quella regola di vita e concezione del mondo. Tutto sarebbe fondamentalmente eguale, perché mancante di qualsiasi fondamento, perché arbitrario e casuale; tutto viene così immerso in una “notte in cui tutte le vacche sono nere”. E anche tale atteggiamento è solo frutto di ignoranza, di non considerazione dell’autentico significato – diacronico e sincronico – da attribuire alla diversità dell'”altro da sé”.
Tutto questo agitarsi inconsulto non porta affatto ad un autentico spirito di tolleranza reciproca; la stessa indifferenza può facilmente tramutarsi in reciproco odio feroce non appena i propri interessi, la propria tranquillità, il proprio modo di vivere vengano minimamente turbati dall’altro, dal diverso. Tollerare veramente può solo chi comprenda sino in fondo la differenza tra i diversi mondi, chi non abdica minimamente al proprio sistema di vita, ma riconosce funzionalmente e storicamente (sincronicamente e diacronicamente) il senso dei vari mondi esistenti e sa criticare ciò che di caduco, di ormai “incivile”, di non più congruo, esiste nella propria come nelle altrui culture. Questione complessa, certamente, di non facile risoluzione; ma tanto più difficile ad affrontarsi quanto più il viaggiare delle masse continuerà ad essere puro turismo, non interpenetrazione reciproca di modi di sentire, di ragionare, di vivere.
Insomma, affinché gli individui e le diverse società (che sono composte di individui, almeno nell’epoca moderna) si conoscano veramente, occorre che si verifichi una loro autentica interazione. Quest’ultima, però, esige stanzialità, partecipazione alla quotidianità di una certa popolazione, alla sua vita familiare e sociale, alle sue manifestazioni culturali, al suo lavorare, alla sua stampa ed editoria, ai suoi riti collettivi, e via dicendo. Occorre tempo, pazienza, fatica, non corsa attraverso quanti più paesi si può, coprendo quanti più Km. è umanamente possibile percorrere. Sembra più utile la conoscenza intensiva di un singolo “luogo” (culturale) alla volta, che non la superficiale ricerca estensiva di informazioni effimere, a spizzico, sui “luoghi” più svariati.