RITAGLI DI GIORNALE – 04.04.2015 di Malachia di Armagh

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Il 23 marzo il premier Matteo Renzi è intervenuto alla Luiss e davanti agli studenti ha riproposto alcuni punti “forti”, ripetuti più volte negli ultimi tempi, che caratterizzano il suo modo di fare propaganda politica. Tra l’altro ha ribadito, in polemica con Scalfari, le sue convinzioni sul miglior “stile” di governo per il nostro paese:

<<C’è bisogno di un governo che faccia il governo. Autorevoli pensatori e professori mi accusano di essere autoritario, qualcuno ha parlato di democratura. Se non si decide il paese viene consegnato alla palude. Se non avessi preso decisioni saremmo di fronte al fallimento della democrazia>>.

E ancora:

<<Trovo avvilente che chi parla di ‘dittatura’ e democratura, non dica che in un sistema democratico chi è legittimato a decidere non è un dittatore. Quando c’è uno che decide si chiama democrazia[…]. Tradisce la fiducia chi passa il tempo a vivacchiare e a far scorrere i giorni senza che l’Italia abbia le riforme di cui ha bisogno>>.

Prendendo in contropiede coloro che lo ritengono un bravo comunicatore e magari soltanto quello Renzi ha, poi, esposto alcune considerazioni autocritiche:

<<Passiamo per comunicatori ma ritengo che il governo non sia stato bravo a comunicare quello che ha fatto. Rovescio l’assunto: il governo ha fatto molto di più di quello che ha comunicato. E questo lo considero un errore clamoroso. Chi fa più di quello che comunica nella politica di oggi sta sbagliando tutto perché comunicazione è il modo di entrare in rapporto con i cittadini che sono i controllori, punto di riferimento fondamentale>>.

Il primo ministro ha poi parlato della sua idea di ” centralità della politica” e della necessità di cambiare “modus operandi” ricordando, tra l’altro, che <<siamo un Paese in cui i ministri cambiano di anno in anno e i tecnici restano per sempre. Spesso chi comanda è il tecnico perché ha le informazioni chiuse nel cassetto. Il capo del gabinetto padrone dell’informazione, può orientare la decisione>>.

Il professor Panebianco ci ha ormai abituato ad interventi sul Corriere dal contenuto particolarmente “partigiano” e di un filo-atlantismo smodato; su Renzi che – dopo il pensionamento di Napolitano sembra avviato a diventare il nuovo commissario governativo per gli Usa in Italia – già nel giugno dello scorso anno scriveva:

<<Matteo Renzi sta forzando, spingendolo a cambiare, un sistema politico-istituzionale, i cui riti, le cui pratiche, le cui procedure, sono al servizio dell’immobilismo, della mediazione senza decisione. Ottenendo per giunta, lui indiscutibilmente uomo di sinistra, di essere trattato come un politico di destra da quella parte del suo partito e del suo mondo abituati a credere che la decisione non abbia nulla a che fare con la democrazia, abituati a credere che la cosiddetta «dialettica democratica» sia più o meno raffigurabile così: un gruppo di persone che si agitano tanto, stando, ciascuna, rigorosamente ferma sulla stessa mattonella. Il massimo di movimento apparente unito al massimo di immobilismo sostanziale>>.

Adesso, passato poco meno di un anno, quasi nessuno se la sente di dire che Renzi sia indiscutibilmente un uomo di sinistra sia perché l’idea di sinistra che il “politicamente corretto” tenta di propinarci appare sempre più confusa sia perché, per talune aree politico-culturali, “sinistra” e “Stato sociale” sono sinonimi e il premier ha portato avanti nell’ultimo periodo una linea che critica la politica Ue dell’austerità ma in funzione della priorità riservata alle esigenze di banche e imprese e quindi, concordemente con tutte le istituzioni e gli stati guida dell’Unione, che punta a finanziare essenzialmente le “sofferenze” degli istituti di credito con la leva monetaria e con quella fiscale. Il Qe (alleggerimento quantitativo), in fondo, è stato finalmente deciso proprio perché gli stati europei siano a loro volta in grado di supportare queste esigenze e di limitare il credit crunch. Il piano Juncker con l’aiuto delle Bei potrebbe, nei prossimi mesi, portare ad una iniezione di 315 miliardi di euro nell’economia della Ue destinati, in teoria, a supportare direttamente l’economia reale ma di fatto questo flusso, quando non passerà attraverso i grandi istituti di credito indipendenti, sarà gestito dalla banche nazionali di sviluppo come la nostra Cdp. Sempre nell’articolo di cui sopra il politologo, inoltre, affermava che

<<quella di Renzi è una politica della decisione che si trova a fronteggiare sia istituti sia idee, visioni della politica, costruite su opposti principi. Costruite, più precisamente, su un insieme di (aberranti) sillogismi: «La decisione è di destra. La destra è fascismo, l’opposto della democrazia. La democrazia, quindi, è non-decisione, è mediazione senza decisione». Diversi Soloni, difensori dell’intoccabilità della Costituzione, disinteressati o ignari di come funzionano le buone democrazie, lo hanno eletto a dogma e il dogma, col tempo, si è trasformato per tanta gente in luogo comune: provare a fare dell’Italia una democrazia che decide significa coltivare disegni autoritari, significa avere nostalgie di fascismo. È su questo scoglio, su questa barriera mentale che si è sempre infranto, fino ad oggi, ogni serio tentativo di riforma istituzionale. Ed è anche il paradosso del politico Renzi>>. A proposito di democrazia deliberativa e decisione mi sembra utile riportare alcune considerazioni tratte da una intervista (del 03.09.2014) alla professoressa Nadia Urbinati, titolare della cattedra di Scienze Politiche alla Columbia University di New York, in cui ella definisce

<<la democrazia, un sistema di governo e una forma politica che riposa essenzialmente sul discorso, l’arte della persuasione che muove in concerto persone tra loro diverse ed estranee. Incanalare le azioni verso la decisione (ovvero verso un esito univoco) è opera delle procedure democratiche, convenzioni che sono coerenti ai principi di questa forma di governo: contare voti di egual peso secondo la regola di maggioranza e lasciare che ciascuno contribuisca con la parola alla costruzione della decisione. Il legame con il mondo sociale e storico è inevitabile in quanto queste procedure agiscono su una materia che à fatta di interessi e opinioni di individui concreti, i protagonisti del governo democratico>>.

Quindi le procedure deliberative costituiscono l’assetto formale di un certo “regime” politico che viene chiamato democrazia ma il nocciolo della questione implica la presa in considerazione delle complesse relazioni tra democrazia, libertà, potere di disposizione e potere di decisione. Le ulteriori osservazioni della Urbinati, che qui di seguito propongo, non mi sembrano a tal proposito esaustive:

<<il liberalismo politico (governo moderato e fondato sui diritti individuali) e la democrazia sono intrecciati perché senza le libertà di parola e associazione i cittadini non possono contribuire a costruire opzioni politiche e a scegliere di schierarsi, pro o contro, ovvero a formare una maggioranza o a finire all’opposizione. Si ritorna insomma al ruolo fondamentale che la libertà politica assume nel garantire l’isegoria(1). Autori come Chantal Mouffe che insistono sulla centralità del conflitto in democrazia hanno però difficoltà a contemplare il momento della decisione. Quando si decide, si verifica un’interruzione momentanea del processo conflittuale o di antagonismo – o meglio quel processo si sposta fuori dalle istituzioni, le quali procedono secondo quella specifica visione selezionata dalla maggioranza. Quindi non è sufficiente dire che la democrazia è basata sul conflitto (o il suo opposto, il consenso); bisogna specificare che la democrazia è prima di tutto metodo di decisione basato sulla regola di maggioranza. Questa specificazione è fondamentale perché elimina alla radice il consenso unanimistico, che non fa parte della democrazia anche perché esso può conferire il potere di veto anche a uno solo, ovvero assegnare potere alla minoranza invece che alla maggioranza. La democrazia comincia quando non si è d’accordo e si deve poter decidere e quando di decide di decidere contando i singoli voti secondo il principio di maggioranza, che, come si intuisce, presuppone l’esistenza di una minoranza (cosa che, invece, il principio unanimista non presuppone: qui, infatti, l’esistenza dell’opposizione è vista come una sconfitta). La regola di maggioranza e il voto individuale sono le condizioni fondamentali che caratterizzano la democrazia rispetto a sistemi non-democratici. E’ per questo che liberalismo (quello politico) e democrazia si implicano a vicenda, hanno bisogno l’uno dell’altro>>.

Traggo ora dalla voce Teoria delle elites di Giorgio Sola (Enciclopedia Treccani – 1993) alcuni spunti che credo si possano ricollegare ad alcune riflessioni di La Grassa negli ultimi anni. Lo studioso accenna al confronto che la suddetta teoria ha sviluppato con il modello marxista e con quello pluralista. Alla teoria delle classi, di derivazione marxiana, si è obiettata l’infondatezza dell’assunto che lega indissolubilmente il potere politico al potere economico. L’origine della formazione delle ineguaglianze sociali e politiche, nonché della contrapposizione tra dominanti e dominati, secondo gli elitisti non va ricercata nella proprietà privata dei mezzi di produzione, “bensì nella struttura di autorità presente nei diversi contesti organizzativi”. In ogni organizzazione s’individuano non due classi, ma due gruppi contrapposti: coloro che occupano le posizioni di vertice e monopolizzano il potere e coloro che si trovano a svolgere ruoli subordinati. “In una società quindi vi possono essere tanti gruppi dominanti quante sono le principali organizzazioni esistenti, e i loro rapporti possono essere improntati alla competizione e al conflitto oltre che alla coesistenza e alla concertazione”. L’altro modello, quello pluralista, risale ad Arthur F. Bentley (1908) e interpreta la politica come il risultato di un’incessante interazione tra gruppi di interesse e di pressione. Secondo questo modello, sviluppato negli anni cinquanta da David Truman e David Riesman, la struttura del potere delle società contemporanee risulta caratterizzata da un sostanziale equilibrio di forze controbilanciate: “non esiste una élite dominante, ma una disgregazione del potere connessa a una pluralità di gruppi che competono e si controllano a vicenda nell’articolazione degli interessi e nella traduzione di questi in domanda politica”. A questa configurazione gli elitisti hanno contrapposto il modello della concentrazione del potere nelle mani di una élite più o meno unitaria, e hanno eccepito la natura apparente e superficiale della conflittualità degli interessi in gioco, che maschera la realtà della difesa di alcuni interessi predominanti. Di mio posso aggiungere, partendo da La Grassa, che il sistema rappresentativo e il principio di maggioranza in quanto forma fenomenica del regime detto democratico nascondono l’elemento essenziale, ovvero la lotta tra coloro che, come aggregazione di individui in gruppi, hanno il potere di disposizione effettivo delle risorse – non solo economiche ovviamente ma anche organizzative, scientifico-culturali, militari, di polizia ecc. – necessarie per il conflitto strategico finalizzato alla conquista della supremazia. Non sono le procedure formali, il voto, le norme costituzionali atte a garantire che le decisioni vengano prese a maggioranza, a determinare la possibilità per (tutti) gli individui e gruppi sociali di partecipare alla lotta per il potere ma l’effettivo comando su determinate risorse necessarie per ambire all’esercizio del dominio.

E adesso concludiamo con un altro, recentissimo (29.03.2015), articolo di Panebianco:

<<Sia Berlusconi ai suoi bei dì che Matteo Renzi da quando è al governo sono stati accusati di autoritarismo, di rappresentare una minaccia per la democrazia. Ma c’è una grandissima differenza. Berlusconi aveva contro (ferocemente contro) metà dell’Italia e, per conseguenza, anche una grande quantità di persone che contavano tantissimo sia dentro che fuori il Paese. Renzi, invece, è accusato di autoritarismo solo da una minoranza (sinistra pd, Cinque Stelle, una parte del sindacato), per lo più composta da sconfitti, molti dei quali presumibilmente in marcia verso una definitiva marginalità politica . Non è la stessa cosa. E infatti le campagne contro Berlusconi e il suo supposto autoritarismo videro impegnati eserciti sterminati, guidati da persone dotate delle risorse necessarie per alimentare un volume di fuoco elevatissimo, capaci anche, ad esempio, di arruolare nella crociata antiberlusconiana fior di cronisti stranieri, figure di spicco del Parlamento europeo, eccetera eccetera. Niente del genere è accaduto e accade a Matteo Renzi>>.

Evviva, il grande politologo, l’ha detto ! Come il blog e La Grassa e Petrosillo in primis hanno ripetuto da tempo immemorabile l’Italia è veramente una semicolonia guidata dai “cotonieri” e da emissari Usa. Berlusconi, fino alla sua caduta “prima della caduta” (La Grassa docet) era una anomalia, non era l’uomo giusto, si muoveva a volte in maniera autonoma. Era liberale, liberista e anticomunista ma “populista” e quindi nei fatti preoccupato per la possibile perdita dei consensi non solo nel ceto medio ma anche tra i lavoratori autonomi (a reddito medio-basso) e dipendenti delle piccole imprese. Della sua politica estera poi è stato detto tutto. Ma Renzi, invece, è l’uomo di Obama, adesso, e lo sarà, salvo incidenti, anche del prossimo presidente Usa, poco importa se repubblicano o democratico. Per il momento, quindi, è in una “botte di ferro” anche se gli imprevisti sono sempre possibili come la disgraziata fine di Attilio Regolo ci rammenta. Panebianco conclude tentando di defilarsi ma inutilmente:

<<non c’è contraddizione fra volere un rafforzamento del governo (e dunque un accrescimento delle capacità d’azione di chi momentaneamente lo controlla) ed essere pronti a criticarne le singole decisioni e azioni. Proprio se si auspica, perché serve alla democrazia, un più forte potere esecutivo, occorre essere pronti a fargli le bucce ad ogni passo falso. Le democrazie hanno bisogno di governi forti (e chi scambia ciò per «autoritarismo» prende lucciole per lanterne). Non hanno invece bisogno di stuoli di cortigiani sdraiati ai piedi del suddetto governo forte. E il premier ne ha tanti>>.

Abbiamo bisogno di critici intelligenti e moralmente integri, di politici e pensatori che rifiutino di comportarsi da servi. Dove trovarli ? Si accettano suggerimenti.

(1)Da Wikipedia- Isegoria (da isos = uguale + ὰγορεύω = parlare in assemblea) designa l’eguale possibilità di prendere parola nelle pubbliche assemblee, considerata uno dei cardini della democrazia greca.