RITAGLI DI GIORNALE – 15.04.2015 di Malachia di Armagh

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RITAGLI DI GIORNALE – 15.04.2015  di Malachia di Armagh

Nel suo editoriale del 29.03.2015 Eugenio Scalfari scriveva, facendo riferimento a un suo articolo di una settimana prima

<<Si discuteva del rapporto tra governo e pubblica amministrazione e feci il nome di Marco Minghetti(1). Visse e scrisse (e governò) 150 anni fa, e credo che come tutti i maestri sia ancora di attualità. Tra le tante cose che disse c’è una frase che trovo molto significativa: “Napoleone governò per vent’anni la Francia e il suo fu un governo che ammodernò il Paese e tutelò l’eguaglianza ma non la libertà e perciò ebbe più difetti che virtù”>>.

E parlando di Renzi subito dopo, per contiguità od opposizione decidetelo voi, si esprimeva dicendo:

<<In poco più di due anni è passato dal ruolo di comparsa a quello di protagonista. Quindi ha se non altro i pregi dell’innovazione, del coraggio e della volontà. […]È ispirato dal desiderio d’essere giovevole agli italiani, molti dei quali ripongono in lui la fiducia e quell’obiettivo ha già cominciato a realizzarsi e in tempo breve lo raggiungerà pienamente>>.

Però il “pontefice” non può fare a meno di rilevare qualche difetto nell’”uomo nuovo”:

<<… un altro elemento fondamentale di Renzi è il suo Narciso. L’amore per se stessi c’è in tutti gli umani e particolarmente in quelli che si occupano professionalmente della conquista del potere. Qualunque potere, quello politico e quello economico in particolare e spesso quei due poteri sono affiancati. Renzi ama molto se stesso, ma questo è normale. Resta solo da sapere se quest’amore non disturba il suo desiderio di giovare agli altri>>.

Tornando a Minghetti Scalfari, nel desiderio di dispensare buoni consigli riporta una citazione:

<<l’uomo mira all’utile proprio e non all’altrui, anzi è pronto a immolare questo a quello. L’uomo singolo, come l’unione di molti e ogni classe della società e ogni corporazione tendono sempre a esorbitare, uscendo fuori dalla sfera dei loro diritti per invadere gli altrui >>.

E a questa fa seguire una sua annotazione – desunta sempre dai discorsi del politico vissuto nel XIX secolo – in cui osserva che questo principio illegittimo può essere contenuto dall’intelligenza di chi governa e vuole essere di giovamento agli altri “sicché tiene per la briglia il suo Narciso affinché gli altri gli rinnovino la fiducia e rafforzino il suo ruolo di protagonista”. Di seguito egli – in base alle considerazioni precedenti – avanza decise critiche, nei confronti di Renzi, a proposito dell’accentramento dei poteri all’interno della compagine governativa in cui hanno un ruolo importante, in termini effettivi, solo le persone del suo “staff” e stigmatizza in termini negativi la riforma costituzionale, con il suo contorno “elettorale”, che vede un nuovo Senato, dal ruolo del tutto secondario, nominato dalle Regioni e dal partito di maggioranza e una Camera nella quale le preferenze dei cittadini-elettori avranno ben poco peso. Insomma il progetto renziano avrebbe come caposaldo due principi “eretici”: quello che ritiene debba essere il governo a determinare e guidare l’azione del  parlamento e quello della governabilità come presupposto da imporre a tutti i costi. In conclusione per il “papa laico”

<<l’effetto di tutto il sistema che abbiamo considerato è evidentemente quello di evocare la tentazione dell’autoritarismo>>.

Più avanti Scalfari inizia ad intavolare una dotta disquisizione sulla natura ed articolazione del fenomeno della corruzione politica:

<<La prima distinzione da fare è tra il reato penale (le cui pene sono state aumentate nel disegno di legge in discussione) e il codice etico che dovrebbe essere applicato dalla pubblica amministrazione attraverso le necessarie inchieste effettuate anzitutto sulla medesima pubblica amministrazione e poi anche dal consiglio della magistratura per quanto lo riguarda e dal governo sui suoi membri. Quello che abbiamo chiamato codice etico si può anche chiamare con più chiarezza un peccato e la distinzione è dunque fra il peccato e il reato. La punizione del peccato non può prevedere restrizioni della libertà personale ma semplicemente sospensione o rimozione dall’incarico e relativa denuncia, ove ne ricorrano gli estremi, alla magistratura. Per il reato vale il principio della presunta innocenza fino a sentenza definitiva, per il peccato questo principio non vale e quindi una volta acquisiti i risultati delle varie inchieste, la punizione può e deve avvenire subito, come del resto è avvenuto nel caso Lupi>>.

Il moralismo, e come potrebbe non essere così, viene qui eretto a sommo principio anche per il diritto e la politica, con buona pace di Kant e Hegel. Il primo distingueva tre dottrina del diritto e dottrina delle virtù e le teneva ben separate mentre il secondo che tirava le conclusioni attraverso un processo di mediazione e di conservazione-inclusione dei momenti precedenti declinava il nomos attraverso i passaggi dal diritto astratto (privato) alla moralità e da questa all’eticità (diritto pubblico). Scalfari ipostatizza tutto sotto il primato della legge morale identificata come il lato positivo della peccaminosità che implica e deve implicare un elemento “devozionale”. Il peccato è la disobbedienza del devoto ai precetti, veri e ultimativi, di una entità trascendente; nel caso di Scalfari presumibilmente della “divina” democrazia laica, anche se perdutamente innamorata di Francesco, il “papa nuovo”, il papa moralista in cui il sacro si è eclissato e che è diventato finalmente “come uno di noi”.

Ma torniamo a Marco Minghetti con una nuova lunga citazione scalfariana:

<<Ministri, senatori, deputati e uomini politici di ogni sorte hanno una tendenza ad insinuarsi nella giustizia e nell’amministrazione per trarne profitto per se medesimi e per gli aderenti ai loro partiti per mantenere il governo nelle proprie mani. Codesto pericolo che spunta sempre dove il governo di partito cresce e giganteggia si svolse storicamente per una serie lunga e non interrotta di ampliamenti e di adattamenti. Ma il vero rimedio è quello di creare o favorire le istituzioni autonome, gli enti morali e le associazioni che tengano insieme una parte dei cittadini. Con cittadini disgregati ogni conato di resistenza sarà vano ed è per questo che le democrazie sgranate si acconciano facilmente ad un padrone e purché egli rispetti l’eguaglianza, calpesti a suo talento la libertà. L’associazione, organizzandole, raddoppia le forze dei singoli che la compongono, le disciplina e le prepara a resistere ad ogni usurpazione. Ho sovente considerato quanto poco ci siano istituzioni del genere in Italia rispetto a tutti gli altri Paesi d’Europa>>.

Questi passi mettono in evidenza, tra l’altro, una concezione dell’eguaglianza molto diversa da quella sociale-socialista e lontana anche dal modello liberalsocialista nella versione di Bobbio. A tal proposito così si esprimeva Hayek in un brillante breve saggio:

<< La libertà per tutti poteva essere realizzata soltanto se, come afferma la famosa formulazione di Kant, la libertà di ciascuno non andava oltre ciò che era compatibile con una eguale libertà per tutti gli altri. La concezione liberale della libertà era dunque necessariamente quella della libertà nella legge, una legge che limitasse la libertà di ciascuno al fine di garantire la medesima libertà a tutti.>>

Si tratta in termini marxiani dell’eguaglianza formale dei possessori di merci e quindi degli attori che, attraverso le transazioni che si sviluppano tra loro, stabiliscono dei rapporti sociali di scambio in un sistema che, non solo nella sfera economica, garantisce il rispetto delle regole del libero mercato. Il disvelamento del manto ideologico che ricopre questi rapporti è stato ampiamente sviluppato da La Grassa nei suoi ultimi libri. Per quanto riguarda la vecchia questione concernente il ruolo e l’importanza dei corpi sociali intermedi si può in qualche modo ritenere utile la proposta di considerare  tre fondamentali tipologiedi“istituzioni autonome, enti morali e  associazioni”: 1) una di tipo politologico, che denota una forma di mediazione degli interessi, e del loro governo, avente una propria autonomia, con potere superiore agli individui ma inferiore a quello dello Stato. Si tratta dei  “corpi intermedi” propriamente detti, che rimandano a una concezione organica e stratificata della società, anche se, con l’avvento dell’epoca moderna, può in qualche modo adattarsi a una concezione pluralistica e funzionale dell’organizzazione societaria; 2) una di tipo economico, nella quale l’associazione è espressione della ricerca di interessi comuni che, per quanto latamente intesi, sono concepiti e governati da una logica dell’utilità. In questa accezione le associazioni sono i soggetti di una società concepita come mercato; si possono muovere, parallelamente, anche nella sfera politica, la quale diventa allora un’ “arena”; 3) una di tipo sociologico, che denota una relazione o processo di unione, cooperazione, connessione a maglie più strette o più larghe, e il prodotto di tali relazioni e processi, in funzione di obiettivi essenzialmente sociali, cioè volti al benessere, o comunque a beni relazionali, secondo modalità autonormative.  Dal nostro punto di vista il secondo “idealtipo” risulta, comunque, essere quello più importante e socialmente predominante anche perché si collega in maniera diretta al concetto di gruppo sociale inteso come “insieme unitario di elementi orientato strategicamente” in funzione della lotta per la supremazia politica e sociale. Il duello tra Scalfari e Renzi nelle ultime settimane è stato, però, spesso collegato ad un neologismo, prodotto genuino del politichese giornalistico ad uso dei semicolti, definito con il termine “democratura”. Sarebbe stato troppo semplice e banale utilizzare le parole stato di diritto, legalità e legittimità, dittatura commissaria, dittatura sovrana ecc.. Si sarebbe finiti per scomodare il vecchio e molesto Carl Schmitt; meglio, invece, richiamarsi (in un articolo del 08.03.2015) ad un più modesto studioso come

<<Lucio Caracciolo, direttore del prestigioso Limes e nostro collaboratore, [che (N.d.r.)] cita una parola molto efficace: democratura, che nasce dalla fusione tra democrazia e dittatura e con essa definisce la Russia di Putin: c’è il demos, cioè il popolo e c’è Putin che comanda da solo. Il Parlamento, cioè la Duma, non conta niente, si limita a ratificare. Neppure il governo conta, serve solo a trasmettere alle province dell’Impero gli ordini del dittatore e a farli eseguire dalla burocrazia. Alcuni ministri invece, insieme a Putin, al capo dei Servizi di sicurezza e qualche grande manager economico, costituiscono l’oligarchia, il gruppo che, guidato da Putin, amministra l’Impero. Questa democratura esiste ed è sempre esistita in tutti gli Imperi, nei quali bisogna amministrare una grande quantità di diverse etnie, diversi linguaggi, diverse culture ed economie. Nel presente di oggi lo troviamo in Cina, in Giappone, in Usa. In Europa no perché l’Europa non è uno Stato. I vari statarelli conservano ancora una democrazia più o meno solida. Ma la tentazione verso la democratura in alcuni di essi è abbastanza forte. Diciamo che la democrazia è difficile da conservare negli Imperi e negli statarelli la tentazione esiste ma di solito non si realizza. Per fortuna, perché ove mai si verificasse diventerebbe una tirannide vera e propria>>.

La caratterizzazione della Russia e del suo capo è perfettamente in linea con quella proposta da Panebianco e riportata in un nostro precedente post; l’atlantismo e la sudditanza nei confronti degli Usa sono il legame ferreo che unisce i presunti critici di Renzi al capo del governo. Di fronte a questo, per coprire questa realtà, viene inscenata una commedia, un gioco delle parti a cui partecipano la minoranza Pd, frammenti di partiti e partitini, aree sindacali ecc.. Così, ad esempio, Scalfari e gli scalfariani, tra gli altri, si divertono ad usare toni falsamente critici, al limite dell’intransigenza:

<<la tentazione della democratura si farà sempre più forte ed è questo che si deve evitare. Alla Germania, alla Francia, alla Spagna ben poco importa, ma a noi italiani, o almeno a quelli consapevoli e motivati alla difesa dei diritti che abbiamo e del dovere di difendere la democrazia, importa moltissimo. La scelta spetta a Renzi e all’oligarchia che gli sta accanto. Non può continuare a spogliare il potere Legislativo e avviarsi verso un Esecutivo accentratore, dove non contano neppure i ministri ma piuttosto lo staff di Palazzo Chigi.(articolo del 08.03.2015)>>

<<Questo fatto conferma che Jobs act è una buona legge se e quando riprenderanno investimenti e domanda, ma finché questo non accadrà il Jobs act è un oggetto esposto in vetrina. Gli imprenditori lo guardano ma in vetrina rimane. Salvo un punto: ha abolito l’articolo 18 per i lavoratori che saranno assunti con quella legge. Proposta da un partito che si proclama di centrosinistra mi ricorda la citazione poc’anzi riportata di Julliard: la sinistra senza popolo è morta. Renzi sostiene che si tratta di una sinistra nuova, moderna, cambiata e forse è vero. Però a me ricorda alcuni personaggi che provenivano tutti dal socialismo e che instaurarono qualche cosa che somiglia molto alla democratura. Si tratta di Crispi, Mussolini, Craxi. E chiedendo scusa ai tre precedenti (come ho già detto tutti e tre provenienti dal socialismo) mi viene anche da aggiungere Berlusconi che ai tempi del suo sodalizio con Bettino si proclamava socialista anche lui. (articolo del 12.04.2015)>>

Parole da autentico leader dell’opposizione all’attuale governo !! Ma è solo uno scherzo.  In realtà stiamo semplicemente assistendo ad una piccola e misera farsa, anche se non si può escludere che in questo momento vi sia un  qualche collegamento tra settori del Pd in difficoltà e il “guru” laico con i suoi accoliti, spaventati dalla prospettiva di perdere le loro rendite di posizione, acquisite da tempo e mai rimesse veramente in discussione.

 

(1)Marco Minghetti (Bologna, 8 novembre 1818Roma, 10 dicembre 1886) è stato un politico italiano, appartenente alla destra storica. Sotto il suo secondo governo si raggiunse (nel 1876), per la prima volta in Italia, il pareggio di bilancio. […] Tuttavia, paradossalmente, fu proprio il pareggio di bilancio che segnò la sua caduta: due giorni dopo, infatti, dopo l’annuncio del raggiunto risanamento finanziario, Minghetti fu battuto alla Camera su un progetto di statalizzazione delle ferrovie, avendo contro la Sinistra e gran parte del suo stesso schieramento politico. Fu la cosiddetta “rivoluzione parlamentare, che portò alla caduta della Destra e alla salita al potere di Agostino Depretis, capo indiscusso della Sinistra: Minghetti fu così l’ultimo primo ministro di Destra dell’Italia liberale. (Da Wikipedia)