SENZA L’ACQUA DELLA SCIENZA L’ALBERO DELLA VITA INARIDISCE

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Marx era uno scienziato, nel senso pieno del termine. La scienza era per lui la strada da intraprendere per portare finalmente alla luce, sottraendola alle tenebre della mistificazione ideologica e della “favolistica” sociale, la logica intima del capitale, fondata sulla perpetuazione dello sfruttamento (la sottrazione del pluslavoro dai salariati nella forma del plusvalore) e sull’allargamento (riproduzione) del suo rapporto sociale “a dominanza”.
Per queste ragioni egli rifuggiva le spiegazioni consolatorie – queste scorciatoie battute dai filosofi, dai sociologi, dagli storici ecc. ecc. (quanti ce ne sono anche nel nostro tempo?) sempre pronti a coprire con i loro pannicelli caldi e con gli unguenti lenitivi le ferite mai suturate dei dominati – diversamente dai tanti sognatori socialisti a lui coevi, i quali con tanta volontà e poco cervello, disperdevano energie in sempre fallimentari esercizi d’ingegneria sociale.
Per questo il pensatore tedesco non concesse mai nulla agli adulatori degli sfruttati (veri avvelenatori dei pozzi della scienza) e a tutti quelli che pretendevano di sostituire i pii desideri alle fonti scientifiche del pensiero critico, per meglio indebolire la lotta degli sfruttati con raggiri ideologici di ogni genere. Al contrario, Marx guardava con profondo rispetto alla “brutalità” scientifica di un Ricardo, a sua volta economista irriguardoso dei richiami di classe, che per amore dell’indagine e della descrizione puramente ed onestamente scientifica, non si curava degli effetti delle sue teorie sui rapporti di forza capitalistici, tentando di aggiustare i risultati delle sue ricerche per compiacere qualcuno.
La volontà marxiana di spiegare criticamente il modo di funzionamento della società capitalistica, di aprire alla scienza un nuovo continente, quello della storia, non poteva prescindere dalla costruzione di una Teoria generale, scientificamente coerente, che permettesse di risalire alla verità e al nucleo duro del modo di produzione capitalistico, dipanandone le sue intime leggi di sviluppo. Non l’apparenza fenomenica, ma l’essenza delle cose, celata dietro la prima, era il suo obiettivo basilare. Marx dirà esplicitamente che le forme sotto le quali si presenta il mondo capitalistico sono sì distorte ma socialmente valide e quindi reali. Il mondo “presuntamente” oggettivo perde però il suo misticismo (l’apparenza fenomenica) non appena si riescono a penetrare i rapporti sociali che ne stanno alla base, diradando la nebbia e l’incantesimo che avvolge la loro forma storicamente determinata.
Chi si è servito di Marx (e continua a servirsene) per dare sfogo ai propri sentimentalismi moralistici meriterebbe di essere messo in croce due volte: una volta perché impedisce al pensiero di uno scienziato di “consumarsi” nella scienza, cioè di essere superato (qui sta l’incommensurabile contributo che ogni teoria scientifica dà al flusso continuo delle conoscenze) per andare al di là dei suoi limiti; ed un’altra volta perché attraverso la pietrificazione della teoria, in questo caso di quella marxiana (quante statue di cera sulla piazza rossa!), si ostacola il recupero e la comprensione di ciò che resta ancora valido ed utilizzabile di tali importanti scoperte
scientifiche. La Grassa esplicita bene questo passaggio quando sostiene che“le varie teorie non vengono, in genere, semplicemente buttate nel cestino dei rifiuti, ma certo si individuano in esse, con il senno di poi, lievi o gravi errori o dimenticanze o fraintendimenti o eccessive semplificazioni, ecc. E occorrono quindi mutamenti radicali”. Ed infatti, non si vuole interamente consegnare la teoria marxiana allo sfasciacarrozze della Storia né si pensa di recuperare appena alcune parti del suo pensiero, per servirsene in qualche balzano bricolage teoretico del tipo di quelli che vanno tanto di moda nel nostro nefasto tempo.
Già Althusser aveva detto, di fronte ad una delle tante crisi del marxismo, che quest’ultimo sarebbe tornato a rivivere solo se avesse saputo mantenere la sua ispirazione scientifica facendo strame “dei pensieri più ‘stantii’ sullo sfondo di un inverosimile eclettismo e povertà teorica”. Ma, a questo punto, basterà cedere la parola a Marx per comprendere quanto egli sia stato impietoso contro quelli che pensavano di colmare col giudizio morale le loro lacune scientifiche: la “fiacca teorica” porta al successo degli abulici e degli imbelli perché serve meglio i dominanti ed è sempre foriera di scorciatoie celesti o ideologiche, con le quali consolare o portare alla rassegnazione le possibili forze sovversive della società.
Riporto, allora, i passi tratti dalle Teorie sul Plusvalore:
<< Giustamente, per il suo tempo, Ricardo considera il modo di produzione capitalistico come il più vantaggioso per la produzione in generale, come il più vantaggioso per la produzione di ricchezza. Egli vuole la produzione per la produzione, e questo a ragione. Se si volesse sostenere, come hanno fatto degli avversari sentimentali di Ricardo, che la produzione in quanto tale non è il fine, si dimenticherebbe allora che produzione per la produzione non vuol dire altro che sviluppo delle forze produttive umane, quindi sviluppo della ricchezza della natura umana come fine a sé. Se si contrappone a questo fine, come Sismondi, il bene dei singoli, allora si afferma che lo sviluppo della specie deve essere impedito per assicurare il bene dei singoli e che quindi, per esempio, non dovrebbe essere fatta nessuna guerra in cui i singoli in ogni caso si rovinano (Sismondi ha ragione solo rispetto agli economisti che nascondono, negano questa antitesi). Non si comprende che questo sviluppo delle capacità della specie uomo, benché si compia dapprima a spese del maggior numero di individui e di tutte le classi umane, spezza infine questo antagonismo e coincide con lo sviluppo del singolo individuo, che quindi il più alto sviluppo dell’individualità viene ottenuto solo attraverso un processo storico nel quale gli individui vengono sacrificati, astrazion fatta dalla sterilità di tali considerazioni edificanti, giacchè i vantaggi della specie nel regno umano, come in quello animale o vegetale, si ottengono sempre a spese dei vantaggi degli individui, poiché questi vantaggi della specie coincidono con i vantaggi di particolari individui che in pari tempo costituiscono la forza di questi privilegiati.
La mancanza di riguardo di Ricardo era dunque solo scientificamente onesta, ma scientificamente necessaria per il suo punto di vista. Ma perciò gli è anche del tutto indifferente se lo sviluppo delle forze produttive uccida la proprietà fondiaria o gli operai. Se questo progresso svalorizza il capitale della borghesia industriale, questo
gli è altrettanto gradito. Che importa, dice Ricardo, se lo sviluppo della forza produttiva del lavoro svalorizza della metà il capital fixe esistente? La produttività del lavoro umano si è raddoppiata. Qui vi è dunque dell’onestà scientifica. Se la concezione di Ricardo è, nel complesso nell’interesse della borghesia industriale, lo è solo perché e in quanto l’interesse di questa coincide con quello della produzione o dello sviluppo produttivo del lavoro umano. Quando quello entra in conflitto con questo, egli è altrettanto privo di riguardi verso la borghesia, come del resto lo è verso il proletariato e l’aristocrazia. Ma Malthus! Ce Misérable trae dalle premesse scientificamente date (e da lui sempre rubate) solo conclusioni tali che siano “gradevoli” (siano utili) all’aristocrazia contro la borghesia e a entrambe contro il proletariato. Egli perciò non vuole la produzione per la produzione, ma solo in quanto essa conserva o rigonfia l’esistente, in quanto conviene al tornaconto delle classi dominanti. Ma un uomo che cerca di accomodare la scienza (per quanto errata possa essere), a un punto di vista non mutuato dai suoi stessi interessi ma da interessi mutuati da fuori, a essa estranei, esterni, io lo chiamo “volgare”. (sottolineature di G.P.)
Non è volgare da parte di Ricardo mettere i proletari sullo stesso piano del macchinario o della bestia da soma o della merce, perché (dal suo punto di vista) la “produzione” esige che essi siano solo macchinario o bestia da soma, o perché in effetti nella produzione borghese i proletari sono solo merci. Ciò è stoico, obiettivo, scientifico. Nella misura in cui ciò può avvenire senza peccato contro la sua scienza, Ricardo è sempre un filantropo, come lo era anche nella prassi.
Il prete Malthus invece abbassa gli operai a bestie da soma a causa della produzione, li condanna alla morte per fame e per celibato. Quando le medesime esigenze della produzione riducono al landlord la sua “rendita” o minacciano le “decime” della Established Church o l’interesse dei “divoratori d’imposte” o anche sacrificano la parte della borghesia industriale il cui interesse ostacola il progresso alla parte della borghesia che rappresenta il progresso della produzione – in tutti questi casi il “prete” Malthus non sacrifica l’interesse particolare alla produzione, ma cerca, per quanto sta in lui, di sacrificare le esigenze della produzione all’interesse particolare delle classi o frazioni di classi dominanti esistenti. E a questo scopo falsifica le sue conclusioni scientifiche. Questa è la sua volgarità scientifica, il suo peccato contro la scienza, a prescindere dalla sua impudente e meccanica attività di plagiaro. Le conclusioni scientifiche di Malthus sono “piene di riguardo” verso le classi dominanti in general e verso gli elementi reazionari di queste classi in particular, egli cioè falsifica la scienza per questi interessi. Esse sono invece senza riguardi quando si tratta delle classi soggiogate. Non solo è senza riguardi. Egli affetta una mancanza di riguardo, si compiace cinicamente, ed esagera le conclusioni nella misura in cui si rivolgono contro i misérables, anche oltre la misura che dal suo punto di vista darebbe scientificamente giustificata>>.
Fin qui, dunque, la prima citazione di Marx che lascia intendere con quale mancanza
di riguardo il lavoro scientifico deve battere il campo della sua ricerca, il suo oggetto
di studio, senza cedere di un millimetro ai palpiti del cuore, nemmeno quando si
hanno dei moventi nobili. Semplicemente, non è questo il compito della scienza la quale è tenuta ad individuare e scoprire le leggi sottese allo sviluppo dei fenomeni, senza cura alcuna dei sogni e delle buone intenzioni umane. Semmai, ad un altro livello, sta alla politica e alla “sana ideologia”, smuovere le coscienze, rifacendosi alla capacità umana di appassionarsi, di esprimere rabbia, dolore, solidarietà, forza, per incardinare queste energie vitali verso l’obiettivo della trasformazione sociale.
Il secondo brano che vi propongo, ancora tratto dalle Teorie sul Plusvalore, è una divertente descrizione di come nelle società umane siano spesso gli stravizi degli uomini a favorire la maggiore dinamicità e le più ampie possibilità di progresso delle stesse. Si tratta, ovviamente, di un paradosso che mostra come certi risultati dipendono “anche” (ma solo fino ad un certo punto) dagli impulsi dei singoli, dalle azioni che essi compiono (siano esse buone o cattive, morali o immorali, egoistiche o altruistiche) e da come essi le percepiscono. Tuttavia, ed è indubitabile, sono i rapporti sociali fondamentali (dominanti, nel senso di principali) che stabiliscono le coordinate all’interno delle quali gli individui possono muoversi, e sono questi gli unici in grado di imprimere la spinta direzionale decisiva a tutte le forze, individuali e collettive, della società.
Mandeville, con la sua favole delle api, è il primo a cogliere questi aspetti ripresi anche da Marx. Per il filosofo olandese il Moro avrà parole di elogio, in quanto nel suo spirito borghese si conservava una grande audacia intellettuale, cento spanne al di sopra dell’apologia filistea con la quale gli ideologi della società capitalistica raccontavano le loro “storie” sull’armonia prestabilita dell’universo.
<<Un filosofo produce idee, un poeta poesie, un pastore prediche, un professore compendi, eccetera. Un delinquente produce delitti. Se si considera più da vicino la connessione che esiste fra questa ultima branca di produzione e l’insieme della società, si abbandoneranno molti pregiudizi. Il criminale non solo produce crimini, ma anche il diritto penale e quindi anche il professore che tiene cattedra di diritto penale, e l’inevitabile manuale in cui questo stesso professore getta sul mercato generale i suoi contributi come “merce”. Ciò provoca un aumento della ricchezza nazionale, senza contare il piacere personale che, come ci assicura un testimonio competente, il professor Roscher, la composizione del manuale procura al suo autore. Il criminale produce inoltre tutta l’organizzazione poliziesca e la giustizia penale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati, eccetera, e tutte quelle differenti professioni che formano altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano le differenti facoltà dello spirito umano, creano nuovi bisogni e nuove maniere di soddisfarli. La sola tortura ha dato occasione alle più ingegnose invenzioni meccaniche, e nella produzione dei suoi strumenti ha dato impiego a una massa di onesti lavoratori. Il delinquente produce un’impressione, sia morale che tragica, secondo i casi, e rende così un “servizio” al movimento dei sentimenti morali ed estetici del pubblico. Egli non produce soltanto manuali di diritto penale, codici penali e legislatori penali, ma produce anche arte, bella letteratura, romanzi e perfino tragedie, come dimostrano
non solo “La colpa” di Múllner o “I masnadieri” di Schiller, ma anche l’“Edipo” e il “Riccardo Terzo”. Il criminale rompe la monotonia e la calma tranquillità della vita borghese. Egli la preserva così dalla stagnazione e provoca quella inquieta tensione, quella mobilità senza la quale lo stimolo della concorrenza verrebbe smussato. Egli dà così uno sprone alle forze produttive. Mentre il delitto sottrae una parte della eccessiva popolazione al mercato del lavoro, diminuendo così la concorrenza fra gli operai e impedendo, in una certa misura, la caduta del salario al di sotto del “minimum”, la lotta contro il delitto assorbe un’altra parte della stessa popolazione. Il criminale appare così come uno di quei fattori naturali di equilibrio, che stabiliscono un giusto livello e aprono tutta una prospettiva di “utili” occupazioni. Si potrebbe dimostrare fin nei dettagli l’influenza del delitto sullo sviluppo della forza produttiva. Le serrature sarebbero giunte alla perfezione attuale se non vi fossero stati ladri? E così la fabbricazione delle banconote, se non vi fossero stati falsari? Il microscopio avrebbe forse trovato impiego nelle comuni sfere commerciali senza le frodi nel commercio? La chimica pratica non deve altrettanto alla falsificazione delle merci e agli sforzi per scoprirla, quanto all’onesto fervore produttivo? Il delitto con i suoi mezzi, sempre nuovi di attacco alla proprietà, chiama in vita sempre nuovi mezzi di difesa, dispiegando così un’azione produttiva del tutto simile a quella esercitata dagli scioperi sull’invenzione delle macchine.
E, abbandonando la sfera del delitto privato, senza delitti nazionali sarebbe forse sorto il mercato mondiale, o anche solo le nazioni? E dal tempo di Adamo, l’albero del peccato non è nello stesso tempo l’albero della conoscenza? Mandeville, nella sua Fable of the bees (1705), aveva già mostrato la produttività di tutte le possibili occupazioni ecc., e soprattutto la tendenza di tutta questa argomentazione: “Ciò che in questo mondo chiamiamo il male, tanto quello morale quanto quello naturale, è il grande principio che fa di noi degli esseri sociali, è la solida base, la vita e il sostegno di tutti mestieri e di tutte le occupazioni senza eccezione[…]; è in esso che dobbiamo cercare la vera origine di tutte le arti e di tutte le scienze; e [ … ] nel momento in cui il male venisse a mancare, la società sarebbe necessariamente devastata se non interamente dissolta”.
Sennonché Mandeville era, naturalmente, infinitamente più audace e onesto degli apologeti filistei della società borghese>>.
E che dire, allora, degli apologeti del comunismo i quali smentiti dalla scienza e dalla storia fondano i loro inganni sui buoni sentimenti, sulle cieche pratiche comunitarie da esodo biblico (ci spiegassero almeno perché in queste isole felici dovrebbero attecchire i semi del nuovo mondo), sulla presunta moralità degli esseri umani che guiderà la nuova società. Questo modo di ragionare appartiene a due tipi umani disprezzati da Marx: i preti laici alla Malthus e i predicatori religiosi che promettono il paradiso per meglio nascondere l’inferno che è in terra. Gianfranco La Grassa nel suo ultimo scritto coglie con acume la differenza che c’è tra uno scienziato ed un apologeta:
<<Il modo del superamento distingue lo scienziato dall’imbonitore, dal puro ideologo che non mira ad alcuna “verità”, ma che grida sempre alla più alta Verità, quella suprema e, per ciò stesso, del tutto indimostrabile o verificabile, passassero millant’ anni.
E’ dunque indispensabile, quando si lavora su “vecchi paradigmi”, compiere un’opera di loro continuo sgrossamento, ma soprattutto di lente e progressive torsioni, e poi radicali ristrutturazioni, degli stessi onde provare ad adattarli a quelli che appaiono essere i “fatti”, i processi in corso di svolgimento secondo date direzionalità. Anche su questi fatti e processi è necessario essere prudenti, mai sposarli come ormai definitivi e certi; fatti e processi hanno senza dubbio un loro nocciolo duro, ma dipendono comunque in buona parte dalla loro interpretazione. Se le categorie usate in quest’ultima sono incerte e imperfette, non possiamo non tener conto che ci muoviamo in un circolo vizioso, che è del resto ineliminabile se si vuol pensare e non ripetere sciocchezze à la page.>>
La nostra epoca è ancora affollata da questi loschi figuri canterini e cicaleggianti che con i proclami più strambi annunciano, un giorno dopo l’altro, soluzioni per uscire dal capitalismo. Quest’ultime durano generalmente l’espace d’un matin (salvo essere costantemente riproposte in nuove fogge) e trovano eco finché servono bene i poteri dominanti, nell’azione di mascheramento del loro dominio. L’ obiettivo è sempre lo stesso, quello di irretire la nascita di un pensiero realmente anticapitalistico che si basa sulla scienza e non sull’utopia.