STATICITA’ E DINAMISMO: LA GRASSA CONTRO FINI

MASSIMO FINI

Massimo Fini è davvero incorreggibile, quando si convince di qualcosa tira dritto come un treno anche se di fronte c’è una galleria sbarrata dove si infrangeranno con un gran frastuono lui e le sue ubbie. Morirà come è vissuto: tanto rumore per niente. Forse è proprio questa sua sicumera ed il romanticismo delle sue idee nient’affatto esiziali per il sistema che gli consentono di occupare, con la sua faccia segnata da una selvaggia bohème giovanile, il grosso dei talkshow nazionali. Ecco l’ultima affermazione con la quale l’intellettuale della decrescita vorrebbe dimostrare che la nostra società è giunta alla fine del suo sviluppo, a causa di limiti intrisici al suo modello o modo di riproduzione:

Claude Lévi-Strauss, filosofo e antropologo francese, divide le società in “fredde” e “calde”. Le prime sono tendenzialmente statiche e privilegiano l’equilibrio e l’armonia a scapito dell’efficienza economica e tecnologica. Le seconde, cui appartiene la nostra, sono dinamiche e scelgono l’efficienza e lo sviluppo economico a danno però dell’equilibrio, dato che “producono entropia, disordine, conflitti sociali e lotte politiche, tutte cose contro le quali i primitivi si premuniscono e forse in modo più cosciente e sistematico di quanto non supponiamo”. Non esistono quindi “culture inferiori” e “culture superiori”. Si tratta semplicemente di società diverse che partono da presupposti diversi, ognuna delle quali sviluppa soltanto alcune delle potenzialità, e non altre, presenti nella natura umana. Comunque sia il guaio delle società dinamiche è che alla lunga finiscono fatalmente per essere strozzate dal loro stesso dinamismo e per fallire proprio in quell’economia su cui hanno puntato tutto, marginalizzando le altre esigenze umane. Queste società infatti non solo non possono fare marcia indietro, ma non possono nemmeno mantenere la velocità acquisita, devono sempre aumentarla. Quando questo non è più possibile il nastro si riavvolge all’indietro con rapidità supersonica consumando in pochissimo tempo ciò che era stato acquisito in secoli di trionfale avanzata. Questo è il rischio che corriamo noi, oggi”.

A parte il fatto che qualsiasi società corre sempre il rischio di decadere come tutte le cose umane, a Fini faccio una domanda semplice: ma le sue meravigliose società statiche, in armonia con il tempo e la natura, dove sono finite? Non ne vedo tante in giro eccetto qualche clan nomade del deserto o qualche tribù sperduta in angoli remoti della foresta amazzonica. Pochi nuclei di persone che vivranno forse felici e spensierati ma molto meno comodamente di lui e di me e con una media esistenziale al di sotto della sua e della mia. Certo, c’è il vantaggio che tali “primitivi” riescano a sottrarsi all’età del rincoglionimento perché nemmeno ci arrivano, ma un uomo sciocco come Fini è sempre meglio di uno morto, almeno secondo lo sciocco stesso poiché la stupidità s’aggrappa alla vita meglio di una cozza allo scoglio. Se poi Fini fa invece riferimento, come già in altre occasioni, alle società precapitalistiche, contadine e pastorali, siamo nell’ambito della fantascienza sociale a ritroso, per cui nemmeno ci inoltriamo in detta letteratura da pensatori spensierati che entrano nella diatriba politica ed economica epocale armati di sogni e di visioni favolistiche. Comunque, le collettività equilibrate di cui Fini parla (e che sono un parto della sua fantasia squilibrata o eccezioni per indagini antropologiche e archeologiche) non mi sembra abbiano avuto cicli più lunghi di sussitenza rispetto a quelle occidentali, almeno dacché le prime hanno impattato con la nostra cultura che non è né superiore né inferiore ma molto più dinamica, adattabile, flessibile e sempre meglio armata.  Dunque, sono soccombute (mi si passi l’arcaismo almeno verbale, mi si spari se indietreggio sul piano sociale) perché il dinamismo implica una migliore conformabilità al mutamento storico e ambientale mentre la staticità e l’equilibro, che non esistono in natura e nemmeno nelle costruzioni umane, se non come effetto ottico di una vista superficiale, portano ovviamente ad una quiete identificabile con la morte e con l’assenza di qualsiasi segno vitale. Ma qui Fini ovviamente confonde la staticità con lo stato di calma apparente che, tuttavia, non è mai definitivamente fissato  come può sembrare a chi inforca occhiali contraffatti con una immagine stampata direttamente sulle lenti. Afferma La Grassa nel suo ultimo libro in uscita per la Mimesis:

 “L’attività degli individui (nei gruppi), dei gruppi sociali (nelle formazioni particolari), di queste ultime (con i loro Stati, con gli organismi detti internazionali, ecc.) nel mondo, tende sempre a cristallizzare la “realtà” (una specifica realtà) in un dato equilibrio, perché ogni azione, sempre preceduta da un progetto e dalla fissazione degli obiettivi da realizzare, ha bisogno di procedere in una situazione di stabilità. Noi perseguiamo quindi i nostri scopi, agendo in una serie successiva di “stati di quiete”, da noi posti e aggiornati via via in periodi successivi; in certi casi molto brevi, ad esempio nella vita individuale di tutti i giorni, altre volte assai lunghi, anche riguardanti intere fasi o epoche storiche. Gli ordinamenti giuridici, le Costituzioni, ecc. appartengono a questa, necessitata, modalità d’azione. Eguale affermazione va fatta per la formazione degli Stati moderni (il termine stato è molto appropriato), per la rete di apparati creati secondo una determinata architettura che varia da paese a paese, da un periodo storico all’altro. La fondazione di un’impresa nella sfera economica corrisponde allo stesso bisogno. L’azione di più giocatori, che è movimento, esige tuttavia il contrario di quest’ultimo: si cerca quindi di stabilire uno stato di quiete, che è il campo dell’azione. Così come le squadre di calcio, sport di chiaro movimento, hanno bisogno del campo di gioco che è uno stato di quiete. I costumi, le consuetudini, l’abitudine, la morale in particolare, appartengono alla stessa modalità d’azione in un campo che noi crediamo di poter stabilire in quanto stato di quiete. Insomma, la cultura di una data formazione sociale è questo stato di quiete, quasi sempre rappresentante un forte ostacolo al cambiamento, a tutto vantaggio degli individui (in un gruppo), dei gruppi (in una formazione particolare), di una formazione particolare (in un contesto globale più vasto), che hanno consolidato quello stato di quiete perché in esso giocano in posizione di vantaggio rispetto agli altri attori. La lotta che periodicamente si acuisce, poiché nuovi “soggetti” (attori) intendono rovesciare la preminenza dei precedenti, si sviluppa appunto attorno agli stati di quiete, duraturi da più o meno tempo.”

 Ancora più interessante è quest’altro passaggio un po’ più complicato ma assolutamente esplicativo di ciò che vogliamo far assimilare:

“In campo sociale, l’equilibrio (sempre apparente e celante le spinte e vibrazioni squilibranti) è generalmente favorito dalla vittoria di un gruppo di decisori – che non è affatto detto debba essere stato in origine un gruppo dominante, anzi può avere rovesciato quest’ultimo – alla fine di un periodo di forte accentuazione delle suddette spinte, periodo che indico come policentrico, quale fu ad esempio l’epoca detta dell’imperialismo. In ogni caso, solo la vittoria di un gruppo di decisori nella lotta per la supremazia tende a stabilire il presunto equilibrio; per il semplice motivo che le varie forze squilibranti si dispongono secondo una serie di spinte che si integrano reciprocamente. Faccio notare che sto parlando in tal caso di integrazione, non di mera compensazione.  Immaginiamo che in un grande recipiente (il mondo) si versino alcune grosse pietre che, pur urtandosi e “contrapponendosi”, stabiliscono un certo equilibrio (simile a quello che si forma quando una formazione particolare è predominante nel mondo). Vi si versi una serie di piccole pietre, che si sistemeranno nei vuoti esistenti tra le pietre più grosse. Anche queste minori pietre eserciteranno pressioni e forze sul resto, se non altro perché gli spazi vuoti si vanno restringendo e le superfici di contatto e frizione si accrescono; tali pietre più piccole, tuttavia, trovano infine i loro equilibri “subordinandosi” alla pressione superiore dei pietroni. Infine, si rovesci del pietrisco fine fine nel recipiente. Accadrà l’identico fenomeno precedente, i sassolini si sistemeranno tra le pietre più piccole, eserciteranno la loro pressione e frizione, ma in definitiva si sistemeranno e integreranno con il resto, “subordinandosi”, però, nel corso di tale integrazione. Tutte le pressioni e frizioni sembrano sparite, annullate, l’armonica integrazione sembra ormai assestata stabilmente. Niente di tutto questo. Il tempo e i fattori esterni (”atmosferici”) disgregano alcuni pietroni e anche pietre, ma portano pure progressivamente a nuove aggregazioni mediante fusione dei frantumi con ingrandimento di nuovi pietroni e pietre; e il fenomeno interesserà in vario grado anche il pietrisco. Gli equilibri stabilitisi svaniscono; così pure, l’integrazione tra i vari ordini di grandezza delle pietre mostra la sua transitorietà e sostanziale labilità di fronte alle spinte squilibranti, si producono allora frane nell’insieme e vanno creandosi nuove configurazioni del pietrame nel recipiente (mondo). Si entra insomma in un’epoca di mutamento. L’equilibrio apparente è venuto meno, ma semplicemente perché i processi temporali (storici) hanno annullato le forze di integrazione che attenuavano quelle squilibranti, incessanti e sempre attive malgrado sembrassero dissolte nell’illusoria armonia del “tutto”. Tale armonia, in realtà, era proprio il semplice apparire temporaneo di un equilibrio nel bel mezzo del flusso continuo squilibrante”.

Fini è padronissimo di trastullarsi col suo pensiero retrò ma noi lo siamo altrettanto quando facciamo avanzare un retropensiero sospettoso, poiché con le sue fanfaluche oniriche si fa ospitare in televisione, pubblica testi con la grande editoria nazionale ed avvelena i pozzi di una reale comprensione della fase storica, che anziché passare dal setaccio della teoria scientifica rigorosa si perde nei meandri dei sentimentalismi primordiali dove chi sogna un mondo migliore si risveglia costantemente in uno peggiore, contribuendo anche al suo deterioramento.

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Ps: Leggendo ultimamente il romanzo di Balzac, La cugina Bette, ho capito dove Berlusconi ha imparato lo stile parlamentare del vecchio porco di Stato che insegue le gonnelle fino a ottant’anni. I francesi ci sono cugini e precorritori, come sempre. Il puttanaio descritto dal grande romanziere francese a metà ottocento è irraggiungibile da cento Cavalieri nostrani. Ma noi abbiamo lasciato che Sarkozy ed il resto dei pudichi governanti europei ridesse di noi. Tutta colpa di questa sinistra semi-colta che anziché leggere i classici si butta nelle pagine di Baricco. Che ignoranza!